La corretta distribuzione dell'onere probatorio tra contribuente ed Erario nelle frodi IVA

10 Maggio 2023

Qual è, se esiste, il confine tra uno sviluppo economico e sociale fondato sul libero commercio ed il “corrispondente” diritto dell'Erario a disconoscere la detrazione IVA nelle ipotesi in cui il soggetto passivo, in maniera poco diligente, abbia avuto rapporti commerciali con soggetti passivi intenti a perpetrare frodi IVA con conseguente nocumento delle casse erariali e, quindi, anche unionali?
Premessa

Probabilmente, come sembra emergere dall'ennesimo intervento in argomento della Corte di giustizia UE in tema di distribuzione dell'onere probatorio tra il soggetto passivo e l'Erario, la risposta sta nel mezzo, ovvero nella ricerca ed analisi, volta per volta, “di tutti gli elementi e di tutte le circostanze di fatto del caso di specie, effettuata conformemente alle norme in materia di prova del diritto nazionale” (p. 32 che richiama anche C‑281/20, p. 52 e giur. ivi cit.), al fine di addivenire ad una soluzione che consenta di contemperare le due “opposte esigenze” sopra accennate.

Qui la Corte UE, nella causa C-512/21, con un approccio maggiormente garantista nei riguardi degli operatori in buona fede rispetto a quello più rigoroso rappresentato nell'immediato precedente C-641/21, conclude per la detraibilità dell'IVA nella misura in cui non è consentito all'Erario negare a priori ad un soggetto passivo il beneficio di tale diritto adagiandosi sulla “semplice” rilevazione che l'operazione sia parte di una catena di fatturazione circolare inscritta in una frode IVA di tipo carosello, fenomeno elusivo che trova il proprio humus d'elezione proprio nel commercio intra UE e che, anche se declinabile con modalità differenti, risulta sempre organizzato in forma “a catena” (v. concl. Avv. gen. D. R. Colomer in C-2004/239, p. 27 e ss.).

La casistica

Il procedimento di rinvio pregiudiziale dinnanzi al giudice unionale, vertente sull'interpretazione degli artt. 9 (par. 1), 10, 167, 168, lett. a), 178, lett. a), 220 e 226 della Direttiva IVA 112/2006, ha riguardato una società rumena (la Aquila Part Prod) alla quale l'amministrazione fiscale di quel Paese contestava l'esistenza di una differenza in termini di IVA, qualificata in gran parte come rimborso indebito e, per il resto, come imposta non versata, con conseguente sanzione ed applicazione di una penalità di mora.

La Agrirom Srl, società di diritto rumeno e dante causa della ricorrente, dal 2 giugno 2010, era registrata in Ungheria ai fini IVA. L'attività principale della ricorrente era la fornitura di servizi di vendita all'ingrosso per conto terzi di prodotti alimentari, bevande e tabacco, nell'ambito della quale essa effettuava cessioni intra UE di beni e acquisti interni e, in Ungheria, operava nel settore del commercio all'ingrosso di prodotti alimentari.

Al fine di esercitare la propria attività commerciale in Ungheria, la ricorrente concludeva, nel 2011, un contratto di agenzia con la Corpinvest Srl. Nell'ambito della propria attività di commercio all'ingrosso, la ricorrente acquistava da una società dell'olio ad uso alimentare che poi rivendeva ad un ulteriore società (la Strongfood Sro), operazione ritenuta dall'Erario quale tipica frode “carosello”, il quale contestava che nella catena partecipavano un “operatore inadempiente o missing trader” insieme ad alcune “società buffer o filtro”, mentre la ricorrente era la “società broker o agente” e la Strongfood Sro era la “società di comodo” che rivendeva il prodotto in Ungheria agli operatori inadempienti.

L'Ufficio fondava le proprie constatazioni, in particolare, sulla violazione di norme interne relative alla sicurezza della catena alimentare nonché delle disposizioni del Reg. CE 178/2002, sostenendo che il reale obiettivo perseguito era il dirottamento della merce dalla Slovacchia verso l'Ungheria.

