La giurisdizione internazionale nella disciplina del Codice della crisi

19 Aprile 2023

Il Codice della Crisi d'Impresa e dell'Insolvenza contiene due disposizioni in tema di giurisdizione, l'art. 11 e l'art. 26, che l'Autore sottopone ad esame in punto di corrispondenza alla normativa europea, ed in particolare al regolamento UE 2015/848.
Premessa

Il rilievo che la Legge Delega 155/2017 attribuisce alla disciplina delle procedure di insolvenza con profili transfrontalieri è ben evidenziato dal fatto che la stessa non si è limitata a dettare sul punto un semplice principio di delega, ma ha invece previsto all'art. 1, comma 2, un principio a valenza generale che imponeva al legislatore delegato non solo di tenere conto della normativa dell'Unione europea e in particolare del regolamento (UE) 2015/848 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 20 maggio 2015, relativo alle procedure di insolvenza, della raccomandazione 2014/135/UE della Commissione, del 12 marzo 2014, nonché dei princìpi della Model Law elaborati in materia di insolvenza dalla Commissione delle Nazioni Unite per il diritto commerciale internazionale (UNCITRAL)” ma anche di curare “il coordinamento con le disposizioni vigenti, anche modificando la formulazione e la collocazione delle norme non direttamente investite dai princìpi e criteri direttivi di delega, in modo da renderle ad essi conformi, e adottando le opportune disposizioni transitorie.

Si trattava, come si vede, di un ampio mandato che imponeva, non un semplice recepimento della disciplina di fonte transnazionale nelle norme dedicate specificamente al tema, bensì un più vasto compito di coordinamento esteso a tutte le previsioni vigenti, anche se non direttamente interessate dai principi di delega.

Riflesso di questo vincolo di delega è la formulazione all'interno del Codice della Crisi d'Impresa e dell'Insolvenza di ben due previsioni in tema di giurisdizione: l'art. 11 CCII – che costituisce l'unica previsione contenuta nella Sezione IV (“Giurisdizione internazionale”) e si presenta come norma conclusiva del Titolo I sulle “Disposizioni Generali” – e l'art. 26 CCII – che è invece collocato nel Titolo III (“Strumenti di regolazione della crisi e dell'insolvenza”) quale unica previsione del suo Capo I – con un effetto finale che, sul piano sistematico non può non suscitare perplessità, ma in relazione al quale si registrano già convergenze in ordine al fatto che deve essere l'art. 11 a dover guidare l'interprete nella successiva lettura dell'art. 26, con la conseguenza che, in presenza di contrasti, a prevalere dovrebbero essere le indicazioni evincibili dall'art. 11 a discapito di quanto emergente dall'art. 26 [L. Boggio, L'accesso alle procedure di regolazione della crisi o dell'insolvenza, in Giur. It., 2019, 1955].

Discrasie tra le due previsioni, del resto, non mancano, sol che si consideri che l'art. 11 CCII si riferisce genericamente all'accesso a uno strumento di regolazione della crisi e dell'insolvenza o a una procedura di insolvenza, senza operare alcuna distinzione soggettiva, mentre l'art. 26 CCII risulta riferito espressamente al solo “imprenditore”, con la conseguenza che esso non dovrebbe trovare applicazione ai professionisti ed ai consumatori, al punto che è proprio su tale profilo che un'opinione viene ad ancorare la distinzione tra le due previsioni [F. Lamanna, Il codice della Crisi e dell'insolvenza dopo il secondo Correttivo, Milano, 2022, 125].

In realtà, la lettura della Relazione Illustrativa al Codice nella parte dedicata all'art. 26 vale ad evidenziare come la norma sia stata rimaneggiata e rivista all'esito dei rilievi delle Commissioni parlamentari, mentre non evidenzia ulteriori elementi di distinzione, potendosi osservare, semmai, che il baricentro dell'art. 26 appare maggiormente concentrato sul rapporto (e sui potenziali conflitti) tra procedura principale e procedura secondaria salvo l'inserimento spurio (e dalla Relazione Illustrativa stessa riconosciuto come frutto di una sollecitazione delle Commissioni parlamentari) dei commi 2 e 3 in tema di sterilizzazione del trasferimento del COMI.



