La bancarotta impropria da false comunicazioni sociali

Enrico Corucci
17 Maggio 2023

La Cassazione Penale, con sentenza n, 9958, esamina gli elementi costitutivi della bancarotta impropria da reato societario, aderendo al consolidato orientamento secondo cui integra il reato la condotta dell'amministratore che non solo produca il dissesto, ma anche semplicemente aggravi un dissesto già esistente.
Massima

Integra il reato di bancarotta impropria da reato societario la condotta dell'amministratore che espone nel bilancio dati non veri al fine di occultare l'esistenza di perdite e consentire quindi la prosecuzione dell'attività di impresa in assenza di interventi di ricapitalizzazione o di liquidazione, con conseguente accumulo di perdite ulteriori, poiché l'evento tipico di questa fattispecie delittuosa comprende non solo la produzione, ma anche il semplice aggravamento del dissesto.

Il caso

La vicenda giudiziaria sottoposta all'attenzione della suprema Corte origina dal ricorso presentato dagli imputati avverso una sentenza della Corte di Appello di Torino che ne aveva affermato la responsabilità (anche) per il reato di bancarotta impropria da false comunicazioni sociali per avere, in qualità di amministratori e liquidatori di una società a responsabilità limitata poi fallita, concorso a cagionare il dissesto di detta società esponendo nei bilanci fatti materiali non corrispondenti al vero ed omettendo informazioni, la cui comunicazione è imposta dalla legge, riguardanti la situazione economica, patrimoniale e finanziaria della società, alterandone sensibilmente la rappresentazione; tali condotte erano state poste in essere al fine di consentire alla fallita di poter proseguire, in realtà illecitamente, la propria attività.

In particolare, nei bilanci relativi ad un quadriennio era stata inserita la posta delle “rimanenze di magazzino”, appositamente sovrastimata per un valore pari a circa € 1.350.000, e quella di “fatture da emettere”, ma invero mai emesse, sì da alterare sensibilmente la situazione patrimoniale societaria e mascherare le significative perdite, quantificabili complessivamente in circa € 2.000.000, nonché l'azzeramento del patrimonio netto.

Tra le censure mosse alla sentenza di appello i ricorrenti osservavano come, in realtà, l'omessa svalutazione del magazzino sarebbe stata finalizzata soltanto ad occultare perdite già esistenti non avendo determinato, di conseguenza, il dissesto della compagine sociale o il suo protrarsi ma tale censura era ritenuta priva di fondamento dalla Corte di Cassazione, la quale sul punto rigettava i ricorsi.

La questione

Il tema in causa concerne dunque, in ragione dei motivi di ricorso, l'analisi degli elementi costitutivi del reato di bancarotta impropria da reato societario disciplinato dall'art. 223, comma 2 n. 1) l. fall. ed ora dall'art. 329, comma 2 lett. a) d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14 (codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza) e segnatamente dal reato societario di false comunicazioni sociali di cui all'art. 2621 c.c.

Le soluzioni giuridiche

La Suprema Corte nella sentenza qui annotata aderisce ancora una volta al proprio consolidato orientamento (tra le molte cfr. Cass., 20 settembre 2021, n. 1754, e Cass., 18 giugno 2014, n. 42811, la cui massima ufficiale è quella riportata in apertura della presente nota) secondo cui integra il reato di bancarotta impropria da false comunicazioni sociali la condotta dell'amministratore che, esponendo nel bilancio dati non corrispondenti al vero al fine di occultare l'esistenza di perdite e consentire quindi la prosecuzione dell'attività di impresa in assenza di interventi di ricapitalizzazione o di liquidazione, eviti che si manifesti la necessità di procedere a tali interventi, in questo modo consentendo alla fallita la prosecuzione della attività di impresa con accumulo di ulteriori perdite negli esercizi successivi. Ciò integra l'evento tipico della fattispecie delittuosa in argomento, il quale comprende non solo la produzione, ma anche il semplice aggravamento del dissesto.

I ricorrenti invero, secondo uno schema che assume carattere di tipicità in situazioni di crisi d'impresa, per un quadriennio ed in particolare dal 2007 al 2010 avevano indicato nei bilanci ingenti valori il magazzino, salvo poi svalutarli quasi completamente nel bilancio relativo all'anno 2011 ove il valore delle rimanenze scendeva improvvisamente da circa € 1.500.000 ad € 128.000. Nella nota integrativa a tale bilancio relativo all'anno 2011 si evidenziava come la diminuzione delle indicate rimanenze di magazzino conseguisse a “campagne promozionali di svendita” ed a “realizzi da stock” ma le sentenze di merito, fondendosi in un unico complesso motivazionale secondo lo schema della c.d. “doppia conforme”, avevano chiarito come la valutazione delle rimanenze effettuata negli anni precedenti al 2011 fosse in effetti del tutto inveritiera nonché strumentale ad occultare le significative perdite accumulate.

