Retribuzione e/o risarcimento del danno in favore del lavoratore nelle fattispecie di ripristino del rapporto di lavoro

Luigi Di Paola
18 Maggio 2023

Questione rilevante nella disamina della normativa in materia di lavoro è quella di stabilire quando, a seguito del ripristino del rapporto di lavoro (con l'originario datore, o con quello rivelatosi l'effettivo utilizzatore della prestazione lavorativa), la posta monetaria assuma natura di retribuzione o di risarcimento del danno (pur commisurato all'importo delle retribuzioni mensili); sono note, infatti, le differenze, sul piano degli effetti, derivanti dalla disciplina correlata all'una o all'altra voce monetaria. Le difficoltà interpretative sorgono dal fatto che la legislazione, in materia, assume connotati di specialità, sicché non sempre la giurisprudenza riesce a muoversi secondo linee chiare e definite; ne costituisce riprova il quadro frammentario emergente da soluzioni in alcuni casi non omogenee in relazione a fattispecie di analoga portata che, pertanto, richiederebbero un trattamento similare. Nei paragrafi che seguono verranno in sintesi esaminati i maggiori problemi che si pongono al riguardo nonché tratteggiate ipotesi ricostruttive intese a favorire una maggior coerenza del sistema.
La rilevanza della differenziazione

La differenziazione tra voce retributiva e voce risarcitoria nel rapporto di lavoro ha una sua specifica rilevanza, in quanto i regimi ad entrambe correlati sono, per taluni aspetti, non coincidenti.

Mettendo da parte le note differenze in tema di prescrizione, per il tema che andremo ad affrontare va sottolineato, in particolare, che al credito retributivo non si applica l'art. 1227 c.c. (ove è previsto che “Se il fatto colposo del creditore ha concorso a cagionare il danno, il risarcimento è diminuito secondo la gravità della colpa e l'entità delle conseguenze che ne sono derivate. Il risarcimento non è dovuto per i danni che il creditore avrebbe potuto evitare usando l'ordinaria diligenza”), né il principio della “compensatio lucri cum damno”, i quali operano con esclusivo riguardo alla voce risarcitoria (venendo in considerazione, in ordine all'illegittimità in senso lato del licenziamento, le regole speciali in tema di “aliunde perceptum” o “percipiendum” di cui agli artt. 18 Stat. Lav., nonché 2 e 3 del d.lgs. n. 23/2015).

Solo per la retribuzione vale il parametro costituzionale di cui all'art. 36 Cost., con conseguente irriducibilità della posta al di sotto di una certa soglia. Il che implica che ogni intervento normativo che stabilisse un tetto inferiore a detta soglia sarebbe affetto da illegittimità costituzionale; non così avviene per il risarcimento.

Retribuzione o risarcimento?

Sul piano normativo, nel contratto di lavoro la retribuzione costituisce il corrispettivo della prestazione lavorativa, sicché, ove la stessa, in presenza di detta prestazione, non venga corrisposta, il lavoratore potrà agire con l'azione di adempimento.

La retribuzione non corrisposta dal datore di lavoro alla scadenza non si converte, pertanto, in un importo dovuto a titolo risarcitorio.

Questa regola, che deriva dalla natura “pecuniaria” della prestazione, subisce, però, una rilevante deroga - tratta, come vedremo, da orientamenti giurisprudenziali, oppure da precise scelte del legislatore - nel caso in cui vi sia una sorta di “schermo” o “sovrastruttura” che impedisca di qualificare, in origine, la mancata corresponsione della retribuzione come inadempimento contrattuale.

Si pensi al caso della accertata illegittimità della cassa integrazione, che non consente di ritenere legittima la mancata attribuzione del corrispettivo derivante dalla sospensione del rapporto, con la conseguenza che il datore - essendo venuto meno, appunto, lo “schermo” della cassa integrazione - dovrà corrispondere il risarcimento, quantificabile secondo le retribuzioni perse dal lavoratore nel periodo di sospensione illegittima. Si pensi, ancora, al caso del licenziamento, ove è lo stesso legislatore a prevedere che, venuto meno lo “schermo” del licenziamento - in quanto illegittimo - spetta al lavoratore una indennità risarcitoria commisurata, nella sostanza, alle retribuzioni perse.