L'art. 11 CCII: il “COMI”, le impugnazioni e le azioni derivanti dalla procedura

La prima delle previsioni in tema di giurisdizione, e cioè l'art. 11 CCII, viene a recepire il concetto di "centro degli interessi principali” (Center Of Main Interest: COMI) quale regola fondamentale di individuazione sia della giurisdizione sia (come si vedrà) anche della competenza interna, affiancando ad esso il criterio della presenza di una “dipendenza”, in modo da recepire quelli che sono i criteri dettati sia a livello eurounitario - dapprima con il Reg. CE del 29 maggio 2000, n. 1346, e successivamente con il Reg. UE del 20 maggio 2015, n. 848 - sia dalla Model Law on Cross-Border Insolvency UNCITRAL del 1997.

Il carattere innovativo della previsione, peraltro, non consiste tanto nell'adozione di un criterio che l'Italia, quale paese membro dell'Unione, avrebbe comunque già dovuto applicare in relazione a soggetti operanti in altri Paesi membri UE, quanto nel fatto che tale criterio – sulla falsariga del metodo adottato con l'art. 3, comma 2, L. 218/1995 – viene reso regola generale sulla giurisdizione, risultando in tal modo applicabile anche ai Paesi extra-UE.

L'effetto sul piano sistematico risulta, quindi, parzialmente diverso. Sul piano del rapporto con il diritto UE, la scelta non muta il quadro dei rapporti giurisdizionali veri e propri, ma comporta l'esigenza che la previsione di diritto nazionale, in quanto recepimento di principi eurounitari, venga in futuro ad essere interpretata ed applicata dal giudice nazionale in linea con gli orientamenti forniti dallaCorte di Giustizia UE [L. Boggio, L'accesso, 1955].

Sul piano del rapporto con il diritto extra-UE è stato osservato che “la nazionalizzazione del COMI avvicina senz'altro alla Model Law i “principi sulla competenza giurisdizionale propri dell'ordinamento italiano” di cui all'art. 64, lett. a), della legge n. 218/1995 [A. Leandro, Il centro degli interessi principali del debitore tra Regolamento UE 2015/848 e codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza, in Riv. Dir. Internaz., 2020,373], con riflessi diretti sul riconoscimento in Italia delle decisioni di apertura delle procedure di insolvenza provenienti da Paesi terzi, ove basate anch'esse sul criterio del COMI.

Si deve notare, semmai, che mentre nella struttura del Reg. UE 2015/848 è la giurisdizione a determinare la disciplina applicabile (art. 7 Salvo disposizione contraria del presente regolamento, si applica alla procedura di insolvenza e ai suoi effetti la legge dello Stato membro nel cui territorio è aperta la procedura (lo «Stato di apertura»).”), nel caso dell'art. 11, ci si confronta con una formulazione (“(…) la giurisdizione italiana sulla domanda di accesso a uno strumento di regolazione della crisi e dell'insolvenza o a una procedura di insolvenza disciplinati dalla presente legge sussiste (…)) forse non felicissima, in quanto sembra invertire i termini, postulando, ai fini della determinazione della giurisdizione, la già avvenuta determinazione di ciò che, invece, nel Regolamento viene a dipendere proprio dalla preliminare determinazione della giurisdizione, e cioè l'individuazione della legge applicabile.

La definizione di COMI dettata dall'art. 2, lett. m) CCII (“«centro degli interessi principali del debitore» (COMI): il luogo in cui il debitore gestisce i suoi interessi in modo abituale e riconoscibile dai terzi) viene di fatto a coincidere con la definizione di cui all'art. 3, par. 1, Reg. UE n. 848/15 (Il centro degli interessi principali è il luogo in cui il debitore esercita la gestione dei suoi interessi in modo abituale e riconoscibile dai terzi), con conseguente applicabilità delle presunzioni stabilite dal medesimo art. 3, par. 1, nei successivi periodi che lo compongono [contra F. Lamanna, Il codice, 128, secondo il quale tali criteri dovrebbero trovare applicazione nei limiti di applicabilità di tale regolamento, e quindi entro l'Unione europea]. Presunzioni che, come si vedrà, vengono in parte mutuate dal Codice, ma con riferimento non alla giurisdizione, bensì ai criteri di competenza territoriale interna di cui al successivo art. 27.

