Nullità del patto di prova e illegittimità del recesso ad nutum

16 Maggio 2023

È nullo - e quindi sanzionabile con la tutela reale o obbligatoria a seconda dei casi - il licenziamento ad nutum irrogato sull'erroneo presupposto della validità del patto di prova.
Massima

Il licenziamento irrogato ad nutum sull'erroneo presupposto della validità del patto di prova è da considerarsi affetto da nullità, risultando di conseguenza applicabile il regime di tutela, reale o obbligatoria, correlato ai requisiti dimensionali dell'azienda cui era addetto il prestatore di lavoro.

Il caso

La pronuncia in commento trae origine dalla vicenda fattuale concernente un licenziamento per mancato superamento del periodo di prova, dichiarato illegittimo, sul presupposto della nullità del patto di prova stesso.

Nello specifico, il Giudice di prime cure, in parziale accoglimento della domanda della lavoratrice, aveva dichiarato nullo il recesso datoriale e condannato la società alla reintegra della dipendente oltre che al pagamento delle retribuzioni maturate dal giorno del licenziamento a quello di effettiva reintegra, sulla base della retribuzione globale di fatto dalla ricorrente goduta.

Proposto appello alla Corte territorialmente competente, anche il Giudice di seconde cure respingeva le doglianze della società, pervenendo alla medesima conclusione del primo giudice e cioè che nella specie la presunzione dell'intervenuto esito positivo della sperimentazione, di cui al patto di prova stipulato tra le parti, si evincesse dal fatto che tale assunzione era relativa alle medesime mansioni svolte in precedenza tra le stesse parti in esecuzione in un contratto di lavoro somministrato che vedeva la odierna ricorrente quale agenzia di somministrazione ed un'altra società quale utilizzatrice dell'attività prestata dalla ricorrente.

La Corte territoriale confermava altresì che il licenziamento intimato per asserito esito negativo della prova, sull'erroneo presupposto della validità della relativa clausola, non poteva iscriversi nell'eccezionale recesso ad nutum di cui all'art. 2096 c.c., bensì consisteva in un ordinario licenziamento soggetto alla verifica giudiziale della sussistenza o meno della giusta causa o del giustificato motivo.

Avverso tale statuizione proponeva ricorso per cassazione la società, affidandolo a quattro motivi.

La questione

Il caso in esame consente di affrontare la delicata questione concernente l'illegittimità del licenziamento irrogato ad nutum sul presupposto della validità del patto di prova stipulato all'origine di un contratto di lavoro e quella alla prima connessa, relativa alle conseguenze sanzionatorie a fronte della nullità di siffatto recesso.

In particolare, le questioni giuridiche che emergono dalla lettura dell'ordinanza in commento e che la società ricorrente cristallizza nei differenti motivi di ricorso per cassazione, concernono una serie di tematiche giuridiche particolarmente rilevanti, tra le quali, prima tra tutte, merita di essere esaminata quella concernente la validità del patto di prova ai sensi dell'art. 2096 c.c. ed il relativo regime di recedibilità ad nutum che dallo stesso promana.

Con riferimento al patto di prova, deve dirsi che è una clausola che può essere apposta al contratto di lavoro allo scopo di subordinare l'assunzione definitiva del lavoratore all'esito positivo di un periodo di prova.

Come noto, ai sensi dell'art. 2096 c.c., ai fini della validità dello stesso, lo svolgimento del periodo di prova deve risultare da atto scritto e durante tale periodo ciascuna delle parti può recedere dal contratto senza obbligo di preavviso. La durata della prova deve essere stabilita dalle fonti collettive e trascorso il relativo periodo, l'assunzione diviene definitiva.

Con riguardo invece alla causa del patto di prova, deve dirsi che essa risiede nella tutela dell'interesse comune delle parti di valutare la reciproca convenienza del contratto. E difatti, durante il periodo di prova, da un lato, il datore ha la facoltà di valutare le capacità e le competenze del lavoratore, e, dall'altro, il lavoratore può valutare l'entità della prestazione richiestagli, le condizioni di svolgimento del rapporto di lavoro e l'interesse verso il ruolo assegnato (Cass. 4635/2016).

Posti questi brevi cenni in punto di patto di prova e chiarite le condizioni di validità dello stesso, ai fini di una completa disamina delle questioni giuridiche in commento è bene sviluppare una brevissima overview sulle tutele applicabili a fronte di un licenziamento irrogato per mancato superamento della prova, in ragione della presunta validità del patto ai sensi dell'art. 2096 c.c.

