Licenziamento per giustificato motivo oggettivo per ragioni organizzative a fronte di assunzione di altri lavoratori: al datore di lavoro l’onere della prova
10 Maggio 2023
Massima
Le lacune di indagine in ordine alla coerenza logica ed al nesso di causalità intercorrente tra il calo di volume d'affari ed il licenziamento di un lavoratore, a fronte dell'assunzione di nuovi dipendenti, compromettono la corretta verifica della sussistenza dei requisiti richiesti dall'art. 3 della Legge n. 604/1966 che consentono al datore di lavoro di procedere al recesso. Il caso
La sentenza allo studio affronta la vicenda di una lavoratrice, già assunta con contratto part time ed addetta a mansioni di estetista, licenziata per giustificato motivo oggettivo. A sostegno della causale di recesso invocata, il datore di lavoro sosteneva di dover così fronteggiare l'esigenza di ridurre i costi di gestione e di dover procedere alla riorganizzazione dell'azienda. La questione
La lavoratrice impugnava il licenziamento risultando però soccombente nei primi gradi di giudizio.
Il Tribunale e, successivamente, la Corte d'Appello concordavano nel ritenere sussistente la causale organizzativa addotta dall'azienda. Risultava dimostrato il calo dei ricavi lamentato dalla società datrice di lavoro nell'anno 2017, poi proseguito anche nel primo semestre dell'anno successivo, con una incidenza pari al dieci per cento circa del fatturato complessivo. Risultava poi provato l'avvenuto incremento dei costi del personale. Emergeva altresì l'attuazione di nuove assunzioni nel periodo precedente al recesso oggetto di causa, ma la causale dei nuovi ingressi in azienda veniva fatta coincidere con l'esigenza di sopperire all'assenza della stessa dipendente poi licenziata; veniva poi notato che, al momento delle dette assunzioni, la situazione di crisi aziendale non era ancora emersa. Da ultimo, la scelta di interrompere il rapporto di lavoro con la ricorrente rispetto ad altri prestatori di lavoro, a parità di qualifica e carichi di famiglia, era valutata come corretta e rispettosa del principio di buona fede e correttezza, alla luce del minore monte ore di lavoro eseguito dalla lavoratrice coinvolta rispetto ai colleghi.
La dipendente proponeva dunque ricorso per Cassazione, denunziando la violazione e la falsa applicazione degli artt. 115, 116 c.p.c. e 3, Legge n. 604/1966. La doglianza riguardava l'accertamento della ragione produttiva – organizzativa posta alla base del recesso. Per la ricorrente, l'asserito andamento negativo dell'azienda avrebbe dovuto essere verificato confrontando gli utili ottenuti nei due anni 2017 e 2018, sui quali influiscono i costi affrontati, e non già i ricavi del medesimo lasso di tempo, Inoltre, la quasi contestuale assunzione di tre lavoratori avrebbe dovuto dimostrare la mancanza di nesso causale tra la lamentata crisi economica ed il licenziamento irrogato. Le soluzioni giuridiche
La Corte di Cassazione giudica il ricorso fondato.
La motivazione, invero piuttosto stringata, della decisione in esame esordisce compiendo una ricognizione dei più consolidati approdi raggiunti dalla giurisprudenza in tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo. La Suprema Corte ha così modo di ribadire che questa tipologia di recesso si fonda e trova legittimità su tre elementi principali.
In primis il recesso ex art. 3, legge n. 604/1966 richiede la soppressione del settore lavorativo o del reparto o del posto cui era addetto il lavoratore licenziato mentre non è necessario che siano cancellate tutte le mansioni in precedenza affidate allo stesso. In secondo luogo, si puntualizza che la tipologia di licenziamento allo studio deve essere riconducibile ad una scelta datoriale volta a incidere sulla struttura e sull'organizzazione dell'impresa o su un determinato processo produttivo, anche allo scopo di ottenere una migliore efficienza o di perseguire un incremento di redditività, con il corollario che la decisione datoriale è insindacabile dal Giudice quanto ai profili di congruità ed opportunità, a meno che la stessa non sia meramente frutto di una simulazione.
Da ultimo, il licenziamento per giustificato motivo oggettivo può definirsi correttamente irrogato quando sia impossibile impiegare il prestatore di lavoro in mansioni diverse. Quest'ultimo elemento, notano i Giudici di legittimità, non è espresso a livello normativo ma esprime nondimeno la necessità che il recesso non costituisca un atto pretestuoso da parte del datore di lavoro e riconnesso a caratteristiche proprie della persona espulsa dall'azienda.
