Rendita o capitale: limiti sostanziali e processuali all'esercizio del potere officioso del giudice
Giuseppe Chiriatti
Marco Redina
20 Aprile 2023
Pur muovendo da una premessa certamente condivisibile (e cioè che la liquidazione in forma di rendita può essere disposta ex officio), Cass. 31574/2022 esonera il Giudice dall'obbligo di sollecitare il contraddittorio tra le parti e gli riconosce il potere di convertire il risarcimento da capitale in rendita all'esito del giudizio di secondo grado, pur in difetto di una specifica doglianza da parte dell'appellante. Il che potrebbe aprire il varco a decisioni del tutto arbitrarie, aggravando ulteriormente quella “diffidenza” che costituisce la principale causa della scarsa applicazione dell'art. 2057 c.c.
Introduzione
A distanza di alcuni anni dalle storiche sentenze del Tribunale di Milano che per prime avevano fatto applicazione dell'art. 2057 c.c. (Trib. Milano, 27 gennaio 2015; Trib. Milano, 15 maggio 2019), anche la Corte di Cassazione con la sentenza n. 31574/2022 si è finalmente pronunciata in tema di rendita, ammettendo il ricorso a tale strumento per la liquidazione del danno permanente (patrimoniale e non patrimoniale) alla persona.
Il caso da cui origina la pronuncia è quello di un neonato rimasto gravemente invalido a causa di una tardiva diagnosi di meningoencefalite, in favore del quale la Corte di Appello di Milano ha ritenuto di liquidare il risarcimento del danno biologico permanente in forma di rendita e ciò in considerazione del fatto che risultava impossibile stabilire la durata presumibile della vita del minore in conseguenza della menomazione patita.
Ebbene, la pronuncia della Cassazione – che conferma la decisione della Corte di Appello di Milano – appare particolarmente significativa sotto plurimi profili.
Il primo (di natura sostanziale) attiene alla compatibilità della rendita rispetto a quella che potremmo definire la “fenomenologia” del danno macropermanente.
Sul punto, la Cassazione è infatti piuttosto netta nell'affermare che «l'universo del danno grave alla persona rappresenta (dovrebbe rappresentare) il terreno d'elezione per un risarcimento in forma di rendita, l'unico che consenta di considerare adeguatamente […] l'evoluzione diacronica della malattia (ovvero la sua guarigione, se possibile), così che l'antinomia tra l'astratta efficacia di tale strumento risarcitorio e la sua (mancata) applicazione in concreto appare segnata, in premessa, da una sorta di sostanziale quanto non giustificabile ‘diffidenza' nei suoi confronti».
A ben vedere, la “diffidenza” cui fa riferimento la Corte può essere ricollegata al fatto che la liquidazione del danno in rendita rappresenta una soluzione sgradita a entrambe le parti del giudizio risarcitorio: al danneggiato che per evidenti ragioni preferisce riscuotere l'intero risarcimento in capitale; al responsabile del danno e al suo assicuratore che, per poter ottemperare ai propri obblighi di pagamento periodico, sono tenuti a sopportare dei costi rilevantissimi (quale, ad esempio, il versamento di un cospicuo premio per la costituzione di una rendita mediante polizza vita e/o l'approntamento di adeguate cautele) tali, in certi casi, da aggravare l'esborso finale rispetto alla più tradizionale erogazione in capitale.
Ciò detto, vi è però un secondo aspetto che viene esaminato dalla sentenza in commento e che, proprio a fronte di quella “diffidenza” richiamata dalla Corte, merita di essere attentamente vagliato.
Liquidazione del risarcimento in forma di rendita e potere officioso del Giudice
La Cassazione ha infatti chiarito che «non costituisce presupposto ex lege per l'applicazione dell'art. 2057 c.c. l'istanza dell'avente diritto […] l'art. 2057 c.c., infatti, rimette al prudente apprezzamento del giudice la scelta della forma di liquidazione del danno permanente alla persona, perché capitale e rendita si equivalgono per l'ordinamento civilistico. Il giudice è, dunque, libero di optare ex officio per lo strumento di cui all'art. 2057 c.c., purché determini la rendita in modo tecnicamente corretto».
