Rimessi alle S.U. i dubbi sul regime processuale della responsabilità dei soci per i debiti della società estinta

Simone Marzo
12 Maggio 2023

In materia di effetti estintivi della cancellazione delle società dal registro delle imprese, viene rimessa alle Sezioni Unite una questione controversa relativa al regime processuale della responsabilità degli ex soci limitatamente responsabili per i debiti già facenti capo alla società.
Massima

La quinta sezione della Corte di Cassazione rimette gli atti al Primo Presidente per l'eventuale assegnazione della causa alle Sezioni Unite della seguente questione, che è stata oggetto di contrasto nella giurisprudenza della Corte: se la condizione testualmente fissata dall'art. 2495 c.c. al fine di consentire ai creditori sociali di fare valere i loro crediti dopo la cancellazione della società nei confronti dei soci (ovvero l'esistenza di riparti dell'attivo sociale goduti sulla base del bilancio finale di liquidazione), si rifletta sul requisito dell'interesse ad agire in capo al creditore sociale o sulla legittimazione passiva del socio medesimo ai fini della prosecuzione del processo originariamente instaurato contro la società e se la riconducibilità nell'ambito dell'una condizione dell'azione o dell'altra implichi conseguenze specifiche in tema di onere della prova.

Il caso

L'ordinanza in commento prefigura un ulteriore passo verso la progressiva soluzione delle molteplici questioni giuridiche aperte da un intervento normativo di importanza apparentemente secondaria operato dal legislatore della riforma del diritto societario del 2003, ovvero quello concernente la riconosciuta efficacia estintiva della cancellazione delle società dal registro delle imprese.

Nelle sue linee generali, l'argomento è noto, essendo ormai da molti anni al centro di un ampio dibattito dottrinale e giurisprudenziale.

Con la chiara volontà di superare un orientamento pretorio assolutamente univoco consolidatosi nell'arco di molti decenni, il legislatore della riforma del diritto societario ha modificato la previgente formulazione dell'art. 2456 c.c., ricollocandone il contenuto nel novellato art. 2495 c.c., nel cui secondo comma ha aggiunto l'inciso “ferma restando l'estinzione della società”; come hanno riconosciuto le Sezioni Unite della Cassazione nelle sentenze n. 4060, 4061 e 4062 del 22 febbraio 2010, l'aggiunta di tale inciso ha avuto l'effetto di conferire alla cancellazione (rectius: all'iscrizione della cancellazione) della società dal registro delle imprese l'effetto immediatamente estintivo della società medesima: la cancellazione della società dal registro delle imprese ne comporta dunque l'immediata estinzione, indipendentemente dall'esistenza di rapporti giuridici non ancora definiti.

Benché coerente con il novellato dato normativo, il riconoscimento di tale principio ha determinato l'emersione di altre importanti questioni che nel vigore del precedente orientamento giurisprudenziale (volto a negare l'estinzione della società prima dell'esaurimento di tutti i rapporti giuridici ad essa facenti capo) non avevano ragione di porsi. Ciò è avvenuto anche in ragione dell'estrema lacunosità dell'art. 2495, comma 2, c.c.: nonostante la legge delega 3 ottobre 2001, n. 366 demandasse al Governo di disciplinare anche “gli effetti della cancellazione della società dal registro delle imprese, il regime di responsabilità per debiti non soddisfatti, e delle sopravvenienze attive e passive” (così l'art. 8, comma 1, lett. a), secondo periodo, l. n. 366/2001), il legislatore delegato si è sostanzialmente sottratto a tale compito, limitandosi a riproporre (con l'aggiunta dell'inciso di cui si è detto) la previgente formulazione dell'art. 2456, comma 2, c.c., integrata dalla sola previsione concernente la possibilità di notificare la domanda presso l'ultima sede della società, se proposta entro un anno dalla cancellazione.