La sentenza rimarca poi che l'onere di provare la ricorrenza nel caso concreto dei tre profili appena passati in rassegna ricade sul datore di lavoro, il quale può fare ciò anche ricorrendo a presunzioni. D'altro canto, è escluso che il lavoratore sia richiesto anche solo di allegare l'esistenza di altre posizioni aziendali che possano astrattamente essere affidate al medesimo.
La Cassazione si sofferma successivamente sulle caratteristiche tipiche della scelta organizzativa datoriale che deve rinvenirsi alla base del licenziamento allo studio. Richiamando una giurisprudenza ormai consolidata, viene rilevato che la circostanza addotta dal datore di lavoro deve avere avuto un'efficacia causale nella produzione di un autentico cambiamento nell'assetto organizzativo aziendale, con soppressione di una determinata posizione lavorativa. Il principio di libertà dell'iniziativa economica sancito dall'art. 41 Cost. fa sì che l'opzione datoriale non sia sindacabile nel merito, sotto i profili di congruità ed opportunità; nondimeno, al Giudice del lavoro è richiesto di verificare che l'opzione in parola sia riconnessa ad una ragione organizzativa o produttiva realmente esistente. La verifica da ultimo citata ha valore decisivo, perché l'esito negativo della medesima lascerà emergere il carattere ingiustificato del licenziamento per mancanza di veridicità o pretestuosità della causale addotta.
Dopo la suddetta ricognizione del panorama giurisprudenziale, la Suprema Corte si concentra sul caso di specie, rilevando come la società che aveva intimato il licenziamento aveva invocato la ricorrenza del bisogno di una riorganizzazione dell'attività, adducendo a sostegno una riduzione dei ricavi ed un contemporaneo incremento dei costi del personale verificatisi nel lasso di tempo che aveva preceduto il recesso. Viene poi posto in evidenza che il Giudice del merito aveva avuto modo di riscontrare che la parte datoriale, sempre nel periodo temporale a cui si accennava, aveva assunto un apprendista e due lavoratori a chiamata, probabilmente per sopperire all'assenza per maternità del prestatore di lavoro poi licenziato. Si riporta anche la considerazione, pure riportata dalla pronunzia di primo grado, per cui il calo del fatturato aveva determinato la società ad accorpare più mansioni in capo ad un lavoratore il cui contratto già prevedeva un numero di ore settimanali maggiore rispetto a quelle di cui al contratto del collega licenziato.
Le considerazioni svolte dai Giudici del merito non trovano la condivisione della Corte di Cassazione.
La sentenza in commento considera incoerente la valutazione espressa dalla decisione di primo grado e poi confermata in sede di impugnazione in merito alla sussistenza di un nesso causale tra le dedotte esigenze di ristrutturazione aziendale e il licenziamento del lavoratore che aveva poi proposto il ricorso. Per i Giudici di legittimità, tale incoerenza è resa palese dall'assunzione di altri dipendenti – en passant, la Suprema Corte stigmatizza che non si sia proceduto ad accertare il tipo di contratto stipulato con i nuovi assunti, l'orario osservato, le mansioni affidate – avvenuta proprio nel contesto temporale nel quale si palesava la lamentata contrazione dei ricavi. Inoltre, si nota come le dette assunzioni, avvenute quando il lavoratore poi licenziato era rientrato in azienda dopo un congedo, abbiano contribuito all'incremento dei costi del personale, pure richiamato dalla parte datoriale a giustificazione della necessità di procedere con il recesso.
In definitiva, per la Corte di Cassazione, sussistono nella specie gravi lacune di indagine, tali da compromettere la corretta verifica della sussistenza dei requisiti richiesti dall'art. 3 della Legge n. 604/1966 affinché possa un licenziamento per giustificato motivo oggettivo considerarsi legittimamente irrogato. Nella specie, viene stigmatizzata la decisione di ritenere corretto il recesso intimato solo sulla base del minore monte ore svolto dal lavoratore allontanato, pure in mancanza di prove in ordine all'esigenza aziendale di fronteggiare una situazione economica sfavorevole e non contingente: uno stato di insufficienza probatoria derivante dal citato contrasto logico tra il calo di volume d'affari e il recesso da una parte e l'assunzione di altri dipendenti dall'altra parte.
