Le Sezioni Unite sulla non rilevabilità di ufficio della incapacità a testimoniare
16 Maggio 2023
Massima
L'incapacità a testimoniare disciplinata dall'art. 246 c.p.c. non è rilevabile d'ufficio, sicché, ove la parte non formuli l'eccezione di incapacità a testimoniare prima dell'ammissione del mezzo, detta eccezione rimane definitivamente preclusa, senza che possa poi proporsi, ove il mezzo sia ammesso ed assunto, eccezione di nullità della prova. Ove la parte abbia formulato l'eccezione di incapacità a testimoniare, e ciò nondimeno il giudice abbia ammesso il mezzo ed abbia dato corso alla sua assunzione, la testimonianza così assunta è affetta da nullità, che, ai sensi dell'art. 157 c.p.c., l'interessato ha l'onere di eccepire subito dopo l'escussione del teste ovvero, in caso di assenza del difensore della parte alla relativa udienza, nella prima udienza successiva, determinandosi altrimenti la sanatoria della nullità. La parte che ha tempestivamente formulato l'eccezione di nullità della testimonianza resa da un teste che si assume essere incapace a testimoniare, deve poi dolersene in modo preciso e puntuale anche in sede di precisazione delle conclusioni, dovendosi altrimenti ritenere l'eccezione rinunciata, così da non potere essere riproposta in sede d'impugnazione. Il caso
Tizio e Caio avevano convenuto in giudizio la società Alfa, in qualità di impresa designata alla gestione dei sinistri a carico del Fondo Garanzia Vittime della Strada, per ottenere il risarcimento del danno subiti in conseguenza di un incidente stradale in cui aveva perso la vita un loro congiunto. Istruita la causa mediante escussione testimoniale, il Tribunale adito rigettava le domande proposte dagli attori per mancanza di prova. In particolare, il Giudice di prime cure riteneva inutilizzabili le dichiarazioni rese dal teste terzo trasportato Sempronio in ragione dell'incapacità a testimoniare del medesimo ai sensi dell'art. 246 c.p.c. La pronuncia veniva confermata dalla Corte di Appello che condivideva la statuizione del primo giudice in ordine all'incapacità a testimoniare della terza trasportata, seppure integralmente risarcita dall'istituto assicuratore, richiamando l'orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo cui chi è privo della capacità a testimoniare, perché titolare di un interesse che ne potrebbe legittimare la partecipazione al giudizio, non riacquistata tale capacità per l'intervento di una fattispecie estintiva del diritto che potrebbe far valere, quale la transazione. Avverso la pronuncia di secondo grado veniva proposto ricorso in Cassazione deducendosi, tra l'altro, la violazione o falsa applicazione di norme di diritto in relazione agli artt. 112,115,116, 157 e 246 c.p.c., ex art. 360, n. 3 con riferimento alla incapacità a testimoniare della terza trasportata, sebbene la testimonianza di quest'ultima fosse stata ritualmente ammessa in fase di istruttoria. La Prima Sezione rimetteva alle Sezioni Unite la questione afferente all'attualità ed effettiva portata del principio secondo cui l'incapacità a testimoniare, prevista dall'art. 246 c.p.c., non può essere rilevata d'ufficio. La questione
Le Sezioni Unite hanno confermato il granitico orientamento giurisprudenziale secondo cui l'eccezione di incapacità a testimoniare ex art. 246 c.p.c. non può essere rilevata d'ufficio, ma deve essere eccepita dalla parte interessata a farla valere al momento dell'espletamento della prova o nella prima difesa successiva, restando altrimenti sanata ai sensi dell'art. 157 c.p.c., comma 2, c.p.c. Le soluzioni giuridiche
L'art. 246 c.p.c., secondo cui non possono essere assunte come testimoni le persone aventi nella causa un interesse che potrebbe legittimare la loro partecipazione al giudizio, viene tradizionalmente considerato espressione del principio nemo testis in causa propria, principio di origine romanistica: esso afferma l'incompatibilità della posizione processuale di parte con quella di testimone, in forza di una valutazione compiuta a priori, poiché la confusione tra i due ruoli inficia la credibilità del teste, perché privo della condizione di terzietà che ne caratterizza, o meglio ne caratterizzerebbe, la figura. In generale, l'incapacità a deporre prevista dall'art. 246 si verifica solo quando il teste è titolare di un interesse personale, attuale e concreto, che lo coinvolga nel rapporto controverso, alla stregua dell'interesse ad agire di cui all'art. 100, tale da legittimarlo a partecipare al giudizio in cui è richiesta la sua testimonianza, con riferimento alla materia in discussione, non avendo, invece, rilevanza l'interesse di fatto a un determinato esito del processo - salva la considerazione che di ciò il giudice è tenuto a fare nella valutazione dell'attendibilità del teste - né un interesse, riferito ad azioni ipotetiche, diverse da quelle oggetto della causa in atto, proponibili dal teste medesimo o contro di lui, a meno che il loro collegamento con la materia del contendere non determini già concretamente un titolo di legittimazione alla partecipazione al giudizio (Cass. civ., sez. II, 5 gennaio 2018, n. 167). Le Sezioni Unite hanno confermato il consolidato principio giurisprudenziale per cui l'incapacità a testimoniare, prevista dall'art. 246 c.p.c., determina la nullità della deposizione e non può essere rilevata d'ufficio, ma deve essere eccepita