Insolvenza statica e affitto d'azienda

02 Maggio 2023

La Corte di cassazione, con questo arresto, esclude la possibilità di estendere l'applicazione del principio di insolvenza “statica”, valido per la società in liquidazione, anche alla società inattiva per aver questa demandato la prosecuzione dell'attività d'impresa a un soggetto terzo, mediante la stipulazione di un contratto di affitto di azienda.
Massima

Costituisce principio consolidato nella giurisprudenza espressa da questa Corte quello secondo cui, allorquando la società è in stato di scioglimento e quindi di liquidazione, la valutazione del giudice, ai fini dell'applicabilità dell'art. 5 l. fall., deve essere diretta unicamente ad accertare se gli elementi attivi del patrimonio sociale consentano di assicurare l'eguale ed integrale soddisfacimento dei creditori sociali, e ciò in quanto, non proponendosi l'impresa in liquidazione di restare sul mercato, ma avendo come esclusivo obiettivo quello di provvedere al soddisfacimento dei creditori previa realizzazione delle attività ed alla distribuzione dell'eventuale residuo tra i soci, non è più richiesto che essa disponga, come invece la società in piena attività, di credito e di risorse, e quindi di liquidità, necessari per soddisfare le obbligazioni contratte (Cass., Sez. 1, Sentenza n. 25167 del 07/12/2016; Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 24660 del 05/11/2020; Cass., Sez. 1, n. 13644/2013). Ma l'affermazione di tale principio vale per l'appunto per le società in stato di scioglimento e quindi di liquidazione e non già, come propugnato dalla ricorrente, anche per le società che abbiano concesso in affitto l'azienda e dunque – secondo la tesi di parte ricorrente – inattive. Per le quali vale invece il generale principio secondo cui lo stato di insolvenza deve essere desunto dall'impossibilità dell'impresa di continuare ad operare proficuamente sul mercato, che si traduca in una situazione d'impotenza strutturale (e non soltanto transitoria) a soddisfare regolarmente e con mezzi normali le proprie obbligazioni, per il venir meno delle condizioni di liquidità e di credito necessarie allo svolgimento dell'attività (cfr. anche Cass., Sez. 1, Ordinanza n. 7087 del 03/03/2022; Cass. n. 29913/2018).

La valutazione dello stato di insolvenza non può che essere affidata ad un giudizio di tipo prognostico diretto ad accertare, anche in una visione prospettica proiettata nel futuro prossimo dell'attività economica, la capacità dell'impresa ad assicurarsi una redditività dei vari fattori produttivi tale da garantirle la possibilità di coprire per lo meno i costi di produzione, anche attraverso il puntuale adempimento delle obbligazioni assunte per l'esercizio dell'attività produttiva o commerciale. E ciò anche attraverso la verifica della possibile facile liquidabilità dei beni patrimoniali costituenti l'attivo patrimoniale dell'impresa, e cioè attraverso lo scrutinio della compatibilità temporale della liquidazione dei beni dell'impresa con la permanenza di quest'ultima sul mercato e con il puntuale adempimento delle obbligazioni già contratte.



Il caso

Il provvedimento in commento è stato pronunciato dalla Suprema Corte all'esito di un giudizio di reclamo ex art. 18 l. fall. avverso la sentenza dichiarativa di fallimento di una società la quale, prima di accedere alla procedura concorsuale, aveva concesso in affitto l'azienda di sua proprietà. Nell'ambito di tale giudizio, la società ricorrente e i soci illimitatamente responsabili di quest'ultima hanno contestato la sussistenza del presupposto dell'insolvenza ex art. 5 l. fall., sostenendo che, (i) ai fini dell'accertamento del presupposto in questione, la società che ha concesso in affitto la propria azienda dovrebbe essere equiparata alla società in liquidazione, avendo, di fatto, cessato lo svolgimento della propria attività caratteristica;(ii) nel caso di specie, gli elementi attivi del patrimonio sociale, costituiti dalle disponibilità liquide e dall'immobile di proprietà della società, avrebbero consentito l'integrale soddisfazione dei creditori, tenuto conto anche dell'inesigibilità del credito erariale per effetto della domanda di accesso alla cd. “rottamazione bis” presentata dalla società.