In altri termini (ed è questa la premessa da cui muove il presente contributo), la pronuncia in commento reca con sé il rischio che la decisione del giudice di disporre d'ufficio la rendita, in difetto di un'espressa istanza di parte (e, più in generale, in difetto di qualsivoglia contraddittorio sul punto nel corso del processo), si risolva non solo in una scelta sgradita alle parti, ma addirittura arbitraria.
Di ciò, del resto, se ne può trarre una conferma dalla lettura del primo motivo del ricorso principale (quello presentato dalla compagnia assicurativa) e dal primo motivo del controricorso (quello presentato dai danneggiati):
«con il primo motivo del ricorso principale, la compagnia assicuratrice lamenta la "violazione, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., n. 3, dell'art. 112 c.p.c." … la Corte d'appello avrebbe reso una pronuncia extra petita, dal momento che nessuna parte aveva formulato domanda di costituzione di una polizza fideiussoria a prima richiesta in caso di condanna della compagnia assicurativa. Tale pronuncia inciderebbe sul contenuto sostanziale della decisione, arrecando un grave pregiudizio alla ricorrente alla luce dell'importo liquidato, dei costi inerenti la stipula di un contratto autonomo di garanzia, dell'alea sottesa alla durata di tale contratto”.
«con il primo motivo del ricorso incidentale, i signori M. e M. deducono, exart. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, la "manifesta ed irriducibile contraddittorietà della sentenza in relazione alla costituzione della rendita vitalizia in favore di M.F. la Corte d'appello non avrebbe spiegato adeguatamente la ragione per cui la costituzione di una rendita di modesta entità mensile fosse maggiormente indicata a far fronte alle concrete esigenze del minore»
Oltretutto, occorre considerare come, nel caso da cui è originata la sentenza della Suprema Corte, il risarcimento del danno biologico permanente, all'esito del giudizio di primo grado, fosse stato liquidato in capitale per poi essere convertito in rendita solo all'esito del giudizio di appello e ciò – si badi – in assenza di una specifica impugnazione circa la scelta della forma di risarcimento per equivalente (da una lettura dei motivi del ricorso e del controricorso non si riesce puntualmente a evincere quali fossero le doglianze d'appello, ma è chiaro che nessuna delle parti avesse contestato la scelta della liquidazione del danno una tantum).
Ebbene, la Cassazione ha pienamente avallato l'operato della corte territoriale, affermando a chiare lettere che il Giudice può fare ricorso alla rendita «anche in appello, in via autonoma – non integrando tale scelta gli estremi “della questione rilevabile d'ufficio”ex art. 101 comma 2 c.p.c., ma caratterizzandosi soltanto per una diversa determinazione della forma del risarcimento».
In definitiva, oltre ai profili sostanziali che già sono stati oggetto di approfondimento su questa rivista (si legga ZORZIT D., La rendita come “forma privilegiata” del risarcimento del danno non patrimoniale in caso di macrolesioni, 23 gennaio 2023) occorre altresì indagare – ed è proprio questo l'obiettivo del presente contributo – alcune ricadute più strettamente processuali della pronuncia in commento e in primo luogo comprendere se, alla luce dei principi generali che governano il processo, possa essere condivisa l'affermazione della Corte secondo cui la scelta della forma di liquidazione (capitale o rendita) non integra «gli estremi della questione rilevabile d'ufficio ex art. 101 comma 2 c.p.c., […] caratterizzandosi soltanto per una diversa determinazione della forma del risarcimento»; e ancora, in secondo luogo, se sia corretto ritenere, senza ulteriori delimitazioni, che il potere di liquidazione officiosa del risarcimento in forma di rendita sussista anche in appello.