dalla parte interessata a farla valere al momento dell'espletamento della prova o nella prima difesa successiva, restando altrimenti sanata ai sensi dell'art. 157 c.p.c., comma 2, c.p.c. (cfr. Cass. civ., sez. lav., 20 aprile 2021, n. 10374; Cass. civ., sez. II, 12 febbraio 2021, n. 3685; Cass. civ., sez. II, 9 novembre 2020, n. 25021). Le S.U. hanno in particolare evidenziato che i limiti soggettivi ed oggettivi all'ammissibilità della prova testimoniale sono per lo più posti nell'interesse delle parti cui spetta scegliere, nei limiti in cui l'ordinamento lo prevede, i percorsi istruttori da seguire al fine della dimostrazione dei propri assunti, senza che possano ammettersi poteri officiosi del giudice, quanto al rilievo dell'incapacità a testimoniare, che non discendano dalla legge, dal momento che l'esercizio di eventuali poteri officiosi deve rimanere collocato entro l'ambito del precetto costituzionale volto ad assicurare il contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale. In questa linea, nel campo dei limiti oggettivi alla prova testimoniale, la S.C. aveva già affermato che solo l'inammissibilità della testimonianza diretta a dimostrare la conclusione di un contratto per il quale la legge richieda la forma scritta ad substantiam è rilevabile d'ufficio, giacché solo in tale ipotesi la norma risponde ad un interesse di rilievo pubblicistico (Cass. civ., sez. II, 24 novembre 2015, n. 23934; Cass. civ., sez. lav., 3 giugno 2015, n. 11479). Al di fuori di tale ipotesi i limiti oggettivi di ammissibilità della prova testimoniale sono dettati da norme di carattere dispositivo e, proprio perché posti nell'interesse delle parti, sono altresì da queste derogabili, anche alla stregua di un accordo implicito desumibile dalla mancata opposizione: sicché la violazione delle formalità stabilite per l'ammissione della prova testimoniale, giacché ritenuta lesiva soltanto di interessi individuali delle parti, rimane affidata al meccanismo dell'art. 157, comma 2, c.p.c. (Cass. civ., Sez. Un., 5 agosto 2020, n. 16723). In continuità con detto indirizzo, le S.U. con la pronuncia in commento hanno ritenuto che la medesima regola vada affermata anche con riferimento ai limiti soggettivi di ammissibilità della prova testimoniale fissati dall'art. 246 c.p.c. Osservazioni
Le SU hanno, inoltre, chiarito che l'eccezione di incapacità a testimoniare va necessariamente formulata prima dell'ammissione della prova testimoniale, atteso che, in mancanza di essa, il giudice, che non può rilevare d'ufficio l'incapacità, non ha il potere di applicare la regola di esclusione prevista dall'art. 246 c.p.c., sicché è tenuto ad ammettere il mezzo, in concorso, ovviamente, coi normali requisiti dell'ammissibilità e rilevanza, sottoposti al suo controllo. Ove il giudice ammetta la prova, nonostante l'eccezione di incapacità, in violazione dell'art. 246 c.p.c., la prova assunta è affetta da nullità relativa (Cass. civ., sez. III, 6 maggio 2020, n. 8528), pertanto l'interessato ha l'onere di eccepire subito dopo l'escussione del teste ovvero, in caso di assenza del difensore della parte alla relativa udienza, nella prima udienza successiva, determinandosi altrimenti la sanatoria della nullità ex art. 157, comma 2, c.p.c. L'imposizione di un duplice onere di eccezione, prima dell'ammissione e dopo l'assunzione del mezzo cionondimeno ammesso si spiega, ad avviso delle SU, non soltanto in ragione dell'impossibilità logica di configurare un'eccezione di nullità di un atto futuro - con la conseguenza che una eccezione d'incapacità a testimoniare non può ritenersi inclusiva dell'eccezione di nullità della testimonianza comunque ammessa ed assunta nonostante la previa opposizione (Cass. 19 agosto 2014, n. 18036)-, ma, soprattutto, a tutela dell'interesse della stessa parte che abbia formulato l'eccezione di incapacità a testimoniare, la quale, pure oppostasi inizialmente all'ammissione della testimonianza, deve essere posta in condizione di valutare l'esito dell'assunzione, che ben potrebbe rivelarsi ad essa favorevole (Cass. civ., sez. VI, 15 febbraio 2018, n. 3763; Cass. civ., sez. II, 19 settembre 2013, n. 21443; Cass. civ., sez. VI, 23 maggio 2013, n. 12784). L'eccezione di nullità della testimonianza resa da teste incapace ai sensi dell'art. 246 c.p.c. va infine coltivata con la precisazione delle conclusioni. L'esigenza di reiterazione si ricollega alla previsione del comma 3 dell'art. 157 c.p.c., secondo cui la nullità non può essere opposta dalla parte che vi ha rinunciato "anche tacitamente", e si inquadra nella prospettiva di ordine generale concernente il trattamento che riceve, in sede di precisazione delle conclusioni, la mancata riproposizione delle richieste istruttorie. Costituisce, difatti, principio pacifico quello secondo cui la parte che si sia vista rigettare dal giudice di primo grado le proprie richieste istruttorie ha l'onere di reiterarle in modo specifico, quando precisa le conclusioni, senza limitarsi al richiamo generico dei precedenti atti difensivi, poiché, diversamente, le stesse devono ritenersi abbandonate e non possono essere riproposte in sede di impugnazione (Cass. civ., sez. I, 25 gennaio 2022, n. 2129; Cass. civ., sez. II, 10 novembre 2021, n. 33103; Cass. civ., sez. III, 20 novembre 2020, n. 26523). Riferimenti
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