Evidenziava, inoltre, che il legale rappresentante della Corpinvest aveva omesso di fornire i certificati di qualità dei prodotti venduti e che, come richiesto dalla normativa in materia di sicurezza alimentare, ogni partecipante alla catena delle cessioni avrebbe dovuto conoscere il luogo di origine del prodotto alimentare che aveva acquistato e successivamente rivenduto, nonché la sua conformità in termini di qualità.

A ciò si aggiungeva che l'olio ad uso alimentare era fatturato più volte attraverso diverse società ungheresi, il che “dimostrava” che lo scopo era quello di “far viaggiare” il prodotto tra l'Ungheria e la Slovacchia, in uno alla circostanza di un margine di profitto molto ridotto applicato dalle imprese nella catena di fatturazione.

A supporto della dimostrazione della cosciente e volontaria partecipazione della ricorrente ad una frode IVA carosello, l'Ufficio contestava che i contratti erano conclusi con la partecipazione della ricorrente, che vi era una clausola inusuale nei contratti di trasporto, che il medesimo giorno in cui il cliente slovacco della ricorrente acquistava la merce dall'Ungheria questa era rivenduta nuovamente nello stesso Paese, che vi erano legami personali tra gli operatori, oltre alla circostanza che la Corpinvest e la ricorrente avessero già partecipato in precedenza ad operazioni di frode in materia di IVA.

Investito della questione, il giudice ungherese rivolgeva alla Corte UE le seguenti questioni pregiudiziali:

  1. se fosse compatibile con il diritto unionale la prassi dell'Erario di assimilare, automaticamente e senza alcuna verifica, la conoscenza dei fatti costitutivi della frode che aveva avuto una persona fisica, rappresentante legale di una società con la quale il soggetto passivo aveva concluso un contratto di mandato per l'esercizio della sua attività, alla conoscenza che tale soggetto passivo aveva della stessa, senza esaminare il contenuto del contratto di mandato né delle sue clausole;
  2. se l'esistenza di una catena di fatturazione circolare dimostrasse ex sé la circostanza oggettiva di una frode fiscale o se l'Erario dovesse altresì indicare il partecipante alla frode;
  3. se la direttiva IVA consentisse di pretendere dal soggetto passivo la verifica di circostanze che l'Erario ha potuto scoprire solo dopo un'indagine durata circa cinque anni e che aveva richiesto diverse verifiche supplementari mediante strumenti di diritto pubblico;
  4. se, in relazione all'elemento psicologico, qualora l'Erario accertasse la partecipazione attiva del soggetto passivo ad una frode fiscale, fosse sufficiente che le prove acquisite comprovassero che il soggetto, impiegando la dovuta diligenza, avrebbe potuto sapere di partecipare ad una frode fiscale, senza dover dimostrare che egli sapesse di parteciparvi con il proprio comportamento attivo. Qualora poi fosse dimostrata la partecipazione attiva, se occorresse ulteriormente provare che l'azione fraudolenta derivava da una condotta concordata con i membri nella catena o se fosse sufficiente la circostanza di una conoscenza reciproca fra i membri della catena;
  5. se fosse altresì compatibile con la direttiva IVA una prassi consistente nel fondare il disconoscimento della detrazione IVA su una presunta violazione di norme in materia di sicurezza della catena alimentare prive di refluenza alcuna sull'osservanza degli obblighi fiscali del soggetto passivo;
  6. se vi fosse da ultimo tale compatibilità qualora, in assenza dell'intervento di un organismo ufficiale in materia di sicurezza della catena alimentare, l'Erario effettuasse nella propria decisione valutazioni, relative al soggetto passivo, rientranti esclusivamente nella sfera di competenza di tale organismo ufficiale, traendo da ciò conseguenze fiscali, senza che il soggetto passivo avesse potuto contestare l'accertamento della violazione delle norme in materia di sicurezza in un procedimento differente da quello tributario.
Compatibilità alla direttiva IVA della prassi dell'Erario

La Corte argomenta a partire da alcuni assunti già proposti in numerosi precedenti (v. ad es. Kittel e Recolta Recycling, C‑439/04, p. 54, 55 e 59; Mahagében e Dávid, C‑80/11, p. 45, Ferimet, C‑281/20, p. 45 e 46).

