Illegittimo il licenziamento di un lavoratore con patologia oncologica: interpretazione estensiva del CCNL sul periodo di comporto

Maurizio Polato
18 Aprile 2023

Il presente contributo disamina una sentenza del Tribunale di Roma riguardante il licenziamento di una lavoratrice irrogato durante il periodo di malattia e ritenuto dalla stessa illegittimo in quanto comminato calcolando nel periodo di comporto anche le assenze per grave malattia oncologica. Dopo una breve descrizione del fatto, l'articolo ricapitola le soluzioni giuridiche adottate dalla Corte e le arricchisce con alcune osservazioni riguardanti l'interpretazione estensiva del ccnl e il licenziamento discriminatorio, evocando i percorsi ermeneutici, parte della CGUE e delle Corti domestiche, della normativa comunitaria e del diritto derivato interno.
Massima

Poiché la patologia di natura oncologica comporta una situazione di gravità e il ccnl non prevede una disciplina differenziale del comporto tra lavoratori disabili e normodotati, si rende necessaria un'interpretazione estensiva della norma contrattuale nonché l'esigenza di considerare prioritario - in presenza di tali patologie - il diritto alla salute ex articolo 32 Cost., inducono a non includere le giornate del ricovero e dei cicli di chemioterapia e/o radioterapia nel computo dei giorni di malattia.

Qualora ne derivi che il periodo di comporto deve ritenersi non superato, in violazione dell'art. 2110, co. 2, c.c., la ricorrente ha diritto alla reintegra nel proprio posto di lavoro con pagamento dell'indennizzo.

Il caso

La dipendente di un condominio, con mansioni di portiere, inquadrata nel 3° livello del Contratto collettivo nazionale di lavoro per i dipendenti da proprietari di fabbricati, adiva il Tribunale del lavoro di Roma per sentire dichiarare la illegittimità del licenziamento intimatole e, per l'effetto, sentir condannare parte resistente alla propria reintegra, nonché al pagamento delle retribuzioni maturate dal dì del licenziamento sino all'effettiva reintegra, oltre accessori.

La dipendente esponeva di essere stata sottoposta ad intervento chirurgico essendo affetta da neoplasia ascellare della mammella; che in data 23 novembre 2020 comunicava al datore di lavoro di essere ammalata dal 22 novembre 2020 sino a tutto il 19 dicembre 2020; di essere stata licenziata in data 18 dicembre 2020 con comunicazione pervenuta a mezzo telegramma.

Le questioni

La ricorrente lamenta l'illegittimità del licenziamento perché irrogato in periodo di malattia (che sarebbe infatti cessata il giorno 19 dicembre 2020); inoltre perché comminato computando nelle assenze per malattia grave (di natura oncologica) i giorni di ricovero ospedaliero e di day hospital, nonché quelli per effettuare le necessarie terapie. La resistente, nella parte motiva della lettera di licenziamento, avrebbe evidenziato come parte attrice si fosse “assentata dal lavoro per malattia con elevata frequenza determinando così il superamento del periodo di comporto previsto dall'articolo 91 del contratto collettivo di riferimento”.

Le soluzioni giuridiche

Il Giudicante osserva che “la patologia da cui è stata affetta la ricorrente è di natura oncologica: si è dunque in presenza di patologie sicuramente gravi che tuttavia non sono omogeneamente disciplinate nei vari contratti collettivi”. Infatti, alcuni ccnl prendono in considerazione i casi di malattie gravi, differenziando i periodi di conservazione del posto di lavoro. Ad esempio, il Ccnl Abbigliamento industria, all'

art. 62, lett. b)

prevede che “Al lavoratore ammalato sarà conservato il posto con decorrenza dell'anzianità a tutti gli effetti contrattuali per 13 mesi.

Con decorrenza 1° settembre 2010, il limite di cui al comma precedente è elevato a 15 mesi per le gravi patologie debitamente documentate e certificate, dovute a malattie degenerative che richiedano terapie salvavita e/o comportanti una invalidità lavorativa superiore ai 2/3.

L'obbligo di conservazione del posto per l'azienda cesserà comunque ove nell'arco di 30 mesi si raggiungano i limiti predetti anche con più malattie”; il Ccnl Alimentari industria: “Sempre nel caso delle patologie gravi di cui sopra che richiedano terapie salvavita, anche i giorni di assenza dal lavoro per sottoporsi a tali terapie - debitamente certificati dalla competente ASL o Struttura convenzionata - danno diritto a permessi ai sensi dell'art. 40, ove la fattispecie sia al di fuori dell'ambito nel quale le disposizioni INPS ravvisino uno stato morboso assistibile. In tale caso i predetti giorni di assenza non sono considerati ed inclusi né ai fini del computo dei periodi di comporto sopra indicati né ai fini del computo degli archi temporali di cui al precedente comma 2”.

Il ccnl applicato alla lavoratrice nulla prevede in proposito.

Tuttavia, il Giudice capitolino osserva che nel contratto collettivo dei proprietari di fabbricato sussistono delle eccezioni con riferimento ai giorni necessari alla fecondazione assistita e a quelli necessari per le cure elio-balneo-termali. Sicché, a parere del Giudicante, attesa la peculiarità e la gravità della malattia oncologica, non possono non indurre ad interpretare le eccezioni previste in modo estensivo in uno con la considerazione della priorità e rilevanza precettiva dell'art. 32 Cost. (diritto alla salute), con esclusione quindi dal novero dei giorni computabili come malattia, dei giorni di ricovero ospedaliero e di quelli necessari alle conseguenti terapie. Ne deriva, quindi, che il periodo di comporto deve ritenersi non superato e che pertanto, attesa l'illegittimità (rectius, nullità) del licenziamento comminato, la ricorrente ha diritto alla reintegra nel proprio posto di lavoro con pagamento di un indennizzo pari a nove mensilità, stante una certa estensione nel tempo del rapporto di lavoro tra le parti, commisurate all'ultima retribuzione di fatto goduta.