Questa deroga alla regola generale in tema di obbligazioni pecuniarie sembra giustificarsi per il fatto che la “sovrastruttura”, apparente o reale, che sembra impedire o impedisce, in origine, al rapporto di operare mediante la produzione di effetti del negozio che ne è alla base, ha un suo valore, sicché, anche ove quella “sovrastruttura”, nella sua apparenza o realtà, sia rimossa a seguito di un accertamento giudiziale dichiarativo o costitutivo, la retribuzione non corrisposta al lavoratore “medio tempore” si trasforma in risarcimento.

Il che, tuttavia, sul piano della ragionevolezza e della dogmatica del diritto può sembrare discutibile, già sol perché anche ove il lavoratore agisca per far valere la subordinazione egli mira a rimuovere uno “schermo”, quello della “non subordinazione”, benché nessuno dubiti che, venuto meno lo schermo in questione, il lavoratore possa pretendere le retribuzioni con l'azione di adempimento, nell'ambito di un giudizio, spesso, non meno complesso di quello avente ad oggetto, ad esempio, l'illegittimità del licenziamento o la nullità della clausola appositiva del termine.

In ogni caso, nella ricostruzione del fenomeno, dovrebbe avere almeno un suo rilievo la distinzione tra “sovrastruttura” apparente, rimovibile mediante una azione dichiarativa con cui sia accertata la nullità, sicché il rapporto è da considerarsi come mai interrotto, e sovrastruttura “reale”, che, qualora illegittima, è rimossa con azione costitutiva, con la conseguenza che il rapporto in questione, pur ripristinato con efficacia “ex tunc”, ha comunque fatto registrare una interruzione, benché illegittima.

Alla prima categoria potrebbero ricondursi le ipotesi della nullità della clausola appositiva del termine, del licenziamento nullo, della somministrazione di lavoro nulla per mancanza di forma e, forse, quella della cessione di azienda, ove si ritenga che l'effettuazione della stessa in difetto dei relativi presupposti determini un vizio di nullità.

Nell'ambito della seconda potrebbe rientrare il licenziamento annullabile e il complesso delle fattispecie interpositorie in senso lato, ove l'azione per il riconoscimento del rapporto di lavoro con il reale datore di lavoro abbia natura costitutiva.

Ciò posto, va subito evidenziato che non sembra corretto, quanto alla prima categoria, qualificare la posta dovuta al lavoratore, una volta rimossa la situazione di apparenza, quale risarcimento; infatti, dovendo considerarsi il rapporto di lavoro come mai interrotto, ha un rilievo di mero fatto il difetto di funzionalità dello stesso, la cui riattivazione consegue alla “messa in mora” che determina la ripresa dell'obbligo datoriale di corrispondere le retribuzioni. Nell'ambito della disciplina del licenziamento nullo tale conclusione è esclusa solo in ragione di una particolare qualificazione operata direttamente dal legislatore, che, pertanto, ha determinato una deviazione dal sistema generale del diritto civile.

Potrebbe al riguardo obiettarsi che, nel descritto ambito, ad esempio, la nullità della clausola appositiva del termine - o del licenziamento nullo - integri, comunque, un inadempimento contrattuale, che, secondo la regola generale, fa sorgere in capo al datore inadempiente un obbligo risarcitorio. Al che va replicato che il regime dell'inadempimento deve rapportarsi alla natura dell'obbligazione in origine dovuta, che, nel nostro caso, è pur sempre costituita da una somma di denaro; in altri termini, la violazione dell'obbligo datoriale di stipulare contratti a termine nella ricorrenza dei presupposti di legge o di quello di non licenziare il lavoratore in presenza di determinati divieti si risolve, in definitiva, nel mancato pagamento della retribuzione in origine spettante ove quella violazione non vi fosse stata.

Il richiamo al risarcimento potrebbe suonare maggiormente pertinente in relazione all'altra categoria sopra indicata, poiché l'iniziale ostacolo reale (pur illegittimo) è idoneo a rendere, sin quando non sia rimosso, la retribuzione, in concreto, “non dovuta”, con la conseguenza che quest'ultima si converte, appunto, in risarcimento, senza poter riacquisire - in virtù, tuttavia, di un mero postulato - la sua originaria natura a seguito della pronuncia giudiziale.