Una breve premessa: sulla necessità o meno di una specifica «istanza» di liquidazione in forma di rendita
Occorre sin da subito notare come la premessa da cui muove la Corte (e cioè che la liquidazione in forma di rendita non richieda una specifica «istanza» di parte) è certamente corretta. In particolare, è da condividersi la scelta della Suprema Corte, in funzione di quanto disposto dall'art. 2057 c.c., di discorrere di assenza della necessità di una «istanza» di parte, piuttosto che di assenza di necessità di una «domanda» giudiziale.
Ed infatti, seguendo l'impostazione della giurisprudenza di legittimità data al problema dell'oggetto del processo, nel caso in cui venga domandato il risarcimento del danno cagionato da un certo fatto illecito, appare un dato sostanzialmente acquisito (quanto meno sul piano giurisprudenziale) quello per cui unico è il diritto azionato e, dunque, unica è la «domanda giudiziale» che – in senso tecnico – deduce quel diritto in giudizio (ex multis cfr. Cass., sez. lav., 15 novembre 2022, n. 33639; Cass., sez. III civ., 29 marzo 2022, n. 10141; Cass., sez. III civ., 23 ottobre 2014, n. 22514).
Ciò a maggior ragione per la liquidazione del danno non patrimoniale che – secondo l'insuperato insegnamento delle Sezioni Unite di San Martino del 2008 – si atteggia quale categoria unitaria e onnicomprensiva (sebbene dalla medesima lesione del diritto soggettivo possano derivare conseguenze differenti che, per essere risarcite, dovranno ovviamente essere allegate e provate tempestivamente nel corso del processo).
In altri termini, diremmo che il diritto soggettivo al risarcimento del danno è unico e viene dedotto in giudizio mediante un'unica «domanda» (ovvero quella formulata nell'atto introduttivo del processo).
Da questo punto di vista, è dunque fuori discussione che il processo in cui venga richiesto il risarcimento del danno con la modalità più consueta una tantum e quello in cui venga invece richiesto il risarcimento del medesimo danno in forma di rendita vitalizia, abbiano lo stesso oggetto, in quanto in entrambi è azionato il medesimo diritto soggettivo dedotto con la “domanda” (unica) che instaura il giudizio.
Peraltro, occorre notare che, a favore di tale soluzione, militano non solo (e non tanto) il disposto letterale dell'art. 2057 c.c., ma, in senso più lato, i principi generali in materia di oggetto del processo e del correlato potere giudiziale di decisione, sicché – di principio e salvo deroghe ex lege– il giudice ha il potere di dichiarare tutti gli effetti relativi al diritto soggettivo dedotto, che si producono in funzione dei fatti legittimamente entrati a formare il materiale di causa.
Chiarito, dunque, che non vi sia necessità di una «istanza» di parte per dar corso alla liquidazione exart. 2057 c.c., è problema completamente diverso, invece, quello di stabilire se la modalità di liquidazione in forma di rendita (piuttosto che nella consueta forma una tantum) costituisca una «questione» in senso tecnico. Ed è proprio rispetto a questo quesito che la risposta della Suprema Corte non convince (del resto, solo di risposta può parlarsi e non anche di argomentazione, atteso che, di essa, non vi è alcuna traccia).
Questione rilevabile d'ufficio e applicazione dell'art. 101 comma 2 c.p.c.
La Cassazione liquida il problema in poche righe, dando l'impressione che vi sia una consecutio logica tra l'affermazione secondo cui non è necessaria una specifica «istanza» di parte affinché il giudice liquidi il danno permanente in forma di rendita e quella per cui non si è in presenza di una «questione d'ufficio» su cui il Giudice deve sollecitare il contradditorio delle parti ai sensi dell'art. 101 comma 2 c.p.c.
Ebbene, tra le due asserzioni non vi è alcun nesso di implicazione logica. Al contrario, verrebbe piuttosto da dire che proprio poiché il giudice può scegliere la modalità di liquidazione del danno, allora si è in presenza di una «questione», la quale, non essendo soggetta ad una specifica istanza di parte, non potrà che essere «rilevabile d'ufficio».