Dato fondamentale è che il COMI costituisce una nozione che ha natura autonoma e uniforme, come tale indipendente dalle normative nazionali [L. Boggio, L'accesso, 1955; Z. Crespi Reghizzi, La disciplina della giurisdizione in materia di insolvenza: il Reg. UE n. 2015/848, in Giur. It., 2018,, 256, A. Leandro, Il centro, 370], come reiteratamente affermato dalla Corte di giustizia UE [à CGUE, 2 maggio 2006, causa C-341/04, Eurofood IFSC; CGUE, 20 ottobre 2011, causa C-396/09, Interedil], sicché il suo recepimento comporterà per il giudice nazionale il vincolo di conformarsi alla giurisprudenza eurounitaria non solo – come già avveniva in precedenza – in sede di applicazione del Reg. 848/2015, ma anche in sede di applicazione degli artt. 11 e 26 del Codice a fattispecie che presentano profili di collegamento con Paesi extra-UE [L. Boggio, L'accesso, 1956], pur dovendosi rilevare che, allo stato, non si registra una cospicua produzione giurisprudenziale della Corte di Giustizia in tema di individuazione del COMI per le persone fisiche [ma si veda à CGUE, 16 luglio 2020, causa C‑253/19, MH, NI], in quanto questo profilo costituisce una novità del Reg. UE n. 848/15, rispetto al Reg. CE 1346/2000.

Un dato fondamentale dovrà essere costantemente rammentato in sede di applicazione del criterio del COMI, per evitare equivoci in cui (come ci si appresta a vedere) è incorso anche il legislatore del Codice: come emerge in modo netto dall'art. 3 del Reg. UE 848/2015, il COMI è un criterio sostanziale o reale - come è naturale, parlando di centro di interessi principali – il quale viene poi individuato sulla scorta di una serie di meccanismi presuntivi, che tuttavia soccombono rispetto a quello che è il parametro fondamentale individuato dal legislatore eurounitario all'art. 3, par. 1: l'individuazione del luogo in cui il debitore esercita la gestione dei suoi interessi in modo abituale e riconoscibile dai terzi.

Parametro fattuale che, non deve sfuggire, è ancorato a due distinti requisiti che devono sussistere cumulativamente:

1) la collocazione “abituale” della gestione dei propri interessi;

2) la “riconoscibilità” di tale collocazione da parte dei terzi.

Occorre, quindi, prestare attenzione al fatto che, ai fini dell'individuazione del COMI e di una corretta applicazione dei principi eurounitari, non sarà mai sufficiente fare riferimento al solo primo parametro dell'abitualità.

Il vincolo di conformazione alla giurisprudenza eurounitaria assumerà particolare rilevanza nel caso della disciplina dei gruppi. In questo caso l'orientamento già espresso dalla Corte di Giustizia in tema di tendenziale prevalenza del singolo COMI (con correlata presunzione di coincidenza con la sede) di ciascuna delle società facenti capo al gruppo indipendentemente dalle scelte di coordinamento della “società madre”, fatta salva l'individuazione di elementi concreti in contrario [CGUE, 2 maggio 2006, causa C-341/04, Eurofood IFSC] risulta indirettamente confermato dal Reg. UE 848/2015 in virtù sia delle definizioni di cui ai nn. 13 e 14 dell'art. 2 sia dei meccanismi di coordinamento di cui agli artt. 56 segg.

Il Codice della crisi viene ulteriormente ad affermare la giurisdizione del giudice italiano sulle domande di apertura di uno strumento di regolazione della crisi e dell'insolvenza o di una procedura di insolvenza quando l'imprenditore il cui COMI è situato all'estero abbia in Italia una dipendenza. Singolarmente, tuttavia, il furor definitorio del legislatore delegato non è giunto al punto di offrire all'art. 2 una definizione di “dipendenza”, che invece viene fornita dal Reg. UE 848/2015 (qualsiasi luogo di operazioni in cui un debitore esercita o ha esercitato nel periodo di tre mesi anteriori alla richiesta di apertura della procedura principale d'insolvenza, in maniera non transitoria, un'attività economica con mezzi umani e con beni). È stato tuttavia osservato che la Relazione illustrativa al Codice della crisi, sub art. 26 CCII, pare accostare la nozione di « ;dipendenza ;», propria del criterio di giurisdizione italiano, alla nozione di « ;dipendenza ;» accolta dal regolamento 2015/848, da ciò potendosi ricavare l'identità di contenuto delle due nozioni analogamente al criterio del COMI [A. Leandro, Il centro, 372; nel medesimo senso M. Montanari, Il codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza: profili generali e processuali, in Riv. Dir. Proc., 2020, 301], come del resto appare inevitabile in un'ottica di applicazione armoniosa del Reg. 848/2015 in relazione a Paesi UE e degli artt. 11 e 26 CCII in relazione a paesi extra-UE.