Invero, come noto, a fronte di un revirement giurisprudenziale – che si avrà meglio modo di approfondire analizzando le soluzioni giuridiche che seguono – la questione delle tutele applicabili a fronte di tale ipotesi di licenziamento illegittimo, è stata risolta in senso di applicazione nelle suddette fattispecie del regime di tutela reale od obbligatoria (a seconda delle dimensioni dell'azienda) come si avrà meglio modo di precisare infra, nella disamina delle soluzioni giuridiche adottate dalla Suprema Corte nell'ordinanza ivi in commento.

Le soluzioni giuridiche

Nella vicenda ivi esaminata, la Suprema Corte, in linea con quanto asserito dal Giudice di prime cure e dalla Corte d'Appello di Roma, ha ritenuto illegittimo il licenziamento comminato alla lavoratrice per presunto mancato superamento del patto di prova, che è stato di fatto accertato essere nullo nel caso di specie; da tale accertamento ne è conseguita, naturalmente, la nullità del recesso ad nutum irrogato - poiché in concreto non sussistenti le situazioni fattuali che avrebbero giustificato l'applicazione della disciplina del 2096 c.c. - e l'applicazione della tutela reale, in ragione delle accertate dimensioni dell'azienda.

Nello specifico, la Suprema Corte perviene alla conclusione per cui, qualora il patto di prova per una qualsiasi ragione, sia nullo, il recesso intimato al lavoratore per “mancato superamento della prova” rappresenti un licenziamento privo di giusta causa o di giustificato motivo e, pertanto, sanzionabile nell'ambito operativo della “Legge Fornero”, una volta appurata la sussistenza del requisito dimensionale, con la tutela reintegratoria attenuata, di cui all'art. 18, comma 4, Stat. Lav. alla stregua del quale“Il giudice, nelle ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro, per insussistenza del fatto contestato ovvero perché il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili, annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione nel posto di lavoro di cui al primo comma e al pagamento di un'indennità risarcitoria commisurata all'ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegrazione (…)”.

Nello specifico, la Corte di Cassazione nell'ordinanza ivi in commento addiviene a tale soluzione, argomentando circa il revirement operato dalla Giurisprudenza di legittimità in punto di tutele accordabili a fronte di un licenziamento ad nutum, irrogato sulla base della vigenza di un patto di prova che poi si è dimostrato insussistente.

Invero, deve precisarsi che la soluzione giuridica adoperata in tale ordinanza non è sempre stata condivisa in giurisprudenza, tant'è che tra le varie regole giuridiche che nel tempo sono state applicate a tale fattispecie vi è altresì quella sostenuta da chi ha ritenuto che un licenziamento di tal fatta presenti un vizio non riconducibile a quelli tipici per i quali opera la tutela reintegratoria “attenuata”, così ricadendosi nell'ipotesi di ingiustificatezza non qualificata, ossia residuale, sanzionata (ex art. 18, co. 5, Stat. Lav.: c.d. tutela indennitaria “forte”) con una posta risarcitoria (da dodici a ventiquattro mensilità).

E difatti, anche la ricorrente nel giudizio per cassazione utilizza, al fine di sostenere la propria tesi, un principio di diritto datato ed oramai pacificamente superato, come affermato altresì dal Collegio giudicante nella pronuncia in commento, secondo cui in tema di assunzione in prova l'illegittimità del recesso, per l'inadeguata durata della prova o per l'esistenza di un motivo illecito, non comporta l'applicazione delle norme di cui alla legge 15 luglio 1966, n. 604, o dell'articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, ma la prosecuzione della prova per il periodo mancante oppure il risarcimento del danno, dovendosi escludere che la dichiarazione di illegittimità del recesso durante il periodo di prova determini la stabile costituzione del rapporto di lavoro (Cass. n. 23231/2010).

Tale regula iuris, disattesa dalla Corte di merito nella vicenda in analisi, viene superata anche dal Collegio giudicante in sede di legittimità, posto che nell'ordinanza in commento la Suprema Corte stabilisce che la regola definitoria della fattispecie oggetto della vicenda esaminata sia quella affermata dalla Suprema Corte nella pronuncia n. 17921 del 12 settembre 2016, per cui il licenziamento intimato ad nutum sull'erroneo presupposto della validità del patto di prova è da considerarsi affetto da nullità, risultando di conseguenza applicabile il regime di tutela reale o obbligatoria correlato ai requisiti dimensionali dell'azienda cui era addetto il prestatore di lavoro.