Tale situazione ha dato luogo ad un altro importante intervento delle Sezioni Unite della Cassazione le quali, con le sentenze n. 6070, 6071 e 6072 del 12 marzo 2013, hanno chiarito che l'estinzione della società conseguente alla sua cancellazione dal registro delle imprese determina un fenomeno di tipo successorio, in virtù del quale le obbligazioni si trasferiscono ai soci, i quali ne rispondono, nei limiti di quanto riscosso a seguito della liquidazione o illimitatamente (a seconda che, pendente societate, essi fossero o meno limitatamente responsabili per i debiti sociali) e si trasferiscono del pari ai soci, in regime di contitolarità o di comunione indivisa, i diritti ed i beni non compresi nel bilancio di liquidazione della società estinta; nelle medesime pronunce le Sezioni Unite hanno anche illustrato i risvolti processuali di tale configurazione, affermando che “La cancellazione volontaria dal registro delle imprese di una società, a partire dal momento in cui si verifica l'estinzione della società medesima, impedisce che essa possa ammissibilmente agire o essere convenuta in giudizio” ed aggiungendo: “Se l'estinzione della società cancellata dal registro intervenga in pendenza di un giudizio del quale la società è parte, si determina un evento interruttivo del processo, disciplinato dall'art. 299 c.p.c. e segg., con possibile successiva eventuale prosecuzione o riassunzione del medesimo giudizio da parte o nei confronti dei soci. Ove invece l'evento estintivo non sia stato fatto constare nei modi previsti dagli articoli appena citati o si sia verificato quando il farlo constare in quei modi non sarebbe più stato possibile, l'impugnazione della sentenza pronunciata nei riguardi della società deve provenire o essere indirizzata, a pena d'inammissibilità, dai soci o nei confronti dei soci succeduti alla società estinta”.

Come dimostra l'ordinanza in commento, però, a dispetto dell'ampiezza ed organicità della trattazione ivi esposta, nemmeno le pronunce del 2013 hanno esaurito definitivamente tutti gli aspetti problematici aperti dall'affermata efficacia estintiva della cancellazione delle società dal registro delle imprese.

Le questioni giuridiche

Con l'ordinanza de qua, come anticipato, la quinta sezione della Corte di Cassazione rimette nuovamente alle Sezioni Unite una questione relativa, nei termini di quanto si dirà appresso, all'effetto estintivo della cancellazione delle società dal registro delle imprese; la questione sollevata riguarda, in particolare, il regime processuale della responsabilità degli ex soci limitatamente responsabili per i debiti già facenti capo alla società di capitali e rimasti insoddisfatti in sede di liquidazione.

L'ordinanza scaturisce da una controversia tributaria rimessa alla cognizione della sezione quinta della Corte; la stessa, tuttavia, solleva questioni giuridiche di carattere più generale, la cui rilevanza non è limitata al solo ambito dell'accertamento e della riscossione dei crediti di natura tributaria.

In sintesi, il caso esaminato dalla Corte è il seguente. L'Amministrazione Finanziaria notificava ad una società a responsabilità limitata in liquidazione un avviso di accertamento che veniva dalla stessa impugnato dinanzi al Giudice Tributario, il quale in primo grado riduceva la pretesa tributaria accertata. Nelle more del giudizio la società veniva cancellata dal registro delle imprese (non risulta chiaro, in realtà, se nel caso di specie la cancellazione sia avvenuta propriamente nelle more del giudizio di primo grado oppure in pendenza del termine per l'appello) sicché, nell'appellare la decisione di primo grado, l'Amministrazione Finanziaria conveniva gli ex soci della società.

All'esito dell'appello, la decisione di primo grado veniva riformata e la pretesa tributaria veniva confermata integralmente; gli ex soci convenuti in appello proponevano pertanto ricorso in Cassazione avverso la sentenza di secondo grado, deducendo che l'Amministrazione Finanziaria non aveva dimostrato che gli stessi ex soci avessero riscosso somme in base al bilancio finale di liquidazione, come richiesto dall'art. 2945, comma 2, c.c.; sulla base di tale constatazione lamentavano (tra l'altro) la nullità della sentenza di secondo grado per non aver rilevato la carenza di interesse dell'Ufficio ad appellare nei confronti degli ex soci a seguito dell'estinzione della società, nonché per non aver rilevato la carenza di legittimazione passiva degli ex soci a resistere all'appello proposto dall'Ufficio, in entrambi i casi perché non era stata dimostrata la loro personale responsabilità in relazione ai debiti già gravanti sulla società estinta.