Osservazioni

L'

art. 18 della l. n. 300/1970

è stato modificato dall'

art. 1, comma 42, della legge 28 giugno 2012, n. 92

, che ha diversificato in ragione del vizio specifico del licenziamento, le tutele per il lavoratore dipendente di un datore di lavoro che in ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo occupa alle sue dipendenze più di quindici lavoratori o più di cinque se si tratta di imprenditore agricolo, nonché al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, che nell'ambito dello stesso comune occupa più di quindici dipendenti e all' impresa agricola che nel medesimo ambito territoriale occupa più di cinque dipendenti, anche se ciascuna unità produttiva, singolarmente considerata, non raggiunge tali limiti, e in ogni caso al datore di lavoro, imprenditore e non imprenditore, che occupa più di sessanta dipendenti.

Vi è quindi una tutela reintegratoria “piena”, una “attenuata”, una tutela indennitaria “forte” ed una “debole”.

Permane la tutela “tradizionale” obbligatoria nei casi di licenziamento ingiustificato od affetto, qualora disciplinare, da vizi procedurali, ove non ricorra il requisito occupazionale appena descritto. Analoghe forme di tutela sono previste dal D.lgs. n. 23/2015, pur con delle varianti qualitative e quantitative.

La tutela reintegratoria piena, nei diversi casi di nullità del licenziamento, indicati nell'art. 18 co. 1 della l. n. 300/1970 (siccome novellato dalla c.d. “L. Fornero”), discriminatorio (v. infra nell'accezione), per matrimonio, per motivo illecito, ecc.), si applica “indipendentemente dal motivo formalmente addotto e quale che sia il numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro”.

Ex art. 2110 c.c., “In caso di infortunio, di malattia, di gravidanza o di puerperio, se la legge [o le norme corporative] non stabiliscono forme equivalenti di previdenza o di assistenza, è dovuta al prestatore di lavoro la retribuzione o un' indennità nella misura e per il tempo determinati dalle leggi speciali [dalle norme corporative], dagli usi o secondo equità [Cost. 38; disp. att. c.c. 98].Nei casi indicati nel comma precedente, l' imprenditore ha diritto di recedere dal contratto a norma dell'articolo 2118, decorso il periodo stabilito dalla legge [dalle norme corporative], dagli usi o secondo equità.”.

Durante il periodo di conservazione del posto di lavoro (comporto) il potere di recesso del datore di lavoro è paralizzato, incontrando un limite temporale. Tali limitazioni particolari vanno oltre i limiti di carattere generale configurando una «stabilità» temporanea e aggiuntiva rispetto a quella espressa dalla L. n. 604/1966 e dall'art. 18 Stat. lav. La ragione di fondo che presiede all'imposizione di simili vincoli è legata alla tutela di diritti fondamentali del lavoratore quale individuo e cittadino, costituzionalmente rilevanti e preminenti sull'obbligazione lavorativa, come il diritto alla salute (La cessazione del rapporto di lavoro, il licenziamento nullo, Diritto del Lavoro, 2. Il rapporto di lavoro subordinato, Carinci, Tosi, De Luca Tamajo, Treu (a cura di),Torino, 2022).

Se il licenziamento viene intimato nel corso del periodo di comporto, dottrina e giurisprudenza dominanti lo considerano inefficace (Cass., 3 aprile 2019, n. 9269): ciò significa solo che il licenziamento automaticamente, e senza bisogno di essere reiterato, riprenderà efficacia al termine dell'evento protetto o comunque del periodo d'irrecedibilità. Non manca però chi ne afferma la nullità (non sanabile al termine del periodo di comporto) per motivo illecito o per violazione della legge.

Infatti, recenti arresti giurisprudenziali di legittimità, in continuità con una pregressa serie di pronunzie succedutesi nel tempo, hanno chiarito che la fattispecie del recesso del datore di lavoro in caso di assenze determinate da malattia del lavoratore si inquadra nello schema previsto ed è soggetta alle regole dettate dall'art. 2110 c.c. Tali regole prevalgono, per la loro specialità, sia sulla disciplina generale della risoluzione del contratto per sopravvenuta impossibilità parziale della prestazione lavorativa, sia sulla disciplina limitativa dei licenziamenti individuali, con la conseguenza che il datore di lavoro non può unilateralmente recedere o, comunque, far cessare il rapporto di lavoro prima del superamento del limite di tollerabilità dell'assenza. Il superamento di tale limite è, invece, condizione sufficiente di legittimità del recesso, non essendo necessaria la prova del giustificato motivo oggettivo né della sopravvenuta impossibilità della prestazione lavorativa, né della correlata impossibilità di adibire il lavoratore a mansioni diverse, senza che ne risultino violati disposizioni o principi costituzionali (Calderara, Cause di sospensione della prestazione lavorativa, in Santoro Passarelli e AA.VV, Diritto e processo del lavoro e della previdenza sociale - tomo primo, Torino, 2020).

L'art. 2110 c.c. ha natura derogatoria e speciale. Pertanto, la disposizione prevale sia rispetto alla disciplina codicistica sulla sopravvenuta impossibilità parziale dell'attività lavorativa, sia sulla disciplina dei licenziamenti individuali. Il licenziamento, infatti, potrà essere intimato solo previo preavviso e dopo il superamento di un certo periodo di tempo chiamato “comporto”.