Il richiamo alla nozione eurounitaria, peraltro, comporta un effetto restrittivo della giurisdizione in relazione alle fattispecie che concernono paesi extra-UE, in quanto, ai fini dell'affermazione della giurisdizione italiana, non sarà più sufficiente la mera presenza di beni in Italia [A. Leandro, Il centro, 372], ed anzi la giurisdizione italiana potrebbe risultare esclusa perfino nell'ipotesi in cui il debitore che ha il COMI in un Paese extra-UE, ma la sede legale e taluni beni in Italia, non svolga né abbia svolto in Italia alcuna attività riconducibile alla nozione di dipendenza [A. Leandro, Il centro, 372].

Sebbene sia il Reg. UE 848/2015, sia (come visto in precedenza) l'art. 11 CCII siano dettati in via generale per qualunque “procedura concorsuale” (il primo) e per qualunque “strumento di regolazione della crisi e dell'insolvenza o procedura di insolvenza” (il secondo), ci si deve domandare, semmai, se la nozione di dipendenza, per come formulata, soprattutto con riferimento alla attività economica con mezzi umani e con beni, non concerna esclusivamente i soggetti imprenditoriali e, al più, i professionisti, con esclusione, invece, dei consumatori, per i quali sarebbe destinato ad operare unicamente il COMI. La questione interpretativa rimane necessariamente aperta, in quanto la sua soluzione verrà a dipendere da orientamenti della Corte di Giustizia UE che non si sono ancora formati.

I due criteri del COMI e della dipendenza, in ogni caso, sono esclusivi e non consentono l'affermazione della giurisdizione italiana sulla scorta di alcun altro criterio, determinandosi in tal modo una contrazione dell'ambito della giurisdizione italiana rispetto a quelli che erano gli esiti interpretativi cui la giurisprudenza nazionale era pervenuta in relazione all'art. 9 l. fall. [L. Boggio, L'accesso, 1956].

Il comma 2 dell'art. 11 CCII si occupa, invece, del profilo delle impugnazioni volte dedurre il difetto di giurisdizione avverso il provvedimento di accesso ad uno strumento di regolazione della crisi e dell'insolvenza o ad una procedura di insolvenza, applicando a tale fattispecie non i rimedi generali del Codice di procedura civile, bensì il regime speciale previsto dall'art. 51 dello stesso CCII. per le sentenze che si pronuncino sull'omologazione del concordato preventivo, del piano di ristrutturazione soggetto a omologazione o degli accordi di ristrutturazione oppure” dispongono “l'apertura della liquidazione giudiziale, con l'ulteriore puntualizzazione per cui è sempre ammesso il ricorso in cassazione.

La previsione di cui all'art. 11 CCII, tuttavia, presenta profili differenziazione rispetto al contenuto dell'art. 51 CCII.

Il primo è costituito dal fatto che, mentre l'art. 51 riconosce la legittimazione all'impugnazione delle sentenze relative a concordato preventivo, piano di ristrutturazione soggetto a omologazione e accordi di ristrutturazionealle sole “parti”, estendendola a qualunque interessatosolo per la sentenza che dichiara aperta la liquidazione giudiziale, per contro l'art. 11 CCII prevede che quest'ultima ipotesi di legittimazione “estesa” per l'impugnazione di qualsiasi tipo di provvedimento di accesso ad uno strumento di regolazione della crisi e dell'insolvenza [L. Boggio, L'accesso, 1956, F. Lamanna, Il codice, 128]. Si è giustamente osservato che, in questo caso, il Codice ha ritenuto di avvalersi della facoltà prevista dall'art. 5 del Reg. UE 848/2015, il quale, dopo aver stabilito al par. 1, che Il debitore o qualsiasi creditore possono impugnare dinanzi al giudice la decisione di apertura della procedura principale di insolvenza per motivi di competenza giurisdizionale internazionale” al successivo par. 2 stabilisce tuttavia che “La decisione di apertura della procedura principale di insolvenza può essere impugnata da parti diverse da quelle previste al paragrafo 1, ovvero per motivi diversi dalla mancanza di competenza giurisdizionale internazionale, qualora il diritto nazionale lo preveda.