In tale contesto, la quinta sezione della Corte ha ritenuto che la decisione del ricorso implica “l'esame della questione controversa, che è stata oggetto di contrasto nella giurisprudenza di questa Corte, se la condizione testualmente fissata dall'art. 2495 c.c., al fine di consentire ai creditori sociali di fare valere i loro crediti, dopo la cancellazione della società, nei confronti dei soci, si rifletta sul requisito dell'interesse ad agire in capo all'Amministrazione finanziaria o sulla legittimazione passiva del socio medesimo ai fini della prosecuzione del processo originariamente instaurato contro la società e se la riconducibilità nell'ambito dell'una condizione dell'azione o dell'altra implichi conseguenze specifiche in tema di onere della prova”. Avendo rilevato un contrasto nella propria giurisprudenza, il Collegio ha quindi sottoposto l'articolata questione appena esposta al primo presidente, perché sia valutata l'opportunità della sua rimessione all'esame delle Sezioni Unite civili.

Osservazioni

Secondo quanto stabilisce l'art. 2495, comma 2, c.c., l'ex socio di società di capitali cancellata dal registro delle imprese (e dunque estinta) risponde dei debiti sociali rimasti insoddisfatti soltanto nei limiti di quanto riscosso in base al bilancio finale di liquidazione. In sostanza, l'ex socio risponde verso il creditore sociale insoddisfatto soltanto se e nei limiti in cui abbia riscosso somme in base al bilancio finale di liquidazione.

Ciò posto, la prassi giurisprudenziale si rivela tuttora assai incerta su quale sia il ruolo che, nella concreta dinamica processuale, debba riconoscersi alla prova del fatto che l'ex socio abbia o meno effettivamente riscosso somme in base al bilancio finale di riscossione. Riscontrate tali incertezze, l'ordinanza in commento rimette alle Sezioni Unite di pronunciarsi proprio su tale profilo, individuando almeno tre filoni giurisprudenziali formatisi in materia.

Secondo un primo orientamento, il fatto che l'ex socio non abbia goduto di un qualche riparto in base al bilancio finale di liquidazione non inciderebbe sulla sua assunzione della qualità di successore della società estinta e, correlativamente, della sua legittimazione ad causam rispetto alla domanda (o all'impugnazione) proposta dal creditore sociale, né sull'interesse ad agire in capo a quest'ultimo, potendo sussistere beni e diritti non compresi nel bilancio di liquidazione ma comunque trasferiti ai soci; l'insussistenza di riparti a favore dell'ex socio, invece, inciderebbe unicamente sull'esigibilità in fase esecutiva del credito azionato nei suoi confronti dal creditore insoddisfatto (in tal senso, tra le altre, Cass., sez. V, sent. 4 gennaio 2022, n. 2; Cass., sez. V, ord. 5 novembre 2021, n. 31904; Cass., sez. VI-5, ord. 19 novembre 2020, n. 26402).

Secondo un diverso orientamento, la riscossione di una quota dell'attivo sociale in base al bilancio finale di liquidazione costituirebbe un elemento della fattispecie costitutiva del diritto azionato dal creditore nei confronti dell'ex socio, sicché la prova di tale circostanza incomberebbe sul creditore che intenda agire contro l'ex socio, secondo il normale riparto dell'onere della prova ed in applicazione del principio che l'onere della prova incombe su chi pretende di far valere un diritto (così, tra le altre, Cass., sez. III, ord. 15 gennaio 2020, n. 521; Cass., sez. I, sent. 6 dicembre 2019, n. 31933, in questo portale, con nota di Rizzi; Cass., sez. VI-5, ord. 23 novembre 2016, n. 23916; Cass., sez. V, sent. 13 luglio 2012, n. 11968). Esaminando tale filone giurisprudenziale, nel quale la questione viene talvolta affrontata in meri obiter dicta, non è in realtà chiaro se la mancata dimostrazione di tale presupposto di fatto inciderebbe sui profili processuali della domanda (facendo venir meno l'interesse ad agire o la legittimazione passiva dell'ex socio rispetto alla domanda del creditore) ovvero sul piano meramente sostanziale (determinando, in sostanza, il rigetto nel merito della domanda di cognizione proposta del creditore insoddisfatto contro l'ex socio).