Del resto, è bene chiarirlo, assurge a “questione” qualunque elemento, di fatto o di diritto, che integra la fattispecie costitutiva (in senso allargato, cioè comprensiva dei fatti impeditivi/modificativi/estintivi) del diritto soggettivo dedotto: pertanto, date tali premesse, è innegabile che la fattispecie costitutiva del diritto al risarcimento di un danno permanente alla persona ricomprenda tutte le questioni, in fatto ed in diritto, che consentono di giungere alla liquidazione in forma di rendita o di capitale (tra queste, quelle indicate dal medesimo art. 2057 c.c. e dunque – oltre al carattere permanente del danno – lecondizioni delle parti, la natura del pregiudizio, la necessità di disporre le opportune cautele ecc.)
A ben guardare, quindi, la liquidazione del danno in forma di rendita (come, naturalmente, la liquidazione del danno in forma una tantum) non si riduce a una singola questione, ma piuttosto, convoca una serie di questioni di merito (di diritto e di fatto), che in detta locuzione riassuntiva sono implicate necessariamente.
Date tali premesse, non può dunque dubitarsi che, se nessuna delle parti ha mai discusso nel processo di dette questioni (magari proprio poiché, nella loro percezione, da preferirsi è la strada del risarcimento del danno una tantum) mentre il giudice ritenga più opportuno il ricorso alla liquidazione nella forma della rendita, questi – al fine di evitare una sentenza c.d. «della terza via» o «a sorpresa» – sarà tenuto (secondo quanto previsto dall'art. 171-bis ed, in generale, dall'art. 101 comma 2 c.p.c.) a indicare alle parti la/le questione/i rilevate affinché le stesse possano discuterne nel contraddittorio, così da garantire il rispetto di tale principio fondamentale ed assicurare la validità della decisione.
Si noti peraltro come l'art. 101 comma 2 c.p.c. sanzioni l'inosservanza di tale regola con la nullità della sentenza, proprio a stigmatizzare la gravità della violazione in cui incorre quel giudice che assuma una decisione su una questione (o, ancor peggio, su una serie di questioni) mai sottoposte al contraddittorio delle parti e decise, in solitaria, e a sorpresa, nel segreto della camera di consiglio.
In conclusione, proprio poiché si ammette che il giudice possa adottare la liquidazione di cui all'art. 2057 c.c. pur in assenza di richiesta di parte, allora diviene inevitabile che – laddove nessuna parte abbia fatto menzione della volontà o possibilità di procedere alla liquidazione in forma di rendita ma il giudice ritenga che questo possa essere lo strumento più adeguato al caso – egli debba sottoporre la «questione» (rectius: la serie di questioni) alle parti, affinché ne approfondiscano ogni profilo (anche mediante nuove allegazioni e nuove deduzioni di mezzi di prova) nel pieno contraddittorio.
Potere officioso e conversione del risarcimento in rendita all'esito del giudizio di appello
Merita infine un breve approfondimento l'ulteriore affermazione secondo cui il potere officioso può essere esercitato per la prima volta anche in appello.
Anche tale affermazione viene riferita dalla Corte quasi fosse un corollario indefettibile e scontato della premessa da cui muove la decisione medesima e cioè che non è necessaria alcuna «istanza» di parte per la liquidazione del risarcimento del danno in forma di rendita.
D'altro canto, pare proprio che non vi sia alcun automatismo logico nemmeno tra queste due asserzioni e ciò ove si consideri il rapporto funzionale che viene a instaurarsi tra specifico motivo d'impugnazione (che può investire ogni singola questione di merito, di fatto o di diritto, risolta dalla sentenza di primo grado) e potere di cognizione del giudice di appello, il quale è complementare a quello di determinazione dell'ambito oggettivo in cui si forma il c.d. «giudicato interno». Piuttosto, occorrerebbe dimostrare che, liquidato in primo grado il risarcimento del danno in una certa forma, laddove nessuna parte impugni la questione della modalità di liquidazione a mezzo di uno specifico motivo, sia nel potere del giudice di appello disporre ex officio una diversa modalità.