Coerentemente con ciò, la Suprema Corte ha cassato la sentenza impugnata con rinvio ad altra Corte d'Appello. Osservazioni
Con la decisione in commento la Corte di Cassazione coglie l'occasione per eseguire una rassegna di alcuni dei più importanti approdi raggiunti a proposito del licenziamento per giustificato motivo oggettivo nel corso dell'ultimo decennio. Come noto, la fattispecie appena evocata venne introdotta nel nostro ordinamento con una norma ormai risalente, l'art. 3 della Legge 15 luglio 1966, n. 604; nondimeno, anche recentemente la giurisprudenza è intervenuta per meglio specificare – e forse anche ampliare – i confini applicativi dell'istituto.
La sentenza della Suprema Corte esordisce rammentando che il tipo di licenziamento allo studio ben può essere irrogato in occasione della soppressione del settore lavorativo, del reparto o del posto cui era addetto il lavoratore coinvolto dal recesso, senza che sia necessaria la contestuale soppressione di tutte le mansioni già affidate allo stesso. Tale statuizione si pone in continuità con una corrente interpretativa emersa nell'ultimo ventennio ed ormai saldamente consolidata, tesa a ravvisare la ricorrenza di una ragione inerente all'attività produttiva (per usare il lessico della Legge del 1966) tale da ben motivare la scelta di licenziare anche in presenza di una redistribuzione di compiti tra i dipendenti.
In particolare, sembra interessante richiamare la pronunzia, sempre di legittimità, 1° luglio 2016, n. 13516, ove si esponeva una sorta di compendio delle specie di soppressione di posizioni lavorative riconducibili al giustificato motivo oggettivo. In detta sede si richiamava: la diversa organizzazione tecnico – produttiva che abbia reso obsolete o comunque non più necessarie certe mansioni; l'esternalizzazione di una fase produttiva; la soppressione di un reparto o la riduzione del numero dei suoi addetti in quanto sovrabbondante per l'impegno richiesto; la nuova ripartizione di mansioni tra il personale in servizio attuata allo scopo di rendere più economica ed efficiente la gestione dell'impresa che faccia emergere come esuberante la posizione del prestatore di lavoro già adibito ai compiti oggetto di redistribuzione. Proprio quest'ultima casistica appare essere alla base della vertenza decisa dalla sentenza allo studio, la quale dunque conferma la consolidata tendenza verso una interpretazione lata della tipologia di recesso di cui all'art. 3 della Legge n. 604/1966, tale da ricomprendere e giustificare anche il licenziamento adottato per migliorare la produttività e la competitività dell'impresa: netto è il superamento della passata esegesi che ammetteva la legittimità di una riorganizzazione aziendale siffatta solo quale risposta ad una situazione sfavorevole se non di crisi aziendale tout court. La decisione affronta poi il tema della effettività della scelta datoriale posta alla base della decisione di procedere al recesso, affermando che il controllo giudiziale su questo aspetto deve intendersi limitato al piano della reale consistenza della dedotta esigenza aziendale, non potendo essere discusso il merito della medesima. Anche in ciò ci si muove su un percorso interpretativo già tracciato. L'inattuabilità di un sindacato giudiziale sulla convenienza o sull'opportunità della ristrutturazione attuata dall'impresa discende in primo luogo dal principio costituzionale dì libertà dell'impresa economica (art. 41 Cost.) ed è affermato esplicitamente dall'art. 30, comma 1, della legge n. 183 del 2010 (cd. Collegato lavoro). La norma da ultimo richiamata statuisce infatti che il controllo del Giudice non può essere esteso ai profili delle valutazioni tecniche, organizzative e produttive che competono al datore di lavoro.
Peraltro la pronunzia non dimentica di sottolineare come la verifica della Magistratura sulla legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo va estesa al profilo del nesso di causalità tra il dedotto progetto di ristrutturazione del processo produttivo e la soppressione della posizione del lavoratore coinvolto. In altre parole, si rende necessario controllare che l'espulsione del dipendente costituisca un esito coerente con la scelta organizzativa fatta propria dal datore di lavoro. Va rammentato che la tradizionale severità con cui la giurisprudenza si approccia alla verifica in esame comporta la considerazione del licenziamento quale misura estrema, percorribile solamente quando non sia possibile realizzare altrimenti il progetto datoriale. Nella prassi, ciò si traduce con l'estensione del sindacato giudiziale al profilo del cd. repêchage: l'impossibilità di adottare misure alternative al recesso viene considerata dimostrabile attraverso la prova dell'impossibilità di “ripescare” il dipendente e di adibirlo a compiti diversi da quelli che gli erano stati assegnati prima della riorganizzazione dell'impresa.