Se il licenziamento, quindi, è determinato dallo stato di malattia del prestatore, si pone in contrasto con l'articolo 2110 c.c., con conseguente nullità dello stesso per contrarietà a precetto imperativo.

Già Cass., sez. un., 22 maggio 2018, n. 12568 si era pronunziata per la nullità del licenziamento intimato prima dello scadere del comporto, giacché “Ammettere come valido (sebbene momentaneamente inefficace) il licenziamento intimato ancor prima che le assenze del lavoratore abbiano esaurito il periodo massimo di comporto significherebbe consentire un licenziamento che, all'atto della sua intimazione, è ancora sprovvisto di giusta causa o giustificato motivo e non è sussumibile in altra autonoma fattispecie legittimante.” (Cass., sez. un., (data ud. 13 marzo 2018) 22 maggio 2018, n. 12568).

Sempre secondo la medesima sentenza, la qualificazione della nullità del licenziamento a quo “costituisce una fattispecie autonoma di recesso diversa da quelle riconducibili ai concetti di giusta causa o giustificato motivo di cui all'art. 2119 cod. civ. e alla L. n. 604/1966, artt. 1 e 3.” (Ibidem).

Le Sezioni Unite (n. 12568/2018 cit., e già Cass., sez. un. n. 2072/1980), nell'interpretare l'art. 2110, comma 2, c.c., ne hanno sottolineato il carattere di norma imperativa, in combinata lettura con l'art. 1418 c.c., in quanto finalizzata all'esigenza di tutela della salute, il cui valore è sicuramente prioritario all'interno dell'ordinamento - atteso che l'art. 32 Cost. lo definisce come "fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività" - così come lo è quello del lavoro (artt. 1, comma 1, 4,35 e ss. Cost.). Hanno posto in rilievo come la salute non possa essere adeguatamente protetta se non all'interno di tempi sicuri entro i quali il lavoratore, ammalatosi o infortunatosi, possa avvalersi delle opportune terapie senza il timore di perdere, nelle more, il posto di lavoro. (Cfr.

Cass., sez. lav., 16 settembre 2022, n. 27334

).

Il quadro normativo afferente la reazione sanzionatoria a fronte della proclamata (dalle S.U.) e confermata nullità del licenziamento in discussione, è piuttosto complesso e variegato, suscettibile di un necessario intervento ermeneutico nomofilattico della Cassazione, chiamata a scegliere tra le diverse opzioni che hanno trovato accoglimento sia nella giurisprudenza di merito, ma soprattutto di legittimità.

Il profilo controverso riguarda il piano ulteriore degli effetti derivanti dall'accertamento di un siffatto vizio, in relazione ad un rapporto di lavoro assistito da tutela cd. obbligatoria, come nel caso in disamina.

Alcune Corti territoriali hanno ritenuto di applicare, alla fattispecie concreta, il regime sanzionatorio di cui alla L. n. 604/1966, art. 8.

I recenti arresti della Cassazione sono di diverso avviso.

L'art. 18, comma 7 Stat. lav. dispone che “Il giudice applica la medesima disciplina di cui al quarto comma del presente articolo nell'ipotesi in cui accerti… (omissis) che il licenziamento è stato intimato in violazione dell'articolo 2110, secondo comma, del codice civile”.

Mentre il successivo comma 8 specifica che “Le disposizioni dei commi dal quarto al settimo si applicano al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, che in ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo nel quale ha avuto luogo il licenziamento occupa alle sue dipendenze più di quindici lavoratori o più di cinque se si tratta di imprenditore agricolo, nonché al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, che nell'ambito dello stesso comune occupa più di quindici dipendenti e all' impresa agricola che nel medesimo ambito territoriale occupa più di cinque dipendenti, anche se ciascuna unità produttiva, singolarmente considerata, non raggiunge tali limiti, e in ogni caso al datore di lavoro, imprenditore e non imprenditore, che occupa più di sessanta dipendenti.”. In buona sostanza, il combinato disposto dei comma 7 ed 8 rinvia all'applicazione della sanzione della reintegra “attenuata” per i datori di lavoro privi dei requisiti dimensionali previsti dal medesimo comma 8 dell'art. 18 (ex tutela reale ante L. 92/2012). Sarebbe esclusa quindi l'applicazione del comma 1 ex art. 18 L. 300/1970 (tutela reintegratoria piena). Ovvero, dell'art. 8 L. n. 604/1966 per i datori di lavoro di piccole dimensioni? Quid iuris?

La Corte di Cassazione, con orientamento costante, per le fattispecie di illegittimità consumate nell'ambito dimensionale dei datori di lavoro sottoposti alla c.d. tutela obbligatoria, ha osservato come gli effetti del licenziamento dichiarato nullo (v. Cass. n. 15093/2009: licenziamento nullo per illiceità del motivo; Cass. n. 18537/2004; Cass. n. 9549/1995: licenziamento nullo perché intimato in violazione del L. n. 1204/1971 art. 2, comma 2; Cass. n. 2856/1979: licenziamento per rappresaglia, ante disciplina dell'art. 3 della L. n. 108/1990;) non fossero disciplinati, in via di estensione analogica, dalla normativa dettata dall'art. 8 della L. n. 604/1966, recando quest'ultima esclusivamente la disciplina per la diversa ipotesi dell'annullamento del licenziamento intimato senza giusta causa o giustificato motivo, bensì secondo il regime delle nullità di diritto comune di cui all'art. 1418 c.c. (v. da ultimo Cass. 19661/2019) (Cfr. Cass., sez. lav., 16 setembre 2022, n. 27334, cit.).