Il tema, a ben vedere, si intreccia con quello della “cooperazione del creditore”; sul punto, va infatti precisato che l'istituto della “mora credendi” trova il proprio raggio di azione con riguardo al credito retributivo, sicché, nel settore lavoristico, per effetto di quanto previsto dagli artt. 1206 c.c., 1207 c.c. e 1217 c.c., ove il lavoratore offra le proprie prestazioni e il datore si rifiuti di riceverle senza motivo legittimo, quest'ultimo dovrà corrispondere comunque la retribuzione e, in aggiunta (si noti), il risarcimento del danno derivante dalla “mora” (che, nel caso del rapporto di lavoro, sembra ipotizzabile solo in relazione a profili che esulano dalla mancata ricezione della retribuzione, quali, ad esempio, il pregiudizio alla professionalità, ecc …).

Sembra doversi escludere, pertanto, che la situazione di “mora del creditore” sia idonea a trasformare il credito retributivo del lavoratore in credito avente natura risarcitoria; il credito, infatti, è - e resta - retributivo, con l'unica variante che esso, in un contratto a prestazioni corrispettive quale è quello di lavoro, non viene meno a fronte della mancata prestazione del lavoratore, divenuta impossibile a causa della condotta del datore.

In buona sostanza, né la rimozione della “sovrastruttura” quantomeno apparente, né la messa in mora del datore sembrano in grado di trasformare un credito retributivo in credito risarcitorio.

Quando è necessaria l'offerta della prestazione lavorativa?

In materia, altra questione rilevante è quella di stabilire quando l'offerta della prestazione lavorativa produttiva della “mora accipiendi” sia necessaria affinché il lavoratore possa pretendere la posta monetaria (a prescindere, ora, se a titolo retributivo o risarcitorio) nei confronti del datore.

Al riguardo occorrerebbe, anche qui, distinguere le ipotesi in cui il rapporto di lavoro è in essere ma è privo, in quanto sospeso per cause varie, della funzionalità di fatto, da quelli in cui vi è una “sovrastruttura” reale (ad esempio, licenziamento) che determina, fin quando non rimossa, la inesistenza del rapporto.

Nella prima ipotesi la “mora” dovrebbe ritenersi necessaria, nonché ravvisabile nell'atto di intimazione ai sensi dell'art. 1217 c.c., che può essere contenuto anche in una impugnativa stragiudiziale o ancora nell'azione giudiziale con la quale si chiede l'accertamento della persistenza del rapporto (che inevitabilmente implica l'offerta delle energie lavorative); una volta effettuata, essa non dovrebbe, poi, essere ripetuta dopo la statuizione giudiziale, perché quest'ultima, come detto, avendo effetti dichiarativi, lascia il rapporto in essere con i reciproci obblighi originari delle parti.

Nella seconda ipotesi, invece, un problema di “mora” sembrerebbe porsi dopo la sentenza costitutiva, poiché da quel momento il rapporto, pur con efficacia retroattiva, riprende il suo corso; ma, al riguardo, potrebbe anche sostenersi che, in ogni caso, ove l'offerta delle prestazioni sia contenuta in un atto stragiudiziale (quale, ad esempio, l'impugnativa del licenziamento), essa è comunque idonea già a produrre gli effetti di cui all'art. 1207 c.c. - anche se, in realtà, non è stato ancora eliminato lo “schermo” che costituisce ostacolo alla persistenza del rapporto di lavoro -, poiché il lavoratore ben potrebbe procedere a detta offerta sul presupposto della illegittimità di quello schermo.

Sembra in ogni caso da escludere, anche in tal caso, che l'offerta della prestazione debba essere rinnovata dopo la sentenza (e sulla questione v. quanto si dirà “infra”).