Il problema trascende, cioè, quello della liquidazione ex art. 2057 c.c. e, data la sua complessità, può qui solo essere accennato.
Due risultati, sembrerebbero però sicuri:
in assenza di impugnazione tout court con riguardo a qualunque questione componente il segmento di fattispecie relativo al quantum del credito risarcitorio, anche sulla modalità di liquidazione scelta in primo grado calerà il c.d. «giudicato interno» e le correlate determinazioni resteranno cristallizzate, per come assunte dal giudice a quo;
se viene formulata espressa impugnazione con riguardo alla modalità di liquidazione adottata, certamente il giudice di appello avrà il potere di decidere la questione, nell'esercizio del suo ordinario ufficio.
Più scivolosa si dimostra la soluzione laddove, invece, vengano formulati uno o più specifici motivi d'impugnazione rispetto ad alcune questioni concernenti il quantum senza che si contesti espressamente la scelta adottata circa la modalità di liquidazione del danno permanente (questo è proprio il caso che pare si sia presentato innanzi alla Suprema Corte).
Ebbene, rispetto a un simile scenario, si prospettano due soluzioni differenti.
Una più rigorosa, che limita il sindacato giudiziale alla sola questione che è stata fatta oggetto di censura nello specifico motivo (pur ammettendo, in linea con l'interpretazione dominante, che il Giudice di appello abbia potere di cognizione anche con riguardo ai profili che riguardano sì la questione impugnata ma che sono diversi rispetto a quelli prospettati nello specifico motivo – Cass., sez. VI civ., 28.07.2020, n. 16002; Cass., sez. III civ., 15.05.2019, n. 12875).
Una più liberale, la quale ammette un sindacato pieno su tutto il capo di domanda (o, comunque, anche su questioni diverse da quella fatta oggetto di specifico motivo e con essa connesse) cui afferisce la questione contestata con lo specifico motivo (Cass., sez. II civ., 07.05.2020, n. 8645; Cass., sez. I civ., 26.01.2016, n. 1377) e che, dunque, parrebbe consentire al giudice di appello di esercitare, in via officiosa e per la prima volta, il potere di liquidazione del danno in forma di rendita.
Tuttavia, tale seconda soluzione sembra in contrasto con la rigorosa disciplina dettata in materia di determinazione dell'oggetto dell'appello (cfr. art. 342 c.p.c.) così come interpretata dalla giurisprudenza di legittimità (cfr. anche, con riguardo alla necessità d'impugnazione della soluzione fornita in prime cure alle questioni di merito, Cass., Sez. VI civ., 07.02.2018, n. 2991, sulla scia dei rigorosi principi espressi da Cass., Sez. Un., 11.05.2017, n. 11799 e Cass., Sez. Un., 19.04.2016, n. 7700, part. §§ 5.2.1 e 5.4.2.1) e fattasi ancora più stringente (quanto meno più analitica) con l'imponente ultima riforma del rito civile recata dal d. lgs. 149/2022.
Conclusioni
In definitiva, pur muovendo da una premessa certamente condivisibile (e cioè quella secondo cui non è necessaria alcuna specifica istanza di parte – men che meno domanda giudiziale), la Cassazione giunge ad affermare sin troppo, esonerando il Giudice dall'obbligo di sollecitare il contraddittorio delle parti sulle questioni rilevate d'ufficio (così come appunto previsto dall'art. 101 comma 2 c.p.c.) e riconoscendogli – in sede di appello – un potere di cognizione su questioni non specificamente sollevate dalle parti nella formulazione dei motivi d'impugnazione (e ciò in violazione dell'art. 342 c.p.c.).