All'esito del giudizio, la Cassazione ha respinto la tesi dei ricorrenti e rigettato l'impugnazione da questi proposta, sulla scorta dei principî espressi nelle massime sopra riportate.



Questione giuridica e soluzione

Nel provvedimento in commento, la Cassazione ha escluso che l'impresa che abbia concesso in affitto l'azienda di sua proprietà e abbia, di conseguenza, cessato di fatto lo svolgimento della propria attività tipica, possa essere assoggettata, in sede di valutazione dei presupposti per la dichiarazione di fallimento, al medesimo trattamento dell'impresa posta formalmente in liquidazione. In altri termini, secondo la Suprema Corte, ai fini dell'accertamento dello stato di insolvenza la società meramente inattiva non può essere equiparata alla società in liquidazione, con la conseguenza che, nel primo caso, l'eventuale eccedenza dell'attivo patrimoniale rispetto alle passività aziendali non è sufficiente a escludere l'insolvenza, laddove la liquidità di cui la società può disporre non le consenta di fare fronte regolarmente alle passività correnti.



Osservazioni

La legge fallimentare fornisce, all'art. 5, una nozione unitaria di insolvenza (rimasta immutata anche a seguito dell'entrata in vigore del Codice della Crisi di Impresa e dell'Insolvenza, che, all'art. 2, lettera b, riprende testualmente la definizione previgente), fondata, come noto, sull'incapacità dell'imprenditore a fare fronte regolarmente alle proprie obbligazioni. Al riguardo, dottrina e giurisprudenza sono solite, pur in assenza di specifiche indicazioni normative sul punto, declinare tale unico concetto in termini differenti a seconda che l'impresa sia ancora attiva oppure si trovi in fase di liquidazione. Nel primo caso, infatti, il concetto di insolvenza viene generalmente inteso in senso “dinamico” o “prospettico”, con la conseguenza che l'eventuale eccedenza dell'attivo sul passivo sarebbe inidonea ad escludere lo stato di insolvenza in tutti quei casi in cui lo squilibrio finanziario non risulti superabile con mezzi normali nel rispetto dei termini di scadenza dei debiti, in considerazione, soprattutto, della non facile né rapida liquidabilità degli asset aziendali. In presenza di una società in liquidazione, invece, si suole fare coincidere il concetto di insolvenza con quello di insufficienza patrimoniale (cd. insolvenza “statica”); in questa ipotesi, in altri termini, si ritiene che la valutazione del giudice debba essere diretta unicamente ad accertare se gli elementi attivi del patrimonio sociale consentano di assicurare l'eguale ed integrale soddisfacimento dei creditori sociali, e ciò in quanto, non proponendosi l'impresa in liquidazione di restare sul mercato, ma avendo come esclusivo obiettivo quello di provvedere al soddisfacimento dei creditori previa realizzazione delle attività ed alla distribuzione dell'eventuale residuo tra i soci, non è più richiesto che essa disponga, come invece la società in piena attività, di credito e di risorse, e quindi di liquidità, necessari per soddisfare le obbligazioni contratte (in tal senso si veda, tra le altre, Cass., 7 dicembre 2016, n. 25167, richiamata nella sentenza in commento).

Ciò posto, la questione esaminata dalla Cassazione nel provvedimento in commento attiene alla possibilità o meno di estendere l'applicazione di quest'ultimo principio anche alle ipotesi di inoperatività di mero fatto, e più specificamente alla società che, pur non essendo stata posta formalmente in liquidazione, ha tuttavia cessato, nei fatti, di svolgere direttamente la propria attività caratteristica, demandandone la prosecuzione a un soggetto terzo mediante la stipulazione di un contratto di affitto di azienda. Come noto, tale soluzione viene frequentemente adottata dall'imprenditore in crisi proprio in vista dell'accesso alla procedura concorsuale, al fine di tutelare il ceto creditorio e, nel contempo, di salvaguardare i valori produttivi dell'azienda tramite il cd. affitto-ponte, generalmente collegato a un obbligo irrevocabile di acquisto dell'azienda da parte dell'affittuario. Sennonché, non sembrerebbe essere questo il caso che la Cassazione si è trovata ad affrontare nella vicenda in esame, posto che, nel caso di specie, l'imprenditore, lungi dall'accedere spontaneamente alla procedura concorsuale o comunque dall'aderire all'istanza di fallimento proposta nei suoi confronti (nella specie, dal pubblico ministero), si è invece opposto alla dichiarazione di fallimento, invocando proprio l'affitto d'azienda da lui stipulato quale circostanza asseritamente ostativa all'apertura della procedura concorsuale.