Il secondo profilo è costituito dal fatto che l'art. 11 CCII si riferisce non semplicemente al provvedimento di omologazione bensì al provvedimento di accesso ad uno strumento di regolazione della crisi e dell'insolvenza, locuzione che dovrebbe intendersi riferita all'eventuale provvedimento di apertura della procedura, e quindi, ad esempio, al provvedimento di ammissione al concordato preventivo oppure al concordato minore (art. 78), nonché – parrebbe – al provvedimento assunto dal Tribunale ex art. 64-bis, comma 4, sulla domanda relativa al piano di ristrutturazione soggetto ad omologa (e, ulteriormente, al provvedimento ex art. 64-quater col quale il Tribunale, su domanda del debitore, “converte” il piano di ristrutturazione, pronunciando l'ammissione al concordato preventivo). La previsione appare in linea, del resto, con quanto stabilito dall'art. 5 del Reg. UE 848/2015, che anch'esso si riferisce alla decisione di apertura della procedura principale di insolvenza. Ne consegue, tuttavia, non una semplice anticipazione della soglia temporale di impugnazione ma addirittura l'ampliamento delle ipotesi di impugnazione, in quanto, in tal modo, l'art. 11 viene a consentire l'impugnazione di quel provvedimento di ammissione al concordato che, altrimenti risulterebbe non autonomamente impugnabile [L. Boggio, L'accesso, 1956]. Diverso, appare, invece, il discorso per gli strumenti di regolazione della crisi e dell'insolvenza che non contemplino un provvedimento di apertura, come gli accordi di ristrutturazione, in relazione ai quali effettivamente l'impugnazione dovrebbe essere rivolta anche in questo caso nei confronti della sentenza di omologa [L. Boggio, L'accesso, 1956].

In realtà, poi, il riferimento al provvedimento di accessoinduce a ritenere che l'art. 11 CCII trovi applicazione anche all'ipotesi di cui all'art. 44 CCII, non a caso rubricato accesso a uno strumento di regolazione della crisi e dell'insolvenza con riserva (…), ben potendosi, quindi, ipotizzare che anche il provvedimento di concessione del termini – in quanto contenente implicitamente affermazione della giurisdizione del giudice italiano (che, infatti, dovrebbe essere oggetto di verifica già in quella sede) – determini l'interesse ad una impugnazione volta a dedurre invece il difetto di giurisdizione.

Non pienamente chiara appare la puntualizzazione finale dell'art. 11, comma 2 ultimo periodo CCII, nello stabilire che ‘‘è sempre ammesso il ricorso per cassazione'', visto che tale possibilità è già contemplata dal già richiamato art. 51, comma 13 CCII. Pare comunque da escludere il timore che si voglia ritenere restrittivamente (…) che il riferimento al solo ‘‘procedimento di cui all'articolo 51'' non sarebbe comprensivo dei richiami a quanto non sia regola del ‘‘procedimento'' in senso stretto: effetti della sentenza e mezzi d'impugnazione [L. Boggio, L'accesso, 1956]. Sembra doversi concludere, anzi, proprio che, applicandosi l'art. 51, comma 13 – così come, del resto, il comma 14 – il termine per proporre il ricorso in cassazione sarà esattamente quello di trenta giorni in tale ultima previsione contemplato [F. Lamanna, Il codice, 129].

Il pieno allineamento con il Reg. UE 848/2015 risulta invece fallito nel caso dell'art. 11, comma 3 CCII, nel momento in cui quest'ultimo, stabilendo che la giurisdizione italiana di cui al comma 1 sussiste anche per le azioni che derivano direttamente dalla procedura, omette di contemplare l'altro requisito – di pari rilevanza [Z. Crespi Reghizzi, La disciplina, 264] - richiesto invece dall'art. 6, par. 1, Reg. UE 848/2015 (I giudici dello Stato membro nel cui territorio è aperta una procedura d'insolvenza ai sensi dell'articolo 3 sono competenti a conoscere delle azioni che derivano direttamente dalla procedura e che vi si inseriscono strettamente, come le azioni revocatorie), e cioè la “stretta inerenza”.

La lacuna è irrilevante nel caso dei rapporti con altri Paesi UE, in quanto per questi ultimi varrà direttamente il Regolamento, fermo restando che se la ‘‘competizione'' giurisdizionale si verifichi con un altro Stato membro, quanto all'accertamento della localizzazione del COMI entra in gioco – in modo determinante – il criterio di priorità cronologica della decisione di apertura stabilito dall'art. 3, par. 3, Reg. UE n. 848/15 [L. Boggio, L'accesso, 1956]. Si deve peraltro sottolineare che a rilevare sarà, ancora una volta, unicamente il COMI del debitore, con la conseguenza che l'azione potrà essere proposta anche nei confronti di un convenuto (diverso dal debitore) collocato in un paese extra-UE [Z. Crespi Reghizzi, La disciplina, 265].