Evidenzia da un lato che “i singoli non possono avvalersi fraudolentemente o abusivamente delle norme del diritto dell'Unione”, spettando “alle autorità ed ai giudici nazionali negare il beneficio del diritto a detrazione se è dimostrato, alla luce di elementi obiettivi, che tale diritto viene invocato in modo fraudolento o abusivo”, e ciò sia quando un'evasione dell'IVA sia commessa dal soggetto passivo stesso sia quando si dimostri che il soggetto passivo “sapeva o avrebbe dovuto sapere che, con l'acquisto di tali beni e servizi, partecipava ad un'operazione che si iscriveva in un'evasione dell'IVA” (v. p. 26 e 27 della sentenza).

Di contro ricorda anche come occorra escludere ogni forma di responsabilità oggettiva dell'operatore economico, argomento declinato nel tempo dalla Corte sia in campo IVA sia ai fini accise ed a quelli doganali in campo daziario, dal momento che “un sistema di responsabilità oggettiva andrebbe al di là di quanto necessario per garantire i diritti dell'Erario” (richiama Ferimet, C‑281/20, p. 49, nonché Finanzamt Wilmersdorf, C‑108/20, p. 25, Bonik, C‑285/11, p. 41 e 42, e Vikingo Fővállalkozó, C‑610/19, p. 52).

Dal momento che (v. p. 30 della sentenza) “il diniego del diritto a detrazione è un'eccezione all'applicazione del principio fondamentale che tale diritto costituisce”, spetta all'Erario “dimostrare adeguatamente gli elementi oggettivi” dai quali dedurre che il contribuente era partecipe di un'evasione IVA o che “sapeva o avrebbe dovuto sapere” (regola questa creata dalla stessa giurisprudenza europea; v. C. De Ieso, in L'evoluzione della giurisprudenza UE sui rimedi sanzionatori contro le frodi IVA, Corr. Trib. 1/2023, p. 74), che l'operazione invocata a fondamento del diritto a detrazione si iscriveva in una simile evasione, spettando poi ai giudici nazionali la verifica della dimostrazione da parte pubblica dell'esistenza degli elementi oggettivi (v. Ferimet, C‑281/20, p. 50 e giur. ivi cit.).

Ecco allora che la Corte, coerente ai propri precedenti, individua come probabile unica chiave di lettura un approccio case by case che, depurato da “mezzi di prova” presuntivi, può raggiungere il proprio telos (lato Erario), giustificativo della compressione del diritto a detrazione IVA, solo se i fatti siano sufficientemente (o anche adeguatamente, v. Mahagében, C‑80/11, p. 49) dimostrati attraverso una “valutazione globale di tutti gli elementi e di tutte le circostanze di fatto del caso di specie, effettuata conformemente alle norme in materia di prova del diritto nazionale” (p. 32 in sentenza).

In tal modo si richiede all'autorità fiscale di dover dimostrare sia l'elemento oggettivo che provi l'evasione dell'IVA, sia “l'elemento psicologico” che ha indotto il soggetto passivo a partecipare attivamente alla frode o perché sapeva o avrebbe dovuto sapere, senza poter ricorrere “a supposizioni o a presunzioni” (pur altrove diversamente ammesse, v. F. S. Fontana, C-648/16, p. 36, circa la compatibilità dell'art. 273 della Dir. 2006/112 con l'accertamento induttivo da studi di settore) aventi l'effetto, confutando l'onere della prova, di violare il diritto a detrazione dell'IVA.

Ragionando diversamente, come altrove condivisibilmente evidenziato (v. concl. Avv. gen. D. R. Colomer in C-2004/239, p. 60), e negando il diritto a detrazione al “soggetto passivo che si inserisce in un circuito, nel quale, senza il suo concorso o il suo consenso, un altro partecipante non versa quanto percepito, si spezzerebbe la catena e verrebbe meno l'obiettività, vanificando così l'obiettivo proclamato sin dalla Prima Direttiva di gravare il commercio di un'imposta generale sui consumi”.