L'art. 18, comma 1, L. 300/1970, ha raggruppato le fattispecie di nullità assoggettate alla tutela reintegratoria piena, facendo rientrare nel campo di applicazione oggettivo anche le ipotesi precedentemente assoggettate al regime delle nullità di diritto comune.

Come evidenziato dianzi, il licenziamento intimato in violazione dell'art. 2110, comma 2, c.c., viziato da nullità in base all'orientamento della Corte a S.U. n. 12568/2018 cit., non è compreso nella previsione di cui all'art. 18, comma 1, cit., ma è contemplato nel comma 7, laddove il successivo comma 8, richiamando i comma da 4 a 7, ne decreta l'applicazione del regime di tutela della reintegrazione attenuata e “solo” con riguardo ai datori di lavoro di maggiori dimensioni. Sul disposto del comma 8 cit. fanno leva, essenzialmente, talune sentenze di merito per ritenere non applicabile, alla fattispecie del licenziamento nullo in violazione dell'art. 2110, comma 2, c.c. intimato dai datori di lavoro di minori dimensioni, la tutela reintegratoria ed applicabile, invece, la disciplina di cui all'art. 8, L. n. 604/1966.

Cass., n. 27334/2022 cit., esclude che possa invocarsi l'applicazione del citato art. 8, L. 604/1966, che riguarda esclusivamente la diversa ipotesi dell'annullamento del licenziamento intimato senza giusta causa o giustificato motivo.

Esclude altresì che la sanzione possa identificarsi con la tutela reale piena, oppure al regime delle nullità di diritto comune, attesa l'irragionevolezza del sistema e la disarmonia nel regime delle tutele per il caso di licenziamento, con l'effetto paradossale di una tutela più forte di quella garantita dai commi 7 e 4 dell'art. 18 che, per i lavoratori dipendenti da datori aventi i requisiti dimensionali, limita a dodici mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto il risarcimento del danno.

La sentenza di legittimità del 2022 risolve l'apparente paradossale discrasia scindendo la fattispecie della nullità ex art. 2110, comma 2, c.c., collocandola ontologicamente (e virtualmente) nel disposto normativo di cui all'art. 18, comma 1, Stat. lav. che rassegna una serie di ipotesi di nullità ivi includendo “altri casi di nullità previsti dalla legge”, ritenendo, cionondimeno, applicabile, ai soli fini del rimedio sanzionatorio, la previsione di cui all'art. 18 comma 7, atteso che, in considerazione d'un minor giudizio di riprovazione dell'atto assunto in violazione di norma imperativa, ben può il legislatore graduare diversamente il rimedio ripristinatorio pur in presenza della medesima sanzione di nullità, di guisa che la citata previsione del comma 7 dell'art. 18 si pone come norma speciale rispetto a quella generale contenuta nel comma 1 là dove si parla di altri casi di nullità previsti dalla legge" (sentenza delle S.U. n. 12568 del 2018, cit.).

In effetti, tra le diverse opzioni ermeneutiche articolate dalla S.C., quella prescelta sembra quantomeno la più ragionevole sotto il profilo sia della ratio che della lettera.

Ed a questo orientamento si è senz'altro uniformato, senza peraltro affermarlo in claris nelle scarne motivazioni della sentenza, il Giudice capitolino laddove dispone che “la ricorrente ha diritto alla reintegra nel proprio posto di lavoro con pagamento di un indennizzo pari a nove mensilità”.

Infine, vanno indagati il metodo e i parametri interpretativi del ccnl applicato con riguardo alle clausole disciplinanti il periodo di comporto, e segnatamente il nesso causale tra natura e gravità della malattia e computo o meno delle relative assenze nel periodo di conservazione del posto di lavoro.

Il Giudicante ricorre al canone dell'interpretazione estensiva delle clausole contrattuali; anzi, non appare revocabile in dubbio anche l'uso dell'analogia esterna, quando si esercita nella comparazione tra clausole contrattuali, regolanti la medesima fattispecie (periodo di comporto), appartenenti a ccnl diversi: “Ora, è bene sottolineare che la patologia da cui è stata affetta la ricorrente è di natura oncologica: si è dunque in presenza di patologie sicuramente gravi che tuttavia non sono omogeneamente disciplinate nei vari contratti collettivi.

Ad esempio, in presenza di patologie oncologiche o particolarmente gravi, molti CCNL del settore pubblico e del settore privato prolungano il periodo di comporto, mentre altri lo prolungano del 50% solo in caso di ricovero ospedaliero o di accertata necessità di cura” (pag. 2).

Il GL afferma che “non può non osservarsi che nel contratto collettivo in esame sussistono delle eccezioni e precisamente i giorni necessari alla fecondazione assistita e quelli necessari per le cure elio-balneo- termali. Sì che - a parere del Giudicante- la peculiarità e la gravità della malattia oncologica non possono non indurre ad interpretare le eccezioni previste nell'articolo 90 in modo estensivo, con esclusione quindi dal novero dei giorni computabili come malattia, dei giorni di ricovero ospedaliero e di quelli necessari alle conseguenti terapia”(pag. 2).

Il ricorso all'interpretazione estensiva non appare ben motivato, né sembrano rispettati i rigorosi criteri ermeneutici di cui agli artt. 1362 e segg. c.c.

Dalla riconduzione del contratto collettivo di diritto comune agli atti di autonomia privata deriva la sua sottoposizione alle norme del codice civile in materia di contratti ed in particolare modo agli artt. 1362 ss. sull'interpretazione, sottraendoli alla disciplina dell'art. 12 preleggi che regola l'interpretazione della legge. (Cfr. Schiavetti, Il contratto collettivo nazionale di lavoro, in Santoro Passarelli e AA.VV, Diritto e processo del lavoro e della previdenza sociale - tomo secondo, Torino, 2020).