La Cassazione, nel provvedimento qui in esame, ha respinto nettamente una simile prospettazione, sul duplice rilievo che: (i) “lo stato di liquidazione di una società di persone consegue al verificarsi di una o più delle cause di scioglimento previste dall'art. 2272 c.c., tra le quali non è dato riscontrare l'affitto, in sé considerato, della azienda sociale, che, in sé, integra un atto di gestione della società mediante un utilizzo indiretto dei propri beni strumentali, per il periodo di vigenza del contratto”; (ii) il principio della c.d. insolvenza “statica” “trova fondamento nella modifica dell'oggetto sociale che si verifica nella società in stato di scioglimento e di liquidazione (il cui oggetto esclusivo diviene quello di dismettere il patrimonio sociale per la soddisfazione dei creditori, con distribuzione dell'eventuale residuo tra i soci), modifica che, anche qui, non può ritenersi operante per effetto del solo affitto a terzi della azienda sociale”. In sostanza, secondo la Suprema Corte, l'imprenditore “quiescente”, “che abdica cioè allo stesso esercizio dell'attività tipica per limitarsi ad incassare i canoni d'affitto” (in questi termini Trib. Patti, 12 novembre 2013, reperibile su Ilcaso.it) non può essere equiparato, ai fini dell'accertamento del presupposto dell'insolvenza ex art. 5 l. fall., all'imprenditore che abbia formalmente avviato la fase di liquidazione.

Sulla scorta di tali argomenti, la Suprema Corte ha ravvisato lo stato di insolvenza della società ricorrente, coincidente, secondo l'ordinario criterio di valutazione operante in materia, con una situazione d'impotenza, strutturale e non soltanto transitoria, a soddisfare regolarmente e con mezzi normali le proprie obbligazioni a seguito del venir meno delle condizioni di liquidità e di credito necessarie alla relativa attività”, situazione desumibile, nel caso di specie: (i) dall'impossibilità di addivenire a una pronta liquidazione dell'immobile aziendale, anche in ragione della sua sottoposizione a sequestro penale; (ii) dall'ingente debito tributario accumulato dalla società fallita, che, secondo quanto già affermato dalla Corte di merito (con valutazione ritenuta non censurabile in cassazione), sebbene dilazionato secondo la normativa nota come "rottamazione-bis", non poteva essere adempiuto correttamente dalla debitrice nemmeno nella sua prima scadenza dilazionata, in ragione, da un lato, della scarsa liquidità di cassa determinata dal sequestro penale ancora in essere e, per altro verso, della non facile liquidabilità degli strumenti finanziari di cui la debitrice era titolare.

La soluzione accolta dalla Cassazione appare sostanzialmente condivisibile, se non altro con riferimento al caso in esame, anche alla luce della circostanza, sopra evidenziata, che, nella concreta fattispecie, il ricorso, da parte del debitore, allo strumento dell'affitto di azienda non appariva finalizzato (almeno a quanto è dato desumere dalla narrativa della sentenza in commento) all'accesso a una procedura concorsuale o comunque alla risoluzione della crisi di impresa, ma unicamente alla prosecuzione “indiretta” dell'attività per il tramite di un soggetto terzo affittuario dell'azienda; da ciò sembra potersi evincere, quanto meno implicitamente, la volontà dell'imprenditore di permanere sul mercato (confermata peraltro dalla successiva impugnazione da lui proposta avverso la sentenza dichiarativa di fallimento), tenuto conto anche della natura presumibilmente temporanea dell'affitto dell'azienda (destinata quindi – deve ritenersi – a ritornare nella disponibilità del debitore al termine dell'affitto stesso), sicché nel caso di specie non vi era effettivamente ragione di derogare agli ordinari criteri di valutazione dello stato di insolvenza.