La disciplina nel contratto a tempo determinato

Come è noto, nella disciplina del contratto a termine anteriore alla novella del 2010, si riteneva che, a seguito della conversione del contratto in uno a tempo indeterminato, il lavoratore avesse diritto al risarcimento del danno dal momento della messa in mora del datore di lavoro; il che, per quanto sopra visto, determinava una anomalia di sistema, poiché ad un credito che avrebbe dovuto avere natura retributiva - in quanto, a seguito dell'accertamento della nullità del termine, il rapporto era da considerarsi in essere e mai interrotto - si applicava esattamente l'istituto della “mora credendi”, ma con l'effetto di trasformare il titolo del credito da retributivo a risarcitorio (mentre il risarcimento di cui parla l'art. 1207 c.c. costituisce, come visto, una componente eventuale ed aggiuntiva rispetto alla prestazione che il creditore in mora deve alla controparte).

Tale anomalia ha consentito, tuttavia, di poter fare applicazione, in tale ambito, dell'istituto dell'“aliunde perceptum”, nonché di contenere, nella legislazione successiva, l'indennità risarcitoria fino alla declaratoria giudiziale di illegittimità del termine entro un limite massimo, ritenuto legittimo costituzionalmente (non venendo in considerazione l'art. 36 Cost., attinente alla retribuzione), ferma restando la reviviscenza del titolo retributivo a seguito di detta declaratoria.

Come subito vedremo, diversa è l'impostazione che sorregge la normativa sui licenziamenti.

La disciplina dell'indennità associata alla reintegrazione nel posto di lavoro

Nell'originario sistema della

legge n. 300/1970

, la posta monetaria da accordare al lavoratore reintegrato aveva natura risarcitoria per il periodo dal licenziamento fino alla pronunzia di reintegrazione e, successivamente, retributiva. Con la riforma del 1990 la distinzione è venuta meno, e, anche nel nuovo sistema delineato dalla cd. “legge Fornero”, l'indennità ha natura risarcitoria non solo sino alla pronunzia di reintegra, ma anche dopo, ossia fino alla effettiva reintegra, con norma ritenuta legittima dalla Corte costituzionale con la

sentenza n. 86

del 23 aprile 2018, ove si legge, per quanto qui interessa, che “Se è pur vero, quindi, che l'ordine di reintegrazione del lavoratore illegittimamente licenziato ripristina, sul piano giuridico, la “lex contractus”, ciò non è vero anche sul piano fattuale, poiché la concreta attuazione di quell'ordine non può prescindere dalla collaborazione del datore di lavoro, avendo ad oggetto un “facere” infungibile.

Per cui, ove il datore di lavoro non ottemperi all'ordine di reintegrazione, tale suo comportamento, riconducibile ad una fattispecie di illecito istantaneo ad effetti permanenti, perpetuerebbe le conseguenze dannose del licenziamento intimato “contra ius”, da cui propriamente deriva una obbligazione risarcitoria del danno stesso da parte del datore nei confronti del dipendente non reintegrato”.

Tale approdo interpretativo suscita, tuttavia, qualche perplessità, poiché ricostruisce la fattispecie di licenziamento nell'area della tutela reale come fonte di un doppio obbligo in capo al datore, ossia quello di non licenziare illegittimamente e quello di adempiere all'ordine giudiziale di reintegra; il che costituisce una forzatura di sistema, poiché l'obbligo è uno solo, ossia il primo citato, mentre la reintegra, ricostituendo il rapporto, non pone alcun dovere aggiuntivo del datore sul piano sostanziale, determinandosi solo un problema di adeguamento di mero fatto del comportamento di quest'ultimo all'ordine del giudice.