Nell'interpretazione di un contratto collettivo, soggetto, per la sua natura privatistica, alle disposizioni dettate dagli artt. 1362 ss. c.c., non può farsi ricorso all'analogia, prevista, dall'art. 12, c. 2, preleggi, per la sola norma di legge, fermo restando che il giudice, ai sensi dell'art. 1365 c.c., può estendere, mediante un'interpretazione estensiva, una pattuizione ad un caso non espressamente contemplato dalle parti, ma ragionevolmente assimilabile a quello regolato (Cass. 19 dicembre 2017, n. 30420).

L'art. 90 del Ccnl, in mancanza di una nozione legale, definisce malattia una “alterazione dello stato di salute che comporti incapacità alla prestazione lavorativa. È altresì assimilato alla malattia lo stato di incapacità lavorativa derivante da eventi di fecondazione assistita.

2. Non rientrano nel concetto di malattia gli infortuni sul lavoro, per i quali già sussiste l'obbligo della copertura assicurativa in favore del lavoratore, né i periodi di assenza dal lavoro per gravidanza e puerperio nonché per l'effettuazione delle cure elio-balneo-termali.” Il successivo art. 91, par. 7, in materia di comporto, stabilisce che “Durante la malattia il lavoratore ha diritto alla conservazione del posto fino a 180 giorni di calendario per ogni evento, con il massimo di 180 giorni nell'arco di un anno civile, per tale intendendosi il periodo dal 1° gennaio al 31 dicembre di ogni anno.”

Quindi, secondo la volontà delle parti, fatta eccezione per le assenze occasionate da infortunio, le altre (assenze), causalmente riconducibili a fattispecie che incidono sullo (s)computo dal periodo di conservazione del posto, non sono relative al concetto di malattia siccome definito dall'art. 90. Tali causali non paiono ragionevolmente assimilabili ad uno stato patologico in situazione di gravità. Pertanto l'estensione operata dal Giudice, oltre ad essere immotivata, non appare aderente ai rigorosi canoni interpretativi delineati dal S.C.

Sembra, invece, più ragionevole e plausibile, pur con le cautele e le accorte precisazioni accolte dalla giurisprudenza di merito (Cfr. ex plurimis Tribunale Vicenza, sez. lav., 27 aprile 2022, n. 181; Trib. Lodi 12 settembre 2022, n. 19), un approccio interpretativo che coinvolga la riflessione sul concetto di licenziamento discriminatorio (Cfr. ex multis, App. Napoli 17 gennaio 2023, n. 168; Trib. Parma 9 gennaio 2023, n. 1; Trib. Mantova 22 settembre 2021; App. Genova 21 luglio 2021, n. 211; Trib. Verona 21 marzo 2021; App. Roma 26 maggio 2021; Trib. Lecco 26 giugno 2022).

Sorto e sviluppatosi di riflesso ad alcuni arresti della Corte di Giustizia dell'Unione Europea, un intenso dibattito giurisprudenziale – una vera e propria diatriba – sta ormai da alcuni anni interessando le corti di merito con riferimento alla possibile natura discriminatoria dell'applicazione di un medesimo periodo di comporto per lavoratori disabili (rectius, portatori di “handicap”, secondo il criterio fissato dal diritto internazionale e comunitario, v. infra ) e lavoratori non disabili (Dagnino, Comporto, disabilità e disclosure: note a margine di una querelle Giurisprudenziale, in ADL n. 1/2023).

La Direttiva del consiglio 27 novembre 2000, n. 2000/78/CE (di seguito direttiva) fissa l'obiettivo di “stabilire un quadro generale per la lotta alle discriminazioni fondate ….omissis, (su)gli handicap, …omissis, per quanto concerne l'occupazione e le condizioni di lavoro al fine di rendere effettivo negli Stati membri il principio della parità di trattamento.” (Art. 1, Dir. 78/2000).

La direttiva definisce la discriminazione diretta e indiretta.

Con riguardo alla seconda, giacché la prima involge un contegno soggettivamente rilevante nella causazione della situazione di svantaggio, questa si concretizza “quando una disposizione, un criterio o una prassi apparentemente neutri possono mettere in una posizione di particolare svantaggio (omissis), le persone portatrici di un particolare handicap (omissis), rispetto ad altre persone, a meno che:

i) tale disposizione, tale criterio o tale prassi siano oggettivamente giustificati da una finalità legittima e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari; o che

ii) nel caso di persone portatrici di un particolare handicap, il datore di lavoro o qualsiasi persona o organizzazione a cui si applica la presente direttiva sia obbligato dalla legislazione nazionale ad adottare misure adeguate, conformemente ai principi di cui all'articolo 5, per ovviare agli svantaggi provocati da tale disposizione, tale criterio o tale prassi.” (Art. 2, comma 2, lett. b), Dir. n. 2000/78/CE).

La disabilità, secondo una definizione ampia della Corte di giustizia (accolta anche dalla Corte suprema: Cass. n. 6798/2018), orientata su una nozione sociale e non medica, è considerata come un limite, derivante da minorazioni fisiche, mentali o psichiche, che ostacola la partecipazione di chi ne è soggetto alla vita professionale. Alla luce delle previsioni in materia di soluzione ragionevole e accomodamenti del luogo di lavoro (di cui si dirà meglio infra), la Corte ha altresì dedotto che la disabilità si caratterizzi per una lunga durata. Una malattia è quindi assimilabile alla disabilità qualora, per un periodo considerevole, costituisca una limitazione alla piena ed effettiva partecipazione del lavoratore alla vita professionale [CGUE 18 dicembre 2014, C-354/13, Kaltoft].