Nei casi in cui, quindi, il contribuente ignora di trovarsi calato in un disegno più ampio, inteso all'elusione dell'obbligo fiscale, oppure, pur essendone a conoscenza, si tiene ai margini dell'accordo illecito, il suo diritto a deduzione” non può essere negato (richiama causa Optigen, C-354/03).

Ciò premesso, con la seconda questione la Corte esprime un primo principio mediante il quale viene derubricata da prova (nelle intenzioni dell'Erario) ad “indizio serio” la semplice “esistenza di una catena di fatturazione circolare la quale, pur rappresentando una spia di una possibile o probabile evasione, da sola non basta a dimostrare l'esistenza di una frode di tipo carosello, spettando sempre all'autorità fiscale di “individuare con precisione gli elementi costitutivi della frode e dimostrare le condotte fraudolente” in uno alla partecipazione attiva del soggetto passivo.

Altrove la Corte (v. Kittel, C‑439/04, p. 56 e 57) ha coerentemente evidenziato che il rigetto del diritto alla detrazione (e, in ultima istanza, la richiesta di rimborso), possibile se “alla luce di elementi oggettivi tale diritto viene invocato in modo fraudolento o abusivo” e che si verifica sia nel caso di frode fiscale commessa dallo stesso soggetto passivo sia nel caso in cui questo sapeva o avrebbe dovuto sapere, è giustificato sulla considerazione che il soggetto passivo è valutato quale partecipante a tale frode, indipendentemente dalla circostanza che egli tragga o meno beneficio dalla vendita dei beni”, in qualità di collaboratore con gli autori della frode dei quali ne diviene complice.

Compatibilità alla direttiva IVA della negazione della detrazione

La quarta questione attiene alla domanda del giudice del rinvio circa la compatibilità alla direttiva IVA della negazione della detrazione nel caso l'Erario attesti una partecipazione attiva del soggetto passivo alla frode, fondata su elementi di prova che dimostrino non una siffatta partecipazione bensì sulla circostanza che questo “avrebbe potuto sapere, dando prova di tutta la necessaria diligenza”, e se su tale aspetto incida o meno la conoscenza personale tra tutti i membri della catena di cessioni.

In tale passaggio la Corte ribadisce che (v. il p. 39 che richiama C‑439/04, p. 59; C‑80/11, p. 45, nonché C‑281/20, p. 46), in caso di evasione, il diritto a detrazione deve essere negato in tre casi, vale a dire quando è dimostrato che il soggetto passivo

  • ha commesso esso stesso un'evasione dell'IVA;
  • sapeva che, con il suo acquisto, partecipava ad un'operazione che si iscriveva in una evasione dell'IVA;
  • avrebbe dovuto sapere.

Nelle ultime due ipotesi, inscrivibili ad una forma di partecipazione passiva all'evasione, la Corte ha ritenuto (v. p. 40) che un soggetto passivo che sapeva o avrebbe dovuto sapere che, con il proprio acquisto, partecipava ad un'operazione collegata ad un'evasione dell'IVA, vada considerato quale partecipante a tale evasione, e ciò indipendentemente dalla circostanza di trarre o meno beneficio dalla rivendita dei beni o dall'utilizzo dei servizi nell'ambito delle operazioni soggette a imposta da esso effettuate a valle”, dal momento che questo collabora con gli autori di tale evasione e ne diviene complice (richiama Ferimet, C‑281/20, p. 47 e giur. ivi cit., a partire da Kittel, C‑439/04, p. 56).

Coerentemente, nel caso in cui l'autorità fiscale accerti e dimostri che il soggetto passivo avrebbe dovuto sapere che, con il suo acquisto, partecipava ad un'operazione evasiva, il diniego del diritto a detrazione, sostiene la Corte UE, può fondarsi “sulla mancata adozione di una certa diligenza” (v., C‑108/20, p. 27), similmente, per certi versi, a quanto accade in campo penale nelle ipotesi contravvenzionali che vanno comunemente sotto il nome di incauto acquisto (reato di “Acquisto di cose di sospetta provenienza” previsto dall'art. 712 del c.p.; v. F. Antolisei, Manuale di Diritto Penale, Parte speciale I, a cura di: L. Conti, pag. 454 e ss., Milano, 2002).