Del resto, l'approdo in questione lascia aperto il problema di come il lavoratore possa beneficiare della pronunzia di reintegra emessa a suo favore, ove il datore, nell'area della tutela reintegratoria cd. “attenuata”, rifiuti la prestazione lavorativa, limitandosi a corrispondere le sole 12 mensilità di cui all'art. 18, comma 4, Stat. Lav.; in tal caso, infatti, non assumendo la posta dovuta dopo la sentenza di reintegra titolo retributivo, il lavoratore non avrebbe alcuno strumento volto a compulsare il datore per il ripristino di fatto del rapporto o per la corresponsione delle retribuzioni a vuoto dopo la predetta sentenza (tale problema, come è noto, era sorto anche nel regime analogo del contratto a termine, ma, in quel caso, la Corte costituzionale, con la pronunzia n. 303/2011, ebbe a precisare che, dopo la pronunzia giudiziale di illegittimità del termine, riprendono a decorrere le retribuzioni; cfr. il seguente passo: “Se, infatti, il datore di lavoro, anche dopo l'accertamento giudiziale del rapporto a tempo indeterminato, potesse limitarsi al versamento di una somma compresa tra 2,5 e 12 mensilità di retribuzione, non subirebbe alcun deterrente idoneo ad indurlo a riprendere il prestatore a lavorare con sé. E lo stesso riconoscimento della durata indeterminata del rapporto da parte del giudice sarebbe posto nel nulla”).

Sul punto, nella pronuncia della Corte si precisa che “il datore di lavoro, ove messo in mora, dal lavoratore, ai fini dell'adempimento del suo obbligo di ottemperanza all'ordine del giudice, nel contesto della disciplina lavoristica ispirata al “favor praestatoris”, può andare, a sua volta, incontro alla richiesta risarcitoria che, secondo i principi generali delle obbligazioni (artt. 1206 e 1207, secondo comma, c.c.), nei suoi confronti, formuli il lavoratore medesimo, per il danno conseguente al mancato reinserimento nell'organizzazione del lavoro, nel periodo intercorrente dalla statuizione di annullamento del licenziamento a quello della sua successiva riforma”.

L'affermazione potrebbe essere interpretata nel senso che la messa in mora è necessaria solo ove il lavoratore - ferma restando l'indennità risarcitoria, che deriverebbe automaticamente dalla declaratoria di illegittimità del licenziamento con conseguente ordine di reintegra - volesse conseguire una somma ulteriore (il diritto all'ottenimento della quale non verrebbe meno con la riforma di detta declaratoria), scaturente dalla mancata ottemperanza del datore all'ordine di reintegra, volta a risarcire un danno diverso (ad esempio, alla professionalità, sul versante patrimoniale e non patrimoniale) da quello ristorabile mediante la predetta indennità.

Aderendo a tale interpretazione, il problema di cui sopra non avrebbe, tuttavia, soluzione, generandosi una inevitabile aporia nel sistema.

Ove, invece, l'affermazione volesse interpretarsi nel senso che la messa in mora è necessaria per il conseguimento del risarcimento, corrispondente alle retribuzioni non versate, per il periodo successivo alla sentenza di reintegra, allora essa si esporrebbe ad un rilievo di difetto di linearità, poiché implicherebbe che il lavoratore, dopo la sentenza di reintegra, debba mettere in mora il datore e, successivamente, possa chiedere il risarcimento di cui all'art. 1207 c.c., che andrebbe ad aggiungersi ad una altra tipologia di risarcimento.

In altri termini, il lavoratore avrebbe diritto fino alla sentenza di reintegra al risarcimento di cui all'art. 18 Stat. Lav. (o 3 del d.lgs. n. 23/2015) e, successivamente, anche a quello ex art. 1207 c.c.; sicché la ricostruzione si rivela a dir poco tortuosa, oltre che costituente un “unicum” nel sistema.

Sul tema specifico si registra, di recente, una sentenza della S.C. (Cass. 6 giugno 2019, n. 15379), che, pur riferita alla disciplina previgente, ha dettato il principio, valevole anche nel nuovo regime, secondo cui “Nell'ipotesi di ordine di reintegrazione del lavoratore ai sensi dell'art. 18, comma 4, della l. n. 300/1970, nel testo applicabile anteriormente alle modifiche apportate dalla l. n. 92/2012, il diritto al ripristino del rapporto e al risarcimento del danno non è subordinato, diversamente da quanto accade nel caso di conversione a tempo indeterminato di un contratto a tempo determinato per nullità del termine, alla messa in mora del datore di lavoro mediante l'offerta della prestazione lavorativa da parte del lavoratore, atteso che quest'ultimo mette a disposizione le proprie energie lavorative già con l'impugnativa in via stragiudiziale del recesso illegittimo, a fronte del rifiuto datoriale di riceverne la prestazione, manifestato con l'intimazione del licenziamento. (Nella specie, la S.C. ha censurato la decisione di merito che, dopo la sentenza di accertamento dell'illegittimità di un licenziamento intimato da una società poi fallita, con relative condanne reintegratoria e risarcitoria, aveva escluso dallo stato passivo il credito del lavoratore, avente per oggetto le retribuzioni maturate nel periodo successivo alla sentenza, sul presupposto dell'assenza di prova dell'offerta della prestazione alla società datrice per esserne riassunto)”.