La Corte individua infine un terzo orientamento, in un certo senso intermedio tra le due posizioni appena richiamate, secondo il quale, se da un lato è vero che l'aver goduto di un riparto dell'attivo sociale costituisce presupposto dell'assunzione in capo al socio della qualità di successore e, correlativamente, della legittimazione ad causam ai fini della prosecuzione del processo avviato contro la società, dall'altro l'onere di provare l'insussistenza di tale presupposto graverebbe proprio sull'ex socio che intenda opporsi alla domanda o all'impugnazione proposta nei suoi confronti dal creditore sociale, atteggiandosi la negazione di tale circostanza come fatto modificativo, impeditivo o estintivo dell'altrui pretesa (così, Cass., sez. V, ord. 5 novembre 2021, n. 31904, cit.; Cass., sez. V, sent. 31 gennaio 2017, n. 2444).

Come si vede, la giurisprudenza maturata in subiecta materia si presenta effettivamente assai frastagliata ed in certi casi persino confusa. A riprova di quanto appena detto, la stessa ordinanza in commento mostra qualche incertezza nel collocare nell'uno piuttosto che nell'altro dei tre filoni giurisprudenziali delineati alcuni dei precedenti citati; ad esempio, le sentenze n. 31904/2021 e n. 2444/2017 sono ricondotte ora nel secondo ora nel terzo orientamento poiché in effetti, esaminando tali pronunce, vi si trovano richiamati e giustapposti principi tra loro contrastanti. In breve, come osservato anche dalla dottrina, un'autentica babele caratterizza tuttora il dibattito sulla responsabilità degli ex soci di società estinte.

Come si legge nell'ordinanza in commento, dunque, è evidente che “le pronunce di questa Corte, anche quelle successive alle sentenze delle Sezioni Unite nn. 6070, 6071 e 6072 del 12 marzo 2013, non hanno definitivamente chiarito la questione in esame […], che presenta, indubbiamente, ancora molti aspetti problematici e che lasciano residuare molte incertezze per le parti del giudizio”.

La rimessione alle Sezioni Unite appare dunque assai opportuna, onde tentare di fare chiarezza su una questione tanto rilevante sul piano teorico quanto su quello della concreta operatività processuale. Si tratterà, peraltro, di un compito non facile, dovendo contemperare la necessità di individuare l'opzione ricostruttiva più corretta sul piano sistematico con quella di assicurare in maniera equilibrata la tutela dei diritti dei creditori sociali insoddisfatti (tra i quali, come dimostra la ricorrenza di pronunce della sezione tributaria, molto frequentemente vi è l'Erario).

Conclusioni

Nel caotico quadro delineato supra e rilevato dalla stessa Cassazione, qualsiasi pretesa di anticipare in questa sede le conclusioni cui giungeranno le Sezioni Unite risulterebbe velleitaria; ciò tuttavia non esime dal tentativo di formulare alcuni spunti di riflessione.

Il dubbio di fondo che le Sezioni Unite dovrebbero dissipare riguarda l'esatta definizione dei presupposti di operatività del fenomeno latamente successorio individuato dalle medesime Sezioni Unite nelle sentenze del 2013 in relazione all'estinzione delle società con soci limitatamente responsabili.

In particolare, occorrerebbe chiarire definitivamente se l'aver beneficiato di un riparto dell'attivo sociale costituisca un mero limite quantitativo alla responsabilità dell'ex socio limitatamente responsabile, cosicché quest'ultimo possa ritenersi in ogni caso un successore della società estinta, anche laddove non abbia concretamente beneficiato di alcun riparto, oppure se tale circostanza integri il presupposto costitutivo di tale fenomeno successorio (al pari dell'accettazione dell'eredità); occorrerebbe cioè chiarire se detto fenomeno latamente successorio si verifichi anche in assenza di un riparto dell'attivo sociale, ferma l'eventuale responsabilità soltanto nei limiti di quanto riscosso.