La lacuna assume invece rilevanza nel caso del rapporto con paesi extra-UE, in relazione ai quali, quindi, il giudice italiano potrà affermare la propria giurisdizione sulle azioni che derivano dalla procedura, sulla scorta del solo presupposto del carattere “diretto” della derivazione, ed indipendentemente invece dalla “stretta inerenza”, anche se la valutazione del primo profilo potrà sempre essere operata sulla falsariga dell'elaborazione giurisprudenziale formatasi a margine dell'art. 24 l. fall., nel momento in cui quest'ultima previsione, pur concernendo la competenza, è stata poi ritenuta applicabile estensivamente anche al profilo della giurisdizione.

L'art. 26 CCII: l'imprenditore che ha all'estero il centro degli interessi principali

La seconda previsione in materia di giurisdizione, l'art. 26 CCII, riprende, adattandoli, i principi che risultavano già enunciati all'art. 9 l. fall. Forse, anzi, è proprio la parziale ripresa della formulazione di quest'ultima previsione che giustifica il fatto che anche la formulazione letterale dell'art. 26 sia riferita esclusivamente all'imprenditore, in tal modo escludendo sia il professionista sia il consumatore. La razionalità di tale scelta dovrà comunque misurarsi in concreto, in primo luogo, con la futura elaborazione del concetto di “dipendenza” che, come visto in precedenza, appare almeno in parte difficilmente riferibile a queste ultime figure. È, però, evidente che una eventuale evoluzione della giurisprudenza eurounitaria nel senso di ampliare l'ambito oggettivo di riferibilità del concetto di “dipendenza”, ad esempio, al professionista non potrà non avere riflessi sull'interpretazione della previsione.

Resta, in ogni caso un dato: l'applicazione dell'art. 26 CCII resta condizionata da due regole generali.

La prima, direttamente enunciata al comma 3 della stessa norma, è la (pacifica) preminenza del diritto dell'Unione – e quindi del Reg. 848/2015 – nei casi in cui quest'ultimo trovi applicazione, valendo per l'art. 26 quanto già osservato in relazione all'art. 11 CCII, e cioè che la previsione ha una concreta valenza precettiva solo in relazione a situazioni che coinvolgono Paesi extra-UE.

La seconda, anch'essa evidenziata, in precedenza, è data dal rapporto proprio con l'art. 11 CCII, la cui valenza dovrebbe risultare preminente, con la conseguenza che, in presenza di contrasti tra le due previsioni, dovrebbe prevalere il contenuto precettivo desumibile dall'art. 11 [L. Boggio, L'accesso, 1955].

L'art. 26, comma 1 CCII stabilisce – adattando l'art. 9, comma 3 l. fall. – che un imprenditore, quand'anche abbia all'estero il proprio COMI e quand'anche nei suoi confronti sia già stata aperta una procedura di crisi o insolvenza all'estero, può comunque essere ammesso a uno strumento di regolazione della crisi e dell'insolvenza o assoggettato ad una procedura di insolvenza nella Repubblica italiana, a condizione che egli abbia in Italia una dipendenza anche se è stata aperta analoga procedura all'estero, quando ha una dipendenza in Italia.

A contrario, quindi, si desume che la giurisdizione italiana sussiste anche nell'ipotesi in cui all'estero non sia stata aperta procedura alcuna [L. Boggio, L'accesso, 1957], purché, si ripete, in Italia sia individuabile una dipendenza.

La previsione, in tal modo, risulta innovativa rispetto al previgente art. 9 l. fall., in quanto:

a) mentre quest'ultimo era riferito alla sola dichiarazione di fallimento, l'art. 26 estende il proprio ambito applicativo a qualunque strumento di regolazione della crisi e dell'insolvenza o procedura di insolvenza [F. Lamanna, Il codice, 265];

b) oltre a sostituire il riferimento alla sede dell'impresa con quello al COMI, introduce quale elemento condizionante per la sussistenza della giurisdizione la presenza in Italia di una “dipendenza” [L. Boggio, L'accesso, 1957; F. Lamanna, Il codice, 265].