È, quindi, il “semplice” acquisto dei beni o dei servizi interessati ad “essere determinante per fondare un diniego del diritto a detrazione”, non essendo altresì necessario, “a tal fine, stabilire che il soggetto passivo ha partecipato attivamente a tale evasione, in un modo o in un altro, anche solo promuovendola o facilitandola” (v., Finanzamt Wilmersdorf, C‑108/20, p. 26).

In ogni caso, a fronte sia di partecipazione attiva che passiva del soggetto passivo, l'Erario è tenuto a fornire la prova che il soggetto passivo, con il suo acquisto, “partecipava ad un'operazione che si iscriveva in un'evasione”, non essendo sufficiente la mera circostanza che i membri della catena di cessioni si conoscessero, al fine di dimostrare la partecipazione del soggetto passivo all'evasione.

Compatibilità alla direttiva IVA della norma interna che richiede al soggetto passivo di sottoporsi a verifiche complesse e approfondite

Con la sua terza questione, poi, è stato chiesto alla Corte circa la compatibilità alla Dir. 2006/112, in presenza di indizi di irregolarità o di frode, della norma interna che richiede al soggetto passivo di dar prova “di una maggiore diligenza per assicurarsi che l'operazione da esso effettuata non lo conduca a partecipare a una frode e di procedere a verifiche complesse e approfondite”, analoghe a quelle esperibili dall'Erario titolare di poteri di indagine sconosciuti al singolo contribuente, o se siano sufficienti delle norme interne aziendali in materia di acquisti, dirette a verificare la situazione dei partner commerciali in uno alla regola del rifiuto del pagamento in contanti.

Tale argomento è affrontato dalla Corte, condivisibilmente, facendo leva sul principio di proporzionalità, illustrato nell'art. 5, par. 4, del trattato sull'Unione europea e declinato in campo sanzionatorio dalla Corte già a partire dal caso Stanislaus Pieck in C-157/79 in materia di libera circolazione comunitaria dei lavoratori (v. p. 19 e ss.).

Così ragionando e richiamando i precedenti sul punto (v., in tal senso, C‑80/11, p. 54 e 59, C‑101/16, p. 52, nonché C‑108/20, p. 28), la Corte ha, da un lato, ripetutamente osservato come sia compatibile con il diritto unionale esigere che il fornitore adotti tutte le misure che gli si possono ragionevolmente richiedere al fine di assicurarsi che l'operazione effettuata non lo conduca a partecipare ad un'evasione fiscale”, dovendo l'operatore accorto, qualora sussistano indizi che consentono di sospettare l'esistenza di irregolarità o di un'evasione, “vedersi obbligato ad assumere informazioni su un altro operatore, presso il quale prevede di acquistare beni o servizi, al fine di sincerarsi della sua affidabilità” (v. C‑80/11, p. 60; C‑610/19, p. 55, nonché C‑108/20, p. 29).

Dall'altro, però, tale esigenza viene “riequilibrata” argomentandosi che la determinazione delle misure su accennate, che “in una fattispecie concreta possono essere ragionevolmente imposte ad un soggetto passivo”, dipende essenzialmente dalle circostanze specifiche di detta fattispecie.

In altre parole non si può pretendere dal soggetto passivo, nonostante il suo massimo grado di zelo, di “compiere controlli complessi e approfonditi relativi al suo fornitore, trasferendo di fatto su di esso gli atti di controllo incombenti a tale autorità” (v. p. 50 che richiama Paper Consult, C‑101/16, p. 51), né tantomeno che questo verifichi che il suo fornitore “disponga dei beni di cui trattasi e sia in grado di fornirli e che abbia soddisfatto i propri obblighi di dichiarazione e di pagamento dell'IVA” (richiama C‑80/11, p. 61 nonché C‑430/19, p. 47).