Ci si può domandare se la granitica corrente interpretativa affermatasi a proposito del nesso di causa (e delle sue implicazioni) sia effettivamente compatibile con la recente ma altrettanto solida esegesi che considera legittima base del licenziamento ex art. 3, Legge n. 604/1966 qualsiasi tipologia di scelta aziendale, a prescindere dello scopo della medesima.
A ben vedere, infatti, il controllo sulla praticabilità o meno nel singolo caso concreto del repêchage appare in grado di incidere profondamente proprio sul merito del progetto datoriale, realizzando un contrasto con l'avvertita necessità, per il Giudice medesimo, di astenersi da valutazioni sulla congruità e sull'opportunità dell'operato dell'imprenditore. Si aggiunga che nel testo della Legge del 1966 non ricorre alcun riferimento al repêchage, né si trova ivi altrimenti affermata la necessità che il licenziamento costituisca la extrema ratio per il datore di lavoro impegnato a soddisfare “ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro ed al regolare funzionamento di essa”.
La sentenza in commento sceglie però di non soffermarsi sul punto, limitandosi invece ad evidenziare l'ineludibilità, anche nel caso di specie, del controllo sulla impossibilità di reimpiego del prestatore di lavoro. Per vero la Suprema Corte rileva come il profilo del repêchage sia rimasto “inespresso a livello normativo” ma considera comunque tassativa la verifica sul tema allo scopo di testare il carattere effettivo e non pretestuoso o discriminatorio del lavoratore.
Affrontando il tema dell'onere della prova, anche in questa pronunzia la Corte di Cassazione non trascura di ricordare che il compito di dimostrare l'esistenza dei presupposti di validità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo ricade sul datore di lavoro ed è assolvibile anche ricorrendo a presunzioni. Si tratta di una puntualizzazione del tutto in linea con il dettato normativo. L'art. 5 della Legge del 1966 afferma infatti che l'onere della prova della sussistenza del giustificato motivo di licenziamento spetta alla parte datoriale. A ciò corrisponde un compito probatorio decisamente semplificato per il lavoratore, cui toccherà di dare dimostrazione della ricorrenza del rapporto di lavoro e del successivo recesso. Tale accomodamento degli oneri probatori risulta del resto pienamente rispettoso del principio di vicinanza della prova. Dal momento che il tipo di licenziamento in discussione rappresenta l'esito di un progetto aziendale che, come visto, può essere orientato al raggiungimento di un ampio ventaglio di finalità (dalla reazione ad un momento di crisi all'incremento della competitività, tanto per esemplificare), è del tutto ragionevole richiedere che la concreta sussistenza di tale progetto venga dimostrata da chi ha ideato lo stesso: cioè dal datore di lavoro.
Utilmente la sentenza rammenta che l'onere della prova ricadente sull'impresa riguarda anche il repêchage – e dunque, vedendo il problema dal punto di vista del datore, l'impossibilità di procedere allo stesso – non potendosi richiedere al lavoratore neppure di allegare l'esistenza, nell'organizzazione aziendale, di posti potenzialmente a lui assegnabili.
Si tratta di una precisazione che testimonia il superamento di una corrente interpretativa che teorizzava la necessità, per il prestatore di lavoro, di dedurre la possibilità di un reimpiego presso l'impresa che aveva deciso il recesso, pur senza arrivare a richiedere l'indicazione di una specifica posizione lavorativa effettivamente disponibile. Per questo orientamento, solamente in presenza di una siffatta deduzione si sarebbe potuta affermare la venuta ad esistenza dell'onere probatorio datoriale relativo all'impossibilità di assegnazione a diverse mansioni del dipendente licenziato.
Nell'ultimo decennio si è però rafforzata l'esegesi fatta propria anche dalla decisione in commento, certamente più vicina alla lettera dell'art. 5 della Legge n. 604/1966. Si è visto come detta norma ponga a carico del datore di lavoro il compito di dimostrare la sussistenza del giustificato motivo di recesso e l'impossibilità di procedere al “ripescaggio” del lavoratore costituisce un presupposto dell'esistenza di detto motivo; sotto altro profilo – prosegue la giurisprudenza attestata sulla più recente e solida delle correnti interpretative – non esistono altre disposizioni che possano fondare la ricorrenza di un onere di allegazione in capo al prestatore di lavoro.