Il D.lgs. 216/2003 ha dato attuazione alla Direttiva, traslandone i contenuti nel diritto interno.

A partire dalla sentenza della CGUE dell'dell'11 aprile 2013 e, poi, sulla base della sentenza Ruiz Conejero del 18 gennaio 2018 si sono andati sviluppando due opposti orientamenti giurisprudenziali: se una parte della giurisprudenza riconduce la prassi di non differenziare i periodi di comporto tra lavoratori normodotati e lavoratori portatori di handicap, alla nozione di discriminazione indiretta di cui al D.lgs. n. 216/2003 e alla Direttiva 2000/78/CE, altra parte della giurisprudenza ritiene che il modello di tutela delineato dall'ordinamento italiano sia conforme al quadro normativo euro-unitario in materia antidiscriminatoria.

Dal momento che la definizione tanto delle concrete finalità di politica sociale, quanto delle misure per la sua realizzazione rappresentano ambito di esercizio di un ampio potere discrezionale da parte dei legislatori degli Stati membri, con scelta coerente con gli orientamenti maggioritari della Corte e con il regime di competenze nel sistema multilivello – ma, che è stata incisivamente definita, un po' “pilatesca”-, la Corte di Giustizia rimette la verifica delle cause di giustificazione ai giudici nazionali. È in questo spazio valutativo che insistono i due orientamenti sopra richiamati nel giudicare la legittimità dell'applicazione delle discipline contrattual-collettive che definiscono il periodo di comporto, ai sensi dell'art. 2110, comma 2, del Codice Civile, senza differenziarne l'estensione con riferimento ai lavoratori disabili (Dagnino, Comporto, disabilità e disclosure: note a margine di una querelle Giurisprudenziale, op. cit.).

Come evidenziato supra, la contrattazione collettiva si è espressa o uniformando i periodi di comporto senza differenziazione alcuna tra lavoratori disabili e non disabili, oppure estendendo i periodi di protezione o scomputando determinati periodi di malattia, al ricorrere di particolari circostanze.

Quanto all'orientamento favorevole alla riconduzione dell'applicazione del medesimo periodo di comporto a discriminazione indiretta ex art. 2, comma 1, lett. b) del D.lgs. n. 216/2003,esso ha concentrato, almeno in un primo momento, la propria attenzione sulla assenza di una idonea misura – nel caso di specie lo scomputo delle malattie dovute all'handicap – per ovviare alle conseguenze della disposizione rispetto alla situazione del lavoratore disabile. In questo modo, tale giurisprudenza, fa nella sostanza una applicazione cumulativa delle due cause di giustificazione, ritenendo sufficiente l'assenza della scriminante riconosciuta per i lavoratori disabili per considerare discriminatorio il licenziamento (Ibidem).

Anche la contrattazione collettiva contenente clausole differenziali diverse dallo scomputo e volte ad attenuare gli effetti dell'applicazione dell'art. 2, comma 1, lett. b) del D.lgs. n. 216/2003, sono ritenute inidonee a rispondere in maniera completa alla esposizione del lavoratore disabile al fattore di rischio o che comunque non distinguono la situazione del lavoratore disabile da quella di altro lavoratore.

Condivide tale orientamento il Trib. di Lecco laddove considera che “secondo il diritto dell'Unione europea, come confermato dal legislatore nazionale, la discriminazione rileva oggettivamente, sicché è del tutto irrilevante, ai fini del riconoscimento della discriminatorietà di un atto, l'intento soggettivo dell'agente: ciò che la legislazione prende in considerazione è l'effetto oggettivamente considerato del trattamento discriminatorio, che è anche ciò che intende e vitale. Sul punto, la Suprema Corte ha così chiarito: “La discriminazione- diversamente dal motivo illecito-opera obiettivamente, ovvero in ragione del mero rilievo del trattamento deteriore riservato al lavoratore quale effetto della sua appartenenza alla categoria protetta, ed a prescindere dalla volontà illecita del datore di lavoro (Cass., sez. lav., 5 aprile 2016, n. 6575)”(Trib. Lecco, 27 giugno 2022, n. 21).

Benché minoritaria rispetto all'orientamento rassegnato supra, un certo numero di pronunce ha sostenuto la legittimità dell'applicazione delle previsioni contrattual-collettive che non differenziano il trattamento tra lavoratore disabile e altri lavoratori. (Dagnino, Comporto, disabilità e disclosure: note a margine di una querelle Giurisprudenziale, op. cit.)

Partendo dalla causale scriminante relativa alla legittimità della finalità perseguita e della appropriatezza e necessarietà dei mezzi adottati, posto che la legittimità delle finalità della disciplina del comporto non è revocata in dubbio nemmeno dalla giurisprudenza sopra citata, è sul secondo profilo che si segnalano le differenze interpretative con la posizione dell'orientamento favorevole alla natura indirettamente discriminatoria di tale disciplina (Dagnino, op. cit.).

Questo filone giurisprudenziale, per la verità con maggiore equilibrio rispetto alla tendenza interpretativa cumulativa delle scriminanti ex art. 2, comma 2, lett. b), Dir. n. 2000/78/CE, pone l'accento sui criteri di legittimità, appropriatezza e necessità e sulle misure adeguate derivanti da “Soluzioni ragionevoli per i disabili”, nel rispetto dei principi di proporzionalità e ragionevolezza e purché la finalità sia legittima, anche con l'adozione di “accomodamenti ragionevoli” (Art. 3, co. 3-bis, D.lgs. 9 luglio 2003, n. 216; art. 5, Direttiva n. 2000/78/CE).