Compatibilità alla direttiva IVA del rifiuto della detrazione

Con la quinta e sesta questione si è indagato circa la compatibilità alla direttiva IVA nonché al principio della certezza del diritto ed al il diritto ad un equo processo di cui all'articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali dell'UE, del rifiuto della detrazione qualora il soggetto passivo non abbia rispettato gli obblighi derivanti dalle norme nazionali o dal diritto dell'UE relative non già all'IVA bensì alla sicurezza della catena alimentare e ciò anche in mancanza di una previa decisione dell'organo amministrativo deputato a verificare e contestate una tale violazione.

La Corte, chiamata a pronunciarsi circa la refluenza sulla direttiva IVA del regolamento UE in materia di sicurezza alimentare nel precedente Altic in C‑329/18, richiamando (v. p. 34) anche le conclusioni dell'Avv. Gen. M. Bobek (p. 46), escludeva in radice alcuna forma di osmosi tra i due sistemi giuridici sostenendo la completa estraneità degli obblighi previsti dal regolamento rispetto “ai requisiti o alle condizioni sostanziali e formali del diritto a detrazione previsti” dalla direttiva IVA, perseguendo il primo finalità diverse dall'individuazione della frode all'IVA.

La violazione del regolamento potrebbe, tuttavia, “costituire uno dei vari elementi che, congiuntamente e in maniera concordante, tendono ad indicare che il soggetto passivo sapeva o avrebbe dovuto sapere” di partecipare a un'operazione di evasione dell'IVA (p. 57 in C-512/21).

Compatibilità con il diritto ad un equo processo

Quanto poi alla compatibilità con il diritto ad un equo processo ed affinché il giudice investito di un ricorso avverso la decisione erariale consideri come elemento di prova dell'esistenza di un'evasione dell'IVA una violazione delle norme nazionali o unionali in materia di sicurezza della catena alimentare, in assenza di una decisione dell'autorità amministrativa competente, occorre che le parti siano messe in grado di avere conoscenza legale dell'atto e “possano discutere in contraddittorio gli elementi di fatto e di diritto decisivi per l'esito del procedimento” (richiama Glencore, C‑189/18, p. 62 e giur. ivi cit.).

In tal modo non viene pregiudicato il diritto a un equo processo solo se ogni elemento di prova “può essere contestato e discusso in contraddittorio dinanzi a tale giudice”.

Viceversa, qualora il giudice non sia competente a esaminare l'esistenza di una violazione degli obblighi derivanti dalle norme interne o UE relative alla sicurezza della catena alimentare, utilizzata come elemento di prova dell'evasione o della partecipazione a tale evasione, va di conseguenza esclusa la sua utilizzabilità pena la violazione del diritto ad un ricorso giurisdizionale effettivo (v. WebMindLicenses, C‑419/14, p. da 87 a 89, e Glencore, C‑189/18, p. da 66 a 68).

In conclusione

Da ultimo e con la prima questione, si è domandato circa la compatibilità alla direttiva IVA della prassi dell'Erario, al fine di negare il diritto a detrazione, di assimilare la conoscenza dei fatti costitutivi della frode da parte del legale rappresentante del mandatario, indipendentemente dalle norme interne relative al mandato e dalle clausole del contratto di mandato concluso tra le parti,

alla conoscenza che il soggetto passivo mandante aveva della stessa.

Qui la Corte, in conclusione, coerentemente ha considerato ininfluente l'esistenza e le caratteristiche di un contratto di mandato o delle clausole del contratto, inutile a schermare il soggetto passivo da una sua conoscenza (sapeva o avrebbe dovuto sapere) del fatto secondo i canoni sopra argomentati dai giudici unionali, non potendo il soggetto passivo sottrarsi a responsabilità “sostenendo di ignorare i fatti costitutivi di un'evasione dell'IVA noti al suo mandatario”, pena il rischio di dissoluzione di ogni argomento o elemento di prova contrari adducibili dall'autorità fiscale.

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