Ancorché la questione non risulti mai espressamente chiarita, tutti gli orientamenti giurisprudenziali sin qui formatisi, nella parte in cui escludono che l'assenza di riparti dell'attivo sociale incida sulla legittimatio ad causam dell'ex socio, sembrano presupporre che l'ex socio sia di per sé qualificabile come “successore” della società, mentre l'esistenza o meno del riparto e l'entità dell'attivo sociale eventualmente ricevuto rileverebbe unicamente ai fini della quantificazione della sua responsabilità verso il creditore sociale medesimo (ed in taluni precedenti persino soltanto sulla mera esigibilità in sede esecutiva del suo credito). Tuttavia, ove si ritenesse che l'aver ricevuto un riparto dell'attivo sociale integri il presupposto necessario per l'assunzione della qualità di successore della società estinta (oltre che il limite quantitativo della responsabilità dell'ex socio), una questione di legittimazione passiva dell'ex socio dovrebbe in effetti porsi: in assenza di alcun riparto, non dovrebbe essersi verificato nei confronti dell'ex socio quel fenomeno latamente successorio individuato dalle Sezioni Unite nelle sentenze del 2013; conseguentemente, l'ex socio non sarebbe legittimato passivo rispetto alla domanda giudiziale proposta (o riassunta) nei suoi confronti dal creditore sociale ovvero (come nel caso da cui scaturisce l'ordinanza in commento) all'impugnazione della sentenza pronunciata nei confronti della società da parte sempre del creditore sociale.

Pur nella difficoltà di fornire risposta certa a tale interrogativo, la formulazione letterale dell'art. 2495, comma 2, c.c. lascerebbe propendere per la prima soluzione; la disposizione afferma infatti che i creditori sociali non soddisfatti “possono far valere i loro crediti nei confronti dei soci, fino a concorrenza delle somme da questi riscosse” e così sembra lasciar intendere che l'aver riscosso somme in base al bilancio finale di liquidazione non incida sull'an del diritto del creditori sociali a far valere i loro crediti nei confronti dei soci, ma unicamente sul quantum della responsabilità di questi ultimi (ovvio essendo che, se i soci non hanno riscosso nulla, nulla i creditori potranno ottenere dai soci). Opinando in tal senso, quindi, l'ex socio dovrebbe ritenersi sempre legittimato a resistere alla domanda giudiziale o all'impugnazione proposta nei suoi confronti dal creditore, come in effetti afferma costantemente la Cassazione.

A discapito di quanto si possa desumere dai numerosissimi precedenti di legittimità, anche il problema dell'interesse del creditore a riassumere il giudizio inizialmente avviato contro la società estinta oppure ad impugnare la sentenza resa nei confronti della società estinta appare assai delicato e merita un approfondimento.

A tal proposito, occorre preliminarmente ricordare che la questione rimessa alle Sezioni Unite riguarda specificamente l'interesse ad impugnare una sentenza resa nei confronti di una società poi cancellata dal registro delle imprese, risultata parzialmente sfavorevole per il creditore sociale.

Generalmente, l'interesse all'impugnazione viene ricollegato alla sussistenza della soccombenza nel grado di giudizio definito con la sentenza di cui si tratta, nel senso che interessato all'impugnazione è la parte la cui domanda giudiziale non sia stata accolta, anche se per motivi attinenti al rito o per omissione di pronuncia. Assumendo tale nozione di interesse, la prova di eventuali riparti goduti dall'ex socio non dovrebbe incidere sull'interesse all'impugnazione della sentenza resa nei confronti della società estinta da parte del creditore sociale insoddisfatto. Resta però il fatto che, in assenza di riparti, il creditore sociale comunque non potrebbe ottenere dall'ex socio il “bene della vita” preteso, ovvero il pagamento (seppure intra vires) del proprio credito. Tale circostanza sarebbe quindi idonea a far venir meno l'interesse all'impugnazione, inteso quale species del più ampio genus dell'interesse ad agire ex art. 100 c.p.c..

La medesima giurisprudenza supera tale obiezione richiamando una presunta “natura dinamica dell'interesse ad agire, che rifugge da considerazioni statiche allo stato degli atti” (così in numerosi precedenti richiamati dall'ordinanza in commento) e, in particolare, la possibilità che il credito de quo agitur possa trovare soddisfazione per effetto di sopravvenienze attive o su beni e diritti sociali non contemplati nel bilancio finale di liquidazione e comunque pervenuti in via successoria agli ex soci.

