Rito del lavoro: poteri d'ufficio del giudice e produzione tardiva di un documento in fase di appello
27 Aprile 2023
Può il giudice di appello rigettare il gravame fondando la motivazione su un documento prodotto dalla parte appellata solo nel corso del giudizio di secondo grado?
Nel rito del lavoro, in base al combinato disposto dell'art. 416, co. 3, c.p.c. – secondo cui il convenuto deve indicare a pena di decadenza i mezzi di prova dei quali intende avvalersi (tra cui, ovviamente i documenti che deve contestualmente depositare) - e dell'art. 437, co.2, c.p.c. - che, a sua volta, pone il divieto di ammissione in grado di appello di nuovi mezzi di prova - l'omessa indicazione, nell'atto introduttivo del giudizio di primo grado, dei documenti, ovvero l'omesso deposito degli stessi, determinano la decadenza del diritto alla produzione dei documenti stessi, salvo che ciò sia giustificato dal tempo della loro formazione o dall'evolversi della vicenda processuale successivamente al ricorso ed alla memoria di costituzione.
Tale rigoroso sistema di preclusioni trova un contemperamento, nel rito del lavoro, nei poteri d'ufficio riconosciuti al giudice in materia di ammissione di nuovi mezzi di prova ove essi siano indispensabili ai fini della decisione della causa, sebbene tali poteri debbano essere pur sempre esercitati con riferimento ai fatti allegati dalle parti ed emersi nel processo a seguito del contraddittorio.
Pertanto, in fase di appello, il giudice, in applicazione del predetto art. 437, co. 2, c.p.c., è tenuto ad acquisire e valutare i documenti esibiti nel corso del giudizio dall'appellato, sia pure non in contestualità con il deposito della memoria di costituzione, allorquando detti documenti siano indispensabili perché idonei a decidere in maniera definitiva la questione controversa tra le parti. |