Discostandosi in parte dalle statuizioni giurisprudenziali di merito circa la rilevanza oggettiva della discriminazione, prescindendo da ogni intento collaborativo delle parti e cognitivo del datore di lavoro (Cfr. Trib. Lecco, 27/06/2022), non vi è dubbio che la derivazione comunitaria della normativa (interna) invocata imponga una sua interpretazione alla luce della direttiva 2000/78/CE di cui costituisce attuazione, nonché della giurisprudenza della Corte di Giustizia. Ma i principi espressi dalla CGUE devono essere contestualizzati, tenuto conto dei profili fattuali peculiari delle fattispecie poste al suo esame, nonché del margine più o meno ampio di apprezzamento lasciato agli Stati membri nel raggiungimento dello scopo della direttiva, e nella definizione delle misure atte a realizzarlo (Trib. Vicenza, 27 aprile 2022, n. 181; Trib. Venezia, 7 dicembre 2021, n. 6273).

A fronte di una normativa o una condotta datoriale di mancato scomputo dei giorni di malattia dovuti alla disabilità spetta sempre al giudice nazionale verificare, da un lato, se il datore di lavoro non abbia previamente messo in atto, nei confronti di tale lavoratore, soluzioni ragionevoli, ai sensi dell'articolo 5 della suddetta direttiva, al fine di garantire il rispetto del principio di parità di trattamento (cfr. sentenza CGUE dell'11 settembre 2019 n. 397, DW, C-397/18), e dall'altro la legittimità della finalità perseguita dalla normativa interna, ovvero che i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati, e che essi non vadano oltre quanto necessario per raggiungere l'obiettivo perseguito dal legislatore (cfr. sentenza CGUE del 18 gennaio 2018, Ruiz Conejero, C-270/16, riportata nella sent. di merito) (Trib. Vicenza 27 aprile 2022, cit.).

Occorre, quindi, valutare la fattispecie concreta, operare un bilanciamento tra i contrapposti interessi delle parti (Cfr. App. Torino, 26 ottobre 2021), sia, infine valutare la legittimità dell'obiettivo perseguito dalla disposizione potenzialmente discriminatoria.

Peraltro, va notato che nel considerando n. 17, la Direttiva premette che “non prescrive l'assunzione, la promozione o il mantenimento dell'occupazione né prevede la formazione di un individuo non competente, non capace o non disponibile ad effettuare le funzioni essenziali del lavoro in questione, fermo restando l'obbligo di prevedere una soluzione appropriata per i disabili”.

L'interesse del lavoratore disabile a conservare il posto di lavoro deve essere ponderato in relazione sinallagmatica con quello del datore di lavoro di non doversi fare carico a tempo indefinito del contraccolpo che le assenze cagionano all'organizzazione aziendale (App. Torino, sent. cit.).

Si ritiene che la nozione di disabilità introdotta dalla direttiva comunitaria non preveda una tutela assoluta in favore del soggetto disabile, dovendosi salvaguardare il bilanciamento degli interessi contrapposti: da un lato l' interesse del disabile al mantenimento di un lavoro adeguato al suo stato di salute, in una situazione di oggettiva ed incolpevole difficoltà; d'altro lato l'interesse del datore a garantirsi comunque una prestazione lavorativa utile per l'impresa, tenuto conto che l'

art. 23 Cost.

vieta prestazioni assistenziali, anche a carico del datore di lavoro, se non previste per legge (

Cass., sez. un., n. 7755/1998

) (Trib. Vicenza, sent. cit.).

Secondo recente dottrina, nel commentare gli insegnamenti di Cass. 6497/2021 – ove è identificato chiaramente il punto di caduta della legittimità o meno del licenziamento nella necessaria preventiva adozione di accomodamenti ragionevoli e proporzionati da parte del datore di lavoro, onerato di dimostrare di aver fatto tutto il possibile per trovare all'interno della propria organizzazione aziendale una occupazione adeguata per il lavoratore divenuto inidoneo, fermo soltanto il limite “non valicabile del pregiudizio a situazioni soggettive che assumano la consistenza di diritti soggettivi altrui”, ma con il dovere di effettuare comunque una comparazione delle posizioni soggettive (oltre che fra datore e lavoratore coinvolto) anche fra il lavoratore inidoneo e gli altri lavoratori - è ben possibile ricordare che costituiscono soluzioni possibili – ossia «misure efficaci e pratiche» (cfr. considerando 20 della direttiva) – la sistemazione dei locali, l'adattamento delle attrezzature, l'acquisto di nuovi strumenti tecnologici, la revisione dei ritmi di lavoro e dell'orario, la modifica della sede, la diversa ripartizione dei compiti, la fornitura di nuovi mezzi di formazione etc. (Cfr. S. D'Ascola, Il ragionevole adattamento nell´ordinamento comunitario e in quello nazionale. Il dovere di predisporre adeguate misure organizzative quale limite al potere di recesso datoriale, in VTDL, 2022, n. 2, 179).

Ora, se la Corte di Lussemburgo è ormai consolidata nell'intendere la nozione di "handicap" ai sensi della direttiva nel senso di "una limitazione, risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche durature, che, in interazione con barriere di diversa natura, può ostacolare la piena ed effettiva partecipazione dell'interessato alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori" (sentenze 11 aprile 2013, HK Danmark, C-335/11 e C-337/11, punti 38-42; 18 marzo 2014, Z., C-363/12, punto 76; 18 dicembre 2014, FOA, C-354/13, punto 53; 1° dicembre 2016, Mo. Da. C-395/15, punti 41-42), soprattutto per un datore di lavoro quale un condominio, oppure una microimpresa, imporre la conservazione del posto di lavoro sine die, oltre a sostenere i costi afferenti l'adozione di accomodamenti ragionevoli, appare in effetti sproporzionato ed irragionevole.