La norma riflette il dettato dell'art. 3, par. 2, del Reg. UE 848/2015 (“Se il centro degli interessi principali del debitore è situato nel territorio di uno Stato membro, i giudici di un altro Stato membro sono competenti ad aprire una procedura di insolvenza nei confronti del debitore solo se questi possiede una dipendenza nel territorio di tale altro Stato membro. Gli effetti di tale procedura sono limitati ai beni del debitore che si trovano in tale territorio”), ma, come si è detto, lo rende regola vigente anche nei confronti dei Paesi extra-UE. Ciò induce ancora una volta, a dolersi del fatto che il legislatore delegato non abbia ritenuto di dettare (o recepire) una nozione di dipendenza, e rende comunque inevitabile fare riferimento alla disciplina eurounitaria, e quindi alla definizione fornita dall'art. 2, n. 10), del Regolamento.

Ancora una volta va chiarito che nel caso dei Paesi dell'Unione, si applicherà direttamente il Reg. UE 848/2015 - e quindi, in questo caso, l'art. 3 dello stesso Regolamento nella sua integralità, ivi compresi i limiti all'apertura di una procedura territoriale stabiliti dal par. 4 – sicché il concreto ambito applicativo dell'art. 26 CCII risulta ristretto all'ipotesi di imprenditore con COMI in paesi extra-UE, cui viene estesa la disciplina di matrice eurounitaria.

La necessità di coordinamento con il Reg. 848/2015 ha condotto il legislatore delegato a dettare il comma 4, a mente del quale Il tribunale, quando apre una procedura di insolvenza transfrontaliera ai sensi del Regolamento (UE) 2015/848 del Parlamento europeo e del Consiglio del 20 maggio 2015, dichiara se la procedura è principale, secondaria o territoriale.”, dovendosi rammentare [F. Lamanna, Il codice, 266] che dalla qualificazione della procedura come secondaria potrà derivare l'applicazione anche del disposto di cui all'art. 36 del Regolamento [Al fine di evitare l'apertura della procedura secondaria di insolvenza, l'amministratore della procedura principale di insolvenza può contrarre un impegno unilaterale (l'«impegno»), relativamente ai beni situati nello Stato membro in cui potrebbe essere aperta la procedura secondaria di insolvenza, in base al quale, nel ripartire tali beni o il ricavato del loro realizzo, rispetterà i diritti nella ripartizione dei beni e i diritti di prelazione previsti dal diritto nazionale di cui avrebbero goduto i creditori se fosse stata aperta una procedura secondaria di insolvenza in quello Stato membro.”].

Proprio lo stretto legame con la disciplina eurounitaria spiega perché previsione similare a quella del comma 4 non sia dettata con riguardo ad imprenditori che hanno il COMI in Paesi extra-UE – nonostante alcune critiche [L. Boggio, L'accesso, 1957] - dal momento che non è possibile in questo caso determinare un rapporto tra procedura principale e procedura secondaria. Resta, tuttavia, il fatto che, come è stato attentamente rilevato [F. Lamanna, Il codice, 266], il Codice non detta una disciplina relativa al riconoscimento dei provvedimenti stranieri di apertura delle procedure di crisi o insolvenza. Anche in questo caso la lacuna non interessa i paesi dell'Unione, in relazione ai quali opera il complesso di previsioni di cui agli artt. 19 e ss. del Regolamento, bensì – ancora una volta – i Paesi extra-UE, in relazione ai quali non resta che dare applicazione all'art. 64, L. 218/1995 [F. Lamanna, Il codice, 266].

Problematica appare la previsione di cui al comma 2, che invece riprende, ma rivoluziona, il vecchio principio di perpetuatio iurisdictionis in passato ancorato al quinto comma dell'art. 9 l. fall., ritenendo applicabile alla giurisdizione il meccanismo di sterilizzazione dei trasferimenti avvenuti a ridosso dell'apertura della procedura stabilito al secondo comma dell'art. 9 l. fall. per la sola competenza.

Il precetto del Codice, infatti, viene a stabilire che “Il trasferimento del centro degli interessi principali all'estero non esclude la sussistenza della giurisdizione italiana se è avvenuto nell'anno antecedente il deposito della domanda di accesso a uno strumento di regolazione della crisi e dell'insolvenza o a una procedura di insolvenza.”. La previsione, come detto, rivoluziona il dettato dell'art. 9, comma 5, l. fall., in quanto, da un lato, viene finalmente ad introdurre in modo espresso un meccanismo di sterilizzazione dei trasferimenti e, dall'altro lato, opera non più per i soli fallimenti (come nel caso dell'art. 9 l. fall.), ma, ancora una volta, per tutti gli strumenti di regolazione della crisi e dell'insolvenza e per le procedure di insolvenza [F. Lamanna, Il codice, 268].