È proprio il tema della prova a costituire il nucleo della pronunzia in esame. Come detto, la Suprema Corte ravvisa nelle decisioni dei gradi di merito delle gravi lacune di indagine a proposito della dimostrazione degli elementi costitutivi del giustificato motivo di licenziamento dedotto dal datore di lavoro. A tutta prima, si potrebbe trarre l'errata impressione di uno “sconfinamento” in valutazioni sul merito da parte dei Giudici di legittimità, ciò che probabilmente è dovuto alla particolare sinteticità di alcuni passaggi dell'impianto motivazionale. Con una lettura più meditata, tuttavia, è agevole constatare come la decisione non esprima valutazioni in merito al valore probatorio degli elementi raccolti in fase istruttoria, soffermandosi invece sulla contraddittorietà delle sentenze impugnate, giunte ad affermare la ricorrenza di un genuino motivo di licenziamento sulla base di argomentazioni non coerenti e basate su allegazioni di parte di significato tutt'altro che univoco.
Si è visto come la decisione concentri la sua attenzione specialmente sulla mancata concordanza di dati quali il calo del volume d'affari da una parte e l'assunzione di nuovi dipendenti dall'altra parte. Soprattutto quest'ultima circostanza viene tradizionalmente annoverata dalla Corte della nomofilachia tra gli indicatori rivelatori di un andamento aziendale tutt'altro che difficoltoso. E' interessante richiamare la sentenza di legittimità 24 giugno 2015, n. 13116, ove si affermò la necessità, specie in casi caratterizzati da profili di dubbia trasparenza, di non limitare l'indagine sulla sussistenza di un giustificato motivo oggettivo di licenziamento alla sola situazione aziendale esistente alla data del recesso ma di estenderla ad un arco temporale idoneo a svelare l'eventuale predeterminazione di circostanze finalizzate ad un licenziamento effettuato al di fuori delle ipotesi consentite. Nel caso deciso dalla pronunzia del 2015, la finalità “elusiva” del datore di lavoro era stata resa evidente proprio dalle assunzioni di nuovi lavoratori avvenute sia prima che dopo il licenziamento irrogato, motivato con la necessità di ristrutturazione l'azienda per fronteggiare un momento di crisi. Non molto diversamente, nella vicenda alla base della pronunzia allo studio si assisteva al contrasto tra le lamentate contrazioni dei ricavi e crescita dei costi del personale e l'entrata in azienda di nuova forza lavoro (senza, tra l'altro, che si fossero accertate le relative tipologie contrattuali e qualifiche attribuite). Ne derivava un quadro lacunoso, non perspicuo e dunque inadatto, come conclude la Corte di Cassazione, a sostenere la conclusione troppo sbrigativamente raggiunta dai Giudici del merito a proposito dell'effettiva ricorrenza dell'esigenza di reagire ad una situazione economica sfavorevole. Giurisprudenza:
Corte di Cassazione, sez. lav., 30 novembre 2022, n. 35225. Corte di Cassazione, sez. lav., 18 novembre 2022, n. 34049. Corte di Cassazione, sez. lav., 11 marzo 2021, n. 6916. Corte di Cassazione, sez. lav., 22 febbraio 2021, n. 4673. Corte di Cassazione, sez. lav., 6 agosto 2020, n. 16795. Corte di Cassazione, sez. lav., 20 luglio 2020, n. 15401.
Dottrina:
ABBASCIANO, ARIANNA, La comunicazione del licenziamento per giustificato motivo oggettivo deve contenere anche la prova del repêchage?, in Riv. Rel. Indust., 2021, pp. 177 ss. CORRIAS, MASSIMO, Licenziamento per giustificato motivo oggettivo e interessi dell'imprenditore tra “situazioni sfavorevoli”, “risparmio dei costi” e “incremento dei profitti”, in Resp. Civ. Prev., 2017, pp. 1228 ss. CROTTI, MARIA TERESA, Licenziamento per giustificato motivo oggettivo e reintegrazione ex art. 18 St. Lav. in caso di violazione dell'obbligo di repêchage, in ilgiuslavorista.it PALLINI, MASSIMO, La (ir)rilevanza dei “motivi” dell'impresa nel sindacato di legittimità del licenziamento economico, in Riv. It. Dir. Lav., 2017, pp.758 ss. SALVATORE, FEDERICA, Concordato preventivo e giustificato motivo oggettivo, in Riv. It. Dir. Lav., 2021, pp. 739 ss. |