Nel sancire tale principio, dunque, la Corte di legittimità fissa un principio di diritto che rimuove ogni incertezza in punto di tutele applicabili a fronte del verificarsi di una fattispecie di licenziamento per asserito mancato superamento del periodo di prova, nell'ambito di un patto di prova nullo poiché inesistente.

Osservazioni

In conclusione, è interessante osservare come l'ordinanza in commento si ponga nel solco di quella pluralità di pronunce con cui la Suprema Corte ha inteso fissare un principio di diritto stabile in punto di conseguenze sanzionatorie a fronte di un licenziamento ad nutum (ex art. 2096 c.c.) nullo poiché irrogato – per mancato superamento del periodo di prova – sulla base del presupposto della validità del relativo patto.

Come anzidetto, la soluzione giuridica cui si perviene è quella per cui: Il licenziamento intimato ad nutum sull'erroneo presupposto della validità del patto di prova è da considerarsi affetto da nullità, risultando di conseguenza applicabile il regime di tutela (reale od obbligatorio) correlato ai requisiti dimensionali dell'azienda cui era addetto il prestatore di lavoro (Cassazione civile sez. lav., 12/09/2016, n.17921).

In tale sede, dunque, è interessante riflettere sulla ratio del principio di diritto posto dalla Suprema Corte per la definizione delle fattispecie analoghe a quella di cui trattasi nella vicenda in commento.

Invero, la ragione “mancato superamento del periodo di prova” non illustra alcun fatto giustificativo ragion per cui deve essere qualificata, nell'ambito di un ordinario rapporto di lavoro a tempo indeterminato, come insussistente. Ne deriverebbe, quindi, una totale mancanza del fatto che, nell'area di operatività della “Legge Fornero”, comporta, in ogni caso, la tutela reintegratoria “attenuata”.

E difatti, nella vicenda in esame, è stata disposta la tutela di cui all'art. 18, comma 4, Stat. Lav., avendo i Giudici ricollegato l'ipotesi a quelle più evidenti di discostamento del recesso dalle relative fattispecie legittimanti.

Da ultimo, la pronuncia in commento è interessante perché ci consente di riflettere su un altro tema di particolare rilievo, quale appunto quello relativo ai carichi probatori in punto di illegittimità del recesso e conseguenze sanzionatorie, nello specifico con riferimento ai requisiti dimensionali dell'azienda.

Nel rimuovere ogni incertezza, dirimente sul tema è il richiamo al principio di diritto espresso dalla Suprema Corte per cui “in tema di riparto dell'onere probatorio, ai fini dell'applicazione della tutela reale o obbligatoria del licenziamento di cui sia stata accertata l'invalidità, sono fatti costitutivi del diritto soggettivo del lavoratore a riprendere l'attività e, sul piano processuale, dell'azione di impugnazione del licenziamento, esclusivamente l'esistenza del rapporto di lavoro subordinato e l'illegittimità dell'atto espulsivo, mentre le dimensioni dell'impresa, inferiori ai limiti stabiliti dall'articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, costituiscono, insieme al giustificato motivo del licenziamento, fatti impeditivi che devono, perciò, essere provati dal datore di lavoro.

L'assolvimento di un siffatto onere probatorio consente a quest'ultimo di dimostrare, ex art.1218 c.c., che l'inadempimento degli obblighi derivanti di dal contratto non è a lui imputabile e che, comunque, il diritto del lavoratore a riprendere il suo posto non sussiste, con conseguente necessità di ridurre il rimedio da lui esercitato al risarcimento pecuniario, perseguendo, inoltre, la finalità di non rendere troppo difficile l'esercizio del diritto del lavoratore, il quale, a differenza del datore di lavoro, è privo della disponibilità dei fatti idonei a provare il numero dei lavoratori occupati nell'impresa, (Cass. n. 9867/2017), che rimuove ogni dubbio circa le doglianze avanzate dalla ricorrente, offrendo un quadro completo agli operatori del diritto in punto di illegittimità del recesso ad nutum per insussistenza del patto di prova alla base e di relative conseguenze sanzionatorie.

Guida all'approfondimento

L. Di Paola, Recesso per mancato superamento del periodo di prova in presenza di nullità del patto e tutela reintegratoria "attenuata" in IUS lavoro (www.ius.giuffrefl.it/) 3 novembre 2016.

R. Pessi, Lezioni di diritto del lavoro, Torino, 2018.

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