La direttiva, infatti, non dimentica la necessità di trovare un punto di equilibrio tra i contrapposti interessi datoriali e dei lavoratori colpiti da handicap, allorché nel considerando n. 21 prescrive che “Per determinare se le misure in questione danno luogo a oneri finanziari sproporzionati, è necessario tener conto in particolare dei costi finanziari o di altro tipo che esse comportano, delle dimensioni e delle risorse finanziarie dell'organizzazione o dell'impresa e della possibilità di ottenere fondi pubblici o altre sovvenzioni.”

Ritenere che dalle assenze per malattia debbano essere espunte quelle determinate dallo stato di handicap., determinerebbe, nella sostanza, una disapplicazione della norma (art. 2110 c.c., in combinazione col ccnl) per la maggior parte delle ipotesi (Trib. Venezia, 7 dicembre 2021, n. 6273, cit.).

Se poi anche si volesse ipotizzare l'esistenza di un obbligo in capo al datore di lavoro di espungere dal comporto le assenze collegate allo stato di invalidità del dipendente, allora necessariamente occorrerebbe, al fine di rendere esigibile detto obbligo, imporre al dipendente l'onere di comunicare quali assenze siano riconducibili alla malattia invalidante stante l'oggettiva impossibilità per il datore di lavoro di controllare detto nesso causale non essendo a conoscenza della diagnosi dei certificati di malattia di cui normalmente viene a conoscenza solo in sede di impugnazione del recesso.

Il dovere del datore di lavoro di espungere dai giorni di assenza per malattia quelli riconducibili alla disabilità del dipendente presuppone infatti la conoscenza della ragione dell'assenza e detta conoscenza è possibile solo con la cooperazione del dipendente sul quale incombe l'onere di comunicare le assenze riconducibili alla disabilità.

L'adempimento di detto onere è reso estremamente agevole dal d.m. 18 aprile 2012 che ha introdotto la possibilità di indicare nei certificati barrando la corrispondente casella se l'assenza dal lavoro sia uno stato patologico connesso alla situazione di invalidità riconosciuta.

La composizione dei contrapposti interessi delle parti è quindi possibile solo per il tramite della collaborazione di entrambe le parti e la comunicazione da parte del lavoratore disabile dei giorni di malattia riconducibili alla disabilità, oltre ad essere condotta certamente non gravosa, si inquadra nel rispetto dei canoni di buona fede e correttezza nell'adempimento della prestazione.

Nel giudizio di bilanciamento dei contrapposti interessi delle parti non può infatti prescindersi dalla considerazione che è il lavoratore a dover dimostrare l'esistenza di una causa giustificatrice dell'assenza, fatto impeditivo dell'inadempimento conseguente alla mancata erogazione della prestazione lavorativa (Cfr. App. Torino, cit.; Trib Vicenza, cit.).

Va, infine, osservato che la sanzione rimediale in ipotesi di licenziamento nullo perché discriminatorio va individuata in quella prevista dall'art. 18, comma 1, 2 e 3 dello Stat. lav.

Minimi riferimenti bibliografici

La cessazione del rapporto di lavoro, il licenziamento nullo, in Dir. lav., 2. Il rapporto di lavoro subordinato, Carinci, Tosi, De Luca Tamajo, Treu (a cura di),Torino, 2022.

Calderara, Cause di sospensione della prestazione lavorativa, in Santoro Passarelli e AA.VV, inDiritto e processo del lavoro e della previdenza sociale - tomo I, Torino, 2020.

Dagnino, Comporto, disabilità e disclosure: note a margine di una querelle Giurisprudenziale, in Argomenti di Diritto del lavoro, n. 1/2023

Cfr. Schiavetti, Il contratto collettivo nazionale di lavoro, in Santoro Passarelli e AA.VV, Diritto e processo del lavoro e della previdenza sociale - tomo II, Torino, 2020.

G. Alpa, V. Mariconda, Codice dei Contratti Commentato, Milano, 2020.

S. D'Ascola, Il ragionevole adattamento nell'ordinamento comunitario e in quello nazionale. Il dovere di predisporre adeguate misure organizzative quale limite al potere di recesso datoriale, inVariazioni su temi di Diritto del lavoro, 2022, n. 2, 179.

B. De Mozzi, Sopravvenuta inidoneità alle mansioni, disabilità, licenziamento, inLavoro diritti Europa, 2020, n. 2.

M. De Falco, Gli “accomodamenti ragionevoli” dopo l'inidoneità sopravvenuta, inLavoro diritti Europa, 2021, n. 3.

C. Garofalo, Illegittimità del licenziamento del lavoratore disabile. I diversi regimi sanzionatori, inVariazioni su temi di Diritto del lavoro, 2022, n. 2, 249.

D. Garofalo, La tutela del lavoratore disabile nel prisma degli accomodamenti ragionevoli, inArgomenti di Diritto del lavoro, 2019, 1211.

P. Lambertucci, Disabilità e discriminazione tra diritto comunitario e diritto interno, in Dir. merc. lav., 2020, 33.

M. Peruzzi, La protezione dei lavoratori disabili nel contratto di lavoro, inVariazioni su temi di Diritto del lavoro, 2020, 945.

G. R. Simoncini, I limiti al licenziamento del lavoratore disabile. Una proposta interpretativa alla luce del diritto antidiscriminatorio, in Labor, 2021, n. 2.

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