Né, aggiunge la Corte, può assumere significato che il dissesto della società potesse essere già presente anteriormente al 2007 in quanto, ai fini della configurabilità del delitto di bancarotta da reato societario, rilevano anche le condotte che non abbiano da sole determinato il dissesto ma abbiano, come del resto testualmente previsto dall'art. 223, comma 2 n. 1) l. fall., “concorso a cagionare” detto dissesto, anche aggravando l'effetto di cause preesistenti; e tanto, oltre che per effetto del già decisivo dato letterale, sia in applicazione dei principi generali in tema di causalità sia per la naturale progressività dei fenomeni determinativi del dissesto di un'impresa.

L'ingente importo delle indicate rimanenze era poi tale da alterare in modo sensibile la rappresentazione patrimoniale e finanziaria della società, determinando una variazione del risultato economico di esercizio notevomente superiore al 5% e comunque una variazione del patrimonio netto superiore al 1% sì da superare, in questo modo, le soglie di punibilità previste dall'art. 2621 c.c. nella sua formulazione anteriore alle modifiche apportate dalla l. 27 maggio 2015, n. 69.

Ad avviso della suprema Corte, nel caso al vaglio il reato di false comunicazioni sociali era perfezionato anche sotto il profilo dell'elemento soggettivo in quanto la finalità di nascondere la necessità di ricapitalizzazione o di liquidazione della società, e dunque la mancata adozione di simili provvedimenti, determinava un aggravamento del dissesto, con l'ulteriore conseguenza che detta finalità, in quanto diretta a favorire indebitamente la compagine sociale che così otteneva e manteneva l'affidamento bancario e del ceto creditorio, era ritenuta tale da integrare il fine di ingiusto profitto richiesto dagli artt. 2621 e 2622 c.c.

Osservazioni

Gli artt. 223, comma 2 n. 1) l. fall. e 329, comma 2 lett. a) d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14 disciplinano il delitto di bancarotta impropria da reato societario, il quale si caratterizza per l'indicazione tassativa dei reati che ne costituiscono presupposto e per la previsione della necessità dell'esistenza di un nesso eziologico tra tali reati ed il dissesto quale fenomeno, evidentemente anche mutevole nel quantum, costituito dall'eccedenza del passivo sull'attivo.

Ciò premesso, il delitto di bancarotta impropria da reato societario appare dunque con evento di danno ed a condotta vincolata giacché il menzionato dissesto deve conseguire, per l'appunto, a condotte che a propria volta integrino uno dei reati societari presupposti.

La costruzione della norma in termini di reato di evento, inoltre, fuga ogni dubbio circa la sua natura quale reato autonomo rispetto a quelli che ne costituiscono presupposto (così Cass., 2 marzo 2011, n. 15062, in CED Rv. 250092-01).

Le questioni appena riassunte relative alla struttura del delitto di bancarotta impropria da reato societario in realtà restano in sottofondo nella sentenza in commento, la quale invece offre un argomento a sostegno della tesi secondo cui tale delitto appare reato complesso in senso lato e torna ad occuparsi espressamente dell'elemento costitutivo costituito dal nesso di causalità tra reato presupposto e dissesto.

Quanto alla natura del delitto, si è detto come la Corte di Cassazione nel caso al vaglio abbia ritenuto corretta la valutazione secondo cui la prosecuzione dell'attività d'impresa senza l'avere adottato iniziative di ricapitalizzazione o di liquidazione della società in ragione della finalità degli amministratori di nascondere la necessità dell'adozione di simili iniziative avesse determinato un aggravamento del dissesto, anche permettendo a costoro di mantenere l'affidamento bancario e del ceto creditorio tutto e dunque integrando il fine di ingiusto profitto richiesto dagli artt. 2621 e 2622 c.c.

Ne deriva che l'evento costituito dal dissesto non si combina col solo “fatto” oggettivo del reato presupposto bensì ne presuppone il perfezionamento in tutti i suoi elementi, compreso quello soggettivo, in questo modo il delitto di bancarotta da reato societario configurandosi quale reato complesso in senso lato (sulla struttura di tale delitto in termini di reato complesso cfr. Cass., 15 maggio 2009, n. 32164).