Tali affermazioni destano però alcune perplessità, sotto diversi profili.

In primo luogo, diversamente dalla dottrina e dalla giurisprudenza di merito, la Cassazione non ha mai precisato in che termini ed a quali condizioni le sopravvenienze o le sopravvivenze non risultanti dal bilancio finale di liquidazione possano incidere sul regime di responsabilità dell'ex socio, atteso che l'art. 2495, comma 2, c.c. fa espresso riferimento alle sole somme “riscosse in base al bilancio finale di liquidazione”. Ciò detto, non è chiaro soprattutto in che modo l'affermata “natura dinamica” possa conciliarsi con i requisiti di attualità e concretezza che devono pacificamente caratterizzare l'interesse ad agire (nonché l'interesse ad impugnare) secondo la stessa costante giurisprudenza della Suprema Corte. Affermare l'esistenza dell'interesse ad agire (o ad impugnare) in ragione della mera possibilità di sopravvivenze o sopravvenienze attive, infatti, equivale ad attribuire rilevanza ad un interesse meramente ipotetico, cioè non attuale né concreto.

Le Sezioni Unite saranno verosimilmente chiamate a risolvere tale contraddizione. In linea di principio, non pare dubbio che l'azione proposta ab initio contro l'ex socio limitatamente responsabile, la riassunzione nei suoi confronti della causa avviata contro la società estinta nelle more del giudizio (ricordando a tal proposito che l'interesse ad agire deve sussistere al momento della domanda e permanere sino alla decisione) ovvero l'impugnazione di una sentenza resa nei confronti di una società poi estinta, dovrebbero tutte parimenti fondarsi su un interesse attuale e concreto, a sua volta fondato sull'accertata (o non idoneamente contestata) esistenza di riparti dell'attivo sociale in favore dell'ex socio convenuto. Considerato inoltre che l'onere di provare la sussistenza di un concreto ed attuale interesse ad agire grava sull'attore (o sull'impugnante), graverebbe in effetti su quest'ultimo l'onere di dimostrare l'esistenza di residui attivi di liquidazione ricevuti dall'ex socio convenuto.

Nulla quaestio nell'ipotesi in cui l'esistenza di riparti risulti dal bilancio finale di liquidazione depositato, poiché in tal caso per il creditore sociale sarebbe sufficiente allegare tale bilancio onde dimostrare il proprio interesse. È ragionevole ritenere che l'interesse possa dirsi provato anche in assenza di una specifica contestazione sul punto da parte dell'ex socio convenuto.

In assenza di riparti risultanti dal bilancio finale di liquidazione ed in presenza di contestazione sul punto, invece, l'interesse potrebbe essere fondato soltanto sulla dimostrazione dell'esistenza di sopravvivenze non indicate nel bilancio finale o di sopravvenienze attive, la cui prova come detto graverebbe sul creditore. Tale onere potrebbe in taluni casi risultare particolarmente gravoso. A tal riguardo, tuttavia, non si può non tener conto del fatto che, come costantemente affermato dalla giurisprudenza, i caratteri della concretezza e dell'attualità dell'interesse ad agire sono posti a presidio di un uso responsabile del processo, atteso che “sarebbe inutile dare ingresso ad una attività processuale allorquando dall'accoglimento della domanda non possa conseguire alcun vantaggio obiettivo per la parte ovvero alcuna modificazione giuridicamente rilevante” (così, tra le tante, Cass., sez. lav., sent. 16 luglio 2018, n. 18819, da cui molti altri precedenti). Anche alla luce di tale principio, dunque, la prova dell'esistenza di un riparto di attivo sociale in favore dell'ex socio convenuto apparirebbe ineludibile.

Resta peraltro inteso che l'accertamento dell'interesse ad agire in capo al creditore sociale che agisca contro l'ex socio (e dunque l'ammissibilità della domanda o dell'impugnazione) dovrebbe prescindere dall'ammontare dei residui attivi riscossi dall'ex socio; tale diversa questione rileverebbe, semmai, al fine di determinare il quantum della responsabilità dell'ex socio, ovvero su un profilo non attinente all'ammissibilità della domanda o dell'impugnazione proposta contro l'ex socio.

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