Alla luce di quanto sopra, il sospetto che la pronuncia in commento finisca per attribuire al Giudice il potere pressoché arbitrario di disporre il risarcimento in forma di rendita par quindi confermata, atteso che le parti sarebbero private di qualsiasi spazio processuale per svolgere le proprie difese nel primo grado e, addirittura, si ritroverebbero esposte al rischio di patire, in secondo grado, una riforma non richiesta della sentenza. E ancora, noteremo come tali criticità processuali possano addirittura aggravare quella “diffidenza” verso la rendita di cui dà atto la stessa Cassazione: in altri termini, quella che è stata accolta come la prima grande “apertura” della Corte alla liquidazione in forma di rendita, potrebbe addirittura sortire l'effetto esattamente opposto.
Invero, pur al netto di tali criticità, si rileva come la pronuncia della Cassazione offra comunque tra le righe alcune indicazioni che – nell'applicazione pratica – andrebbero a restringere l'effettivo ambito di apprezzamento del giudice ai fini della scelta della liquidazione in forma di rendita.
La Cassazione tiene infatti ad osservare «come, nel caso di macroinvalidità (specie se comportino la perdita della capacità di intendere e di volere), in quello di lesioni subite da un minore per il quale una prognosi di sopravvivenza risulti estremamente difficoltosa se non impossibile, in quello di lesioni inferte a persone socialmente deboli o descolarizzate (richiedenti asilo, disabili mentali o anche semplicemente macrolesi i quali già prima del sinistro si trovassero in profondo conflitto con i familiari), ovvero ancora con riguardo alle qualità del debitore (una compagnia di assicurazione, piuttosto che un privato o una pubblica amministrazione), sussista il serio rischio che ingenti capitali erogati in favore del danneggiato possano andare colpevolmente o incolpevolmente dispersi, in tutto o in parte, per mala fede o per semplice inesperienza dei familiari del soggetto leso. In simili casi il giudice, valutando comparativamente i pro ed i contro del caso concreto, ben potrà, se non addirittura dovrà, privilegiare una liquidazione del danno in forma di rendita, come correttamente deciso dalla Corte d'appello».
A sostegno di tale indicazione, peraltro, la Corte cita l'art. 10:102 dei Principles of European Tort Law (PETL) laddove prevede che «i danni sono liquidati in somma capitale o con pagamenti periodici quando ciò appaia più appropriato con particolare riguardo all'interesse del danneggiato».
Ebbene, da tali rilievi potrebbe desumersi che la Corte è ben consapevole dei rischi connessi a un troppo disinvolto ricorso alla rendita da parte del Giudice ed è proprio per tale ragione che ne “suggerisce” l'impiego solo al ricorrere di determinate condizioni che si aggiungono a quelle espressamente richiamate dall'art. 2057 c.c.e che potremmo definire “ambientali” (in quanto inerenti al contesto sociale/culturale in cui vive la vittima dell'illecito e tali da non garantire un corretto impiego – nell'interesse del macroleso – del risarcimento erogato in capitale).
D'altro canto – si badi – tali elementi estrinseci, per quanto rilevabili d'ufficio, potranno essere valutati dal Giudice solo nei limiti in cui gli stessi risultino già acquisiti agli atti (il che conferma ancora una volta come il potere del Giudice non possa comunque prescindere dalle allegazioni assertive e istruttorie delle parti e ciò quand'anche si volesse eludere l'art. 101 comma 2 c.p.c.).
Ad ogni modo, il dibattito si è appena aperto e non vi è dubbio che il ricorso alla rendita richieda un adeguato approfondimento interdisciplinare: affinché l'impiego di tale strumento risponda pur sempre all'esigenza e alla domanda di giustizia, specie laddove siano implicati valori e beni di massimo rango, quali appunto i diritti della persona.
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Sommario
Una breve premessa: sulla necessità o meno di una specifica «istanza» di liquidazione in forma di rendita
Questione rilevabile d'ufficio e applicazione dell'art. 101 comma 2 c.p.c.
Potere officioso e conversione del risarcimento in rendita all'esito del giudizio di appello