Sul punto, la pronuncia non si esprime direttamente sull'applicabilità del principio anche al periodo successivo alla sentenza, ma, dalla cronologia degli eventi, così come riportata in motivazione - in cui è chiaro il riferimento alla “quota” di risarcimento maturata dopo la pronuncia giudiziale -, emerge con linearità l'applicabilità del predetto principio con riferimento a tutto il periodo, quindi anche a quello successivo alla predetta pronuncia.

La pronunzia in questione sembra da condividere nelle sue conclusioni, non apprezzandosi la ragione per cui il lavoratore, una volta ottenuta la declaratoria di ripristino del rapporto, debba, in ipotesi, nuovamente compulsare il datore onde poter ottenere la “quota” di risarcimento per il periodo successivo a detta pronuncia, la quale, ovviamente, non presenta alcuna incidenza, in chiave modificativa, sull'originario intendimento del lavoratore di essere reintegrato e, così, di mettere a disposizione le proprie energie lavorative fin dall'origine.

La disciplina nelle fattispecie interpositorie in senso lato

Come è noto, Cass., sez. un., 7 febbraio 2018, n. 2990, ha affermato che “La declaratoria di nullità dell'interposizione di manodopera per violazione di norme imperative e la conseguente esistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato determina, nell'ipotesi in cui per fatto imputabile al datore di lavoro non sia possibile ripristinare il predetto rapporto, l'obbligo per quest'ultimo di corrispondere le retribuzioni al lavoratore a partire dalla messa in mora decorrente dal momento dell'offerta della prestazione lavorativa, in virtù dell'interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 29 del d.lgs. n. 276/2003, che non contiene alcuna previsione in ordine alle conseguenze del mancato ripristino del rapporto di lavoro per rifiuto illegittimo del datore di lavoro e della regola sinallagmatica della corrispettività, in relazione agli artt. 3, 36 e 41 Cost.”.

Ciò che preme, in questa sede, richiamare della pronuncia è il passo in cui è affermato che “nel momento successivo alla declaratoria di nullità dell'interposizione di manodopera, a fronte della messa in mora (offerta della prestazione lavorativa) e della impossibilità della prestazione per fatto imputabile al datore di lavoro (il quale rifiuti illegittimamente di ricevere la prestazione), grava sull'effettivo datore di lavoro l'obbligo retributivo”.

Pertanto, dopo la sentenza scatterebbero le retribuzioni dalla messa in mora, mentre, per il periodo precedente, la predetta pronuncia non si esprime esplicitamente.

Altro passaggio rilevante della pronuncia in questione è quello per cui una interpretazione costituzionalmente orientata “induce al superamento della regola sinallagmatica della corrispettività, - intesa come riconoscimento al lavoratore, che chiede l'adempimento, del solo risarcimento del danno in caso di mancata prestazione lavorativa, pur se tale mancata prestazione é conseguenza di un rifiuto illegittimo del datore di lavoro in violazione dei principi di buona fede e correttezza -, tenuto conto che essa appare limitativa, ed inidonea a fornire al lavoratore una tutela effettiva, soprattutto con riferimento ad ipotesi, come quella di cui si discute, nelle quali, al mancato svolgimento della prestazione lavorativa, si faccia corrispondere l'automatica non debenza della corrispondente obbligazione retributiva, comportando la mancata cooperazione del datore di lavoro una impossibilità definitiva della prestazione, sicché il debitore non avrà diritto alla controprestazione, bensì al mero risarcimento del danno, secondo le regole di diritto comune, subendo, dunque, le ulteriori conseguenze sfavorevoli derivanti dalla condotta omissiva del datore di lavoro rispetto all'esecuzione dell'ordine giudiziale. Il datore di lavoro, il quale nonostante la sentenza che accerta il vincolo giuridico, non ricostituisce i rapporti di lavoro, senza alcun giustificato motivo, dovrà sopportare il peso economico delle retribuzioni, pur senza ricevere la prestazione lavorativa corrispettiva, sebbene offerta dal lavoratore; il rifiuto della prestazione lavorativa, offerta dal lavoratore, impedisce gli effetti giuridici che derivano dalla continuazione del rapporto dichiarato dal giudice, nonché la stessa effettività della pronuncia giudiziale”.