Il dettato normativo, tuttavia, non è immune da problemi, il primo dei quali è costituito dal disallineamento rispetto ai più brevi termini stabiliti dall'art. 3, par. 1, Reg. UE 848/2015, nella misura, rispettivamente, di tre mesi per professionisti ed imprenditori e di sei mesi per “le altre persone fisiche”. Ferma restando la prevalenza (recte l'applicazione esclusiva) del Reg. 848/2015 quanto ai Paesi dell'Unione [L. Boggio, L'accesso, 1957], permane il dato dell'applicazione di un regime più severo per i paesi extra-UE con concreti profili di ingiustificato trattamento differenziato.

Il secondo, più significativo, problema è invece costituito dal riferimento che l'art. 26 CCII opera trasferimento del centro degli interessi principali all'estero. La formulazione dell'art. 26 comma 2, infatti, nel riprendere (piuttosto tralaticiamente) il testo dell'art. 9 l. fall., ha finito per equiparare sul piano del trattamento un dato formale – la sede – con un dato – il COMI – che è invece sostanziale. Il COMI, infatti, per i suoi caratteri, non può essere “fittizio” (e la stessa definizione all'art. 2, lett. m), lo afferma, pena la violazione del principio di non contraddizione), come invece può essere fittizio il trasferimento di sede, all'evidente scopo di conseguire quel forum shopping che l'art. 26 dello stesso Codice mira a sterilizzare.

L'incongruità è facilmente rilevabile ove si tenga presente il testo dell'art. 3, par. 1, Reg. UE 848/2015 (secondo, terzo e quarto periodo) – e cioè di quella che comunque sarà la previsione applicabile nelle fattispecie che concernono trasferimenti verso Paesi dell'Unione.

Infatti, quest'ultimo:

  • da un lato individua il COMI come criterio fattuale non simulabile, fissando poi tre presunzioni di coincidenza del COMI medesimo con elementi (la sede, la residenza) che invece possono avere carattere meramente formale;
  • dall'altro lato neutralizza tali presunzioni qualora la modifica del criterio formale sia avvenuta in un ristretto lasso temporale a ridosso della domanda di apertura della procedura di insolvenza (“Tale presunzione si applica solo se (…) non è stata spostata in un altro Stato membro entro il periodo di tre mesi precedente la domanda di apertura della procedura d'insolvenza”).

È evidente che, in questo secondo caso, non operando le presunzioni, si dovrà procedere alla individuazione del COMI sulla base del criterio di generale anche se ben potrà essere data prova del fatto che il COMI è effettivamente localizzato nella nuova sede o domicilio [Z. Crespi Reghizzi, La disciplina, 261].

Insomma, il trasferimento fittizio non può riguardare il COMI, bensì gli elementi cui è presuntivamente ancorato, sicché - come efficacemente rilevato - “non si comprende (…) come lo spostamento del COMI, che è reale in re ipsa, possa in generale ritenersi fittizio e sia fittizio iuris et de iure se compiuto nell'anno antecedente la domanda di apertura della procedura” [A. Leandro, Il centro, 373].

Il problema è che, come è stato osservato, la formulazione del comma 2 risente anche della scelta di non inserire le presunzioni di coincidenza tra sede legale/principale e COMI – cosa che, invece, è stata fatta con riferimento alla disciplina della mera competenza territoriale – e, conseguentemente, della scelta di non mutuare la disciplina dell'art. 3 del Reg. 848/2015, mentre avrebbe avuto più senso (…) parlare di trasferimento della « ;sede ;» (con riguardo a persone giuridiche, enti e persone fisiche che esercitano un'attività imprenditoriale) e della « ;residenza abituale ;» (con riguardo alle altre persone fisiche), ovvero inserire sia le presunzioni di coincidenza tra tali fattori di collegamento e il COMI previste dal regolamento 2015/848, sia le clausole che escludono il funzionamento delle presunzioni medesime [A. Leandro, Il centro, 373].

Fermi gli auspici di intervento correttivo sul dato normativo, tuttavia, è evidente che la giurisprudenza dovrà misurarsi con il carattere contraddittorio di un concetto come quello di “trasferimento fittizio del COMI”, e che risulta altrettanto auspicabile che, in sede di applicazione della previsione (ai soli Paesi extra-UE), la giurisprudenza stessa operi comunque una lettura dell'art. 26 attraverso la lente correttiva della disciplina eurounitaria.

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