Fermo quanto sopra, la motivazione adottata dalla Suprema Corte a giustificazione della decisione assunta può esporsi non dimeno a qualche rilievo, in particolare nella parte in cui fa leva sulla modifica dell'oggetto sociale conseguente alla messa in liquidazione della società. A quest'ultimo proposito, infatti, deve osservarsi che, secondo la giurisprudenza, anche la concessione in affitto dell'intero complesso aziendale, configurando in concreto una cessazione dell'esercizio diretto dell'impresa, comporta una sostanziale modifica dell'oggetto sociale della società concedente ai sensi dell'art. 2479, comma 2, n. 5, c.c., tale da rendere necessaria, a pena di nullità, la previa delibera autorizzativa dell'assemblea dei soci (in tal senso, cfr. Trib. Milano, Sezione specializzata in materia di imprese, 2 novembre 2017, in Giur. It, 2018, e Trib. Milano, Sezione specializzata in materia di imprese, 1° luglio 2013, in Società, 2013).

Ciò premesso, in linea generale appare condivisibile la tesi secondo cui l'accertamento dello stato di insolvenza deve essere condotto caso per caso, non potendosi generalmente trascurare nessuno degli indici (consistenza del patrimonio aziendale in rapporto all'esposizione debitoria complessiva, presumibili flussi di cassa, ecc.) che vengono tradizionalmente considerati sintomatici della capacità o meno del debitore di fare fronte regolarmente alle proprie obbligazioni. A quest'ultimo proposito, è stato opportunamente evidenziato, ad esempio, che lo sbilanciamento negativo del patrimonio, pur non costituendo di per sé solo prova dell'insolvenza, “costituisce, pur sempre, nella maggior parte dei casi, uno dei tipici “fatti esteriori” che, a norma della legge fallim., art. 5, si mostrano rivelatori dell'impotenza dell'imprenditore a soddisfare le proprie obbligazioni” (così Cass., 17 febbraio 2012, n. 2351).Per altro verso, la stessa distinzione, operata dalla giurisprudenza, tra i criteri utilizzabili ai fini dell'accertamento del presupposto oggettivo della dichiarazione di fallimento a seconda che la società sia attiva o in liquidazione, appare a ben vedere sempre più sfumata; a quest'ultimo proposito, la dottrina si è interrogata sulla persistente validità, a seguito delle modifiche all'istituto della liquidazione introdotte dalla riforma del diritto societario del 2003 (e in particolare alla luce del nuovo art. 2487, primo comma, lett. C), c.c., che attribuisce espressamente ai liquidatori anche il potere, se autorizzati dall'assemblea, di proseguire l'esercizio provvisorio dell'impresa, in funzione del migliore realizzo, nonché della possibilità di revocare lo stato di liquidazione, prevista dall'art. 2487 ter c.c.), dell'orientamento giurisprudenziale che, con riferimento alle società in liquidazione, identifica il concetto di insolvenza con quello di insufficienza patrimoniale (in argomento, cfr. A. DALMARTELLO, R. SACCHI, D. SEMEGHINI, I presupposti del fallimento in Fallimento e concordato fallimentare, a cura di A. JORIO, Milano 2016, 189). Sembra in ogni caso potersi affermare che, in questa materia, permane un certo margine di discrezionalità del giudice, chiamato a valutare, di volta in volta, l'esistenza o meno di un'effettiva prospettiva di soddisfazione del ceto creditorio all'esito della fase liquidatoria.



Guida all'approfondimento

Tra i numerosissimi precedenti giurisprudenziali che hanno affrontato il tema dei criteri di accertamento dello stato di insolvenza ai sensi dell'art. 5 l. fall., si segnalano, in aggiunta alle pronunce menzionate nel corpo del commento, Cass., 3 marzo 2022, n. 7087 e Cass., 20 novembre 2018, n. 29913; con specifico riferimento all'insolvenza delle società in liquidazione, si vedano, ex pluribus: Cass., 5 novembre 2020, n. 24660; Cass., 4 luglio 2013, n. 16752; Cass., 30 maggio 2013, n. 13644; Cass., 14 ottobre 2009, n. 21834.

In dottrina, per una trattazione specifica della nozione di insolvenza, quale presupposto oggettivo della dichiarazione di fallimento, nella vigenza della legge fallimentare, si rinvia, su questo portale, a M. GIORGETTI, Insolvenza, in www.ilFallimentarista.it, Bussola del 19 maggio 2020.



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