Quanto al nesso eziologico col dissesto, si osserva come quest'ultimo, quale fenomeno costituito dall'eccedenza del passivo sull'attivo, costituisca evento apprezzabile nell'an e nel quantum. Ai fini della configurabilità della bancarotta da reato societario la consolidata giurisprudenza di legittimità (tra le molte Cass., 9 maggio 2017, n. 29885), dalla quale la sentenza qui annotata non si discosta, ritiene sia sufficiente che il reato societario presupposto muti le dimensioni del menzionato dissesto, non solo determinandolo ma anche aggravandone la misura. Vero è che la condotta costituita dalla falsificazione dei bilanci può, in effetti, mascherare un dissesto già in atto, come tra l'altro sostenuto dagli imputati nei motivi di ricorso al fine di eccettuare la rilevanza penale di quanto loro contestato, ma è altrettanto vero che simili condotte, consentendo una indebita prosecuzione dell'attività imprenditoriale, determinano quasi inevitabilmente l'aumento di detta eccedenza del passivo sull'attivo e dunque determinano un aggravamento della misura del dissesto eventualmente già manifestatosi. La suprema Corte, inoltre, ricorda sul punto anche i principi generali in tema di causalità secondo cui il concorso di cause preesistenti, anche se indipendenti dall'azione del colpevole, non esclude il nesso di causalità tra la condotta e l'evento (art. 41 c.p.) nonché sottolinea la parte della norma che attribuisce rilevanza anche all'avere “concorso a cagionare” il dissesto, interpretandola evidentemente non in termini di manifestazione eventualmente plurisoggettiva del reato di bancarotta impropria, punibile chiaramente in ragione del disposto dell'art. 110 c.p., bensì in quelli obiettivi costituiti dall'aver cagionato il dissesto almeno in una sua parte.

La lettura della sentenza qui in commento, peraltro, appare significativa anche in riferimento al caso concreto sotteso in quanto esso costituisce, una volta di più, ipotesi paradigmatica in situazione di crisi d'impresa. Tale ultima situazione, ora definita positivamente dall'art. 2 d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14 nello “stato di squilibrio economico-finanziario che rende probabile l'insolvenza del debitore, e che per le imprese si manifesta come inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a far fronte regolarmente alle obbligazioni pianificate”, qualora non emerga tempestivamente e sia affrontata e risolta, eventualmente anche prendendo atto dell'inesistenza delle condizioni per proseguire utilmente l'attività imprenditoriale, risulta -oltre che dannosa per i creditori, tra cui l'erario, e tale da ledere la leale concorrenza tra imprese- criminogena.

Non può nascondersi infatti come, nel tentativo di proseguire comunque detta attività nonostante lo stato di crisi, l'imprenditore possa risolversi a compiere una pluralità di condotte, che finiscono per assumere carattere di tipicità, le quali, pur miopi se valutate nel lungo periodo, almeno medio tempore permettano di raggiungere il fine, consentendo di mantenere l'affidamento del ceto creditorio.

Nel caso di specie, puntualmente, si verificavano proprio alcune delle condotte che rientrano nell'indicata tipologia ed invero gli amministratori della società fallita continuavano l'attività d'impresa non soltanto “gonfiando” il magazzino ma anche indicando la falsa posta attiva delle “fatture da emettere”, in realtà mai emesse. Quanto a quest'ultima posta si comprende come essa, qualora in effetti costituisca valore fittizio -in situazione di crisi, peraltro, raramente individuandosi i soggetti a carico dei quali quelle fatture debbono essere effettivamente emesse- consenta di alterare, in meglio, la rappresentazione della situazione patrimoniale dell'impresa, al pari evidentemente dell'indicazione in magazzino di merce per valori irreali.

Senza dimenticare come la solidità di un'impresa sia direttamene proporzionale a valori contenuti di magazzino, nel caso al vaglio anche l'improvvisa svalutazione di quest'ultimo desta perplessità in quanto da un anno all'altro esso era ridotto per oltre il 90% adducendo le giustificazioni dell'avere effettuato “campagne promozionali di svendita” e “realizzi da stock”. Tali giustificazioni, anche qualora veritiere, appaiono in realtà ben poco tranquillizzanti in quanto sottintendono vendite di merce sottocosto, le quali possono costituire ex se condotte integranti il reato di bancarotta fraudolenta per dissipazione (cfr. Cass., 3 maggio 2019, n. 38707).

Conclusioni

In ragione degli effetti criminogeni della crisi d'impresa, dunque, l'obiettivo è quello di contenere detti effetti evitando per quanto possibile che, qualora essa si manifesti, l'attività imprenditoriale comunque prosegua senza che siano adottate le opportune cautele od i necessari provvedimenti, eventualmente anche prendendo atto dell'inevitabilità della dichiarazione di liquidazione giudiziale.

In quest'ottica va salutata quindi con particolare favore l'entrata in vigore del nuovo codice della crisi e dell'insolvenza di cui al più volte citato d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14, i cui obiettivi precipui com'è noto sono costituiti, oltre che dal garantire maggiore efficienza alle procedure concorsuali, proprio dal favorire la tempestiva emersione dello stato di crisi. In proposito, tra l'altro, appare condivisibile la scelta legislativa di estendere l'obbligatorietà della segnalazione al pubblico ministero dello stato di insolvenza dal (solo) giudice civile (cfr. art. 7 n. 2) l. fall.) all'autorità giudiziaria tutta che lo rilevi nel corso di un procedimento, e quindi anche al giudice penale (cfr. art. 38 comma 2 d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14).

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