Ebbene, il passaggio in questione - nel quale tuttavia sembra confondersi il profilo della sinallagmaticità con l'istituto della mora del creditore, che attengono a due aspetti diversi, implicando il primo che alla prestazione debba correlarsi una controprestazione e prevedendo il secondo che la controprestazione è comunque dovuta ove la prestazione sia stata legittimamente offerta ed ingiustificatamente rifiutata - mette implicitamente a fuoco l'errore originario di cui si faceva cenno all'inizio (e attinente alla vicenda del contratto a termine), ossia che la mora del creditore non può trasformare un credito retributivo in risarcitorio.

La disciplina nel trasferimento di azienda

Il principio affermato dalla sopra richiamata pronunzia delle sezioni unite è stato ritenuto espressione di diritto vivente, anche in relazione alla fattispecie della cessione di azienda affetta da invalidità, da Corte cost. 28 febbraio 2019, n. 29.

Sicché è stato precisato - da Cass. 7 agosto 2019, n. 21160 - che “In tema di cessione di ramo di azienda, ove ne venga accertata l'illegittimità, permane in capo al datore cedente, che, nonostante l'offerta della prestazione, non abbia ottemperato al comando giudiziale di ripristino del rapporto lavorativo, giuridicamente rimasto in vita, l'obbligo di pagamento delle retribuzioni; sancita la natura retributiva e non risarcitoria delle somme da erogarsi ai lavoratori da parte del cedente inadempiente, non trova applicazione il principio della “compensatio lucri cum damno” su cui si fonda la detraibilità di quanto altrimenti percepito. (In applicazione del suddetto principio, la S.C. ha escluso la detraibilità dalle poste retributive dell'indennità di mobilità)”.

Recentemente, Cass. 24 febbraio 2023, n. 5778 ha affermato che “Nell'ipotesi di cessione di ramo d'azienda, di cui sia giudizialmente accertata l'illegittimità con ripristino del rapporto di lavoro con il cedente, il lavoratore ceduto non ha diritto alla retribuzione per il periodo intercorrente tra la data di cessione e quella della pubblicazione del provvedimento giudiziale di illegittimità della cessione stessa, potendo ottenere il risarcimento del danno subìto a causa dell'ingiustificato rifiuto del datore di lavoro di ricevere la prestazione, detratto l'eventuale “aliunde perceptum”, soltanto a partire dal momento in cui il lavoratore medesimo abbia provveduto a costituire in mora il predetto datore ex art. 1217 c.c. (Nella specie, la S.C. ha confermato la pronuncia di merito con la quale era stata rigettata la pretesa risarcitoria avanzata dalla lavoratrice, per avere quest'ultima effettuato la messa in mora - non ravvisata nel ricorso giudiziale con il quale era stata impugnata la cessione - in data successiva alla declaratoria di illegittimità della cessione in questione)”.

Nell'ambito della motivazione si legge che, opinando diversamente, “si creerebbe una ingiustificata aporia per cui il ceduto, dopo la declaratoria giudiziale di illegittimità del trasferimento d'azienda, potrebbe ottenere il pagamento delle retribuzioni maturate successivamente alla sentenza, sempre che abbia costituito in mora il cedente, mentre avrebbe diritto al risarcimento del danno per il periodo precedente a prescindere dalla messa a disposizione delle sue energie lavorative”.

Stando alla predetta sentenza, pertanto, nella cessione di azienda: a) la posta monetaria dovuta per il periodo intercorrente tra la cessione e la pronunzia attestante la illegittimità della stessa ha natura risarcitoria; b) la posta dovuta per il periodo dopo la pronunzia ha natura retributiva; c) sia per l'uno che per l'altro periodo il lavoratore deve costituire in mora il datore; d) l'azione giudiziale non è sufficiente ad integrare la messa in mora.

A tale impianto argomentativo potrebbe tuttavia obiettarsi che, anche ove volesse equipararsi la vicenda della cessione di azienda invalida a quella del rapporto a termine illegittimo, non sembra giustificarsi una “doppia” messa in mora, di cui la prima sarebbe attinente alla quota “risacitoria” nonché, per di più, ulteriore rispetto a quella normalmente insita nell'azione giudiziale volta all'accertamento della invalidità della cessione.

Considerazioni conclusive

Come visto, nell'ambito di più fattispecie che presentano un dato comune, quale il ripristino del rapporto (con l'originario datore o con il datore effettivo), le soluzioni, in materia, si presentano - non sempre plausibilmente - diversificate.

Nell'area del contratto a tempo determinato, per il periodo antecedente alla sentenza che statuisce la nullità della clausola appositiva del termine, al lavoratore spetta, a seguito della riforma del 2010, un risarcimento limitato, senza necessità di messa in mora, mentre, a seguito della sentenza, spettano le retribuzioni - con la conseguenza che non potrà operare l'“aliunde perceptum” -, ma non è chiaro se previa messa in mora del datore (la quale dovrebbe essere ragionevolmente esclusa, se non altro perché già contenuta nell'azione giudiziale; nel senso che essa non è necessaria sembrerebbe Corte cost. n. 303/2011: “A partire dalla sentenza con cui il giudice, rilevato il vizio della pattuizione del termine, converte il contratto di lavoro che prevedeva una scadenza in un contratto di lavoro a tempo indeterminato, è da ritenere che il datore di lavoro sia indefettibilmente obbligato a riammettere in servizio il lavoratore e a corrispondergli, in ogni caso, le retribuzioni dovute, anche in ipotesi di mancata riammissione effettiva”; ma nel senso che essa sarebbe necessaria v., di recente, Cass. 10 settembre 2018, n. 21947).

Nel settore del licenziamento, la legge speciale prevede che per il periodo che va dal licenziamento all'effettiva reintegra (quindi anche dopo la sentenza di reintegra) spetti sempre e solo risarcimento senza necessità di messa in mora; peraltro, qui, la detrazione dell'“aliunde perceptum” o “percipiendum” non consegue all'ordinario principio civilistico, bensì, per come sopra visto, dalle stesse norme speciali di cui agli artt. 18, commi 2 e 4, st.lav., e 2 e 3 del d.lgs. n. 23/2015.

Nelle vicende interpositorie con valenza costitutiva spetta il risarcimento per il periodo fino alla sentenza che accerta la fattispecie vietata - non è chiaro se previa messa in mora - e la retribuzione per il periodo successivo, a seguito di messa in mora; in tale ambito, con riferimento al periodo fino alla sentenza ed anche a quello successivo, opera poi il principio (concernente la somministrazione, ma esteso, in virtù di richiami normativi vari, all'appalto non genuino e al distacco illegittimo), contenuto nell'art. 38, comma 3, del d.lgs. n. 81 del 2015, secondo cui nelle ipotesi di somministrazione irregolare, “tutti i pagamenti effettuati dal somministratore, a titolo retributivo o di contribuzione previdenziale, valgono a liberare il soggetto che ne ha effettivamente utilizzato la prestazione dal debito corrispondente fino a concorrenza della somma effettivamente pagata”.

Alla cessione di azienda illegittima consegue, a favore del lavoratore ceduto, il risarcimento fino alla sentenza - con possibile detrazione dell'“aliunde perceptum” - previa messa in mora del cedente, e la retribuzione - con esclusione di tale detrazione - dalla sentenza in poi, sempre dalla messa in mora.

Ne esce, all'evidenza, un quadro composito ed ispirato ad esigenze che, allorquando identificabili, non sono neppure rimaste inalterate nel tempo.

In particolare, la novella del 2010, che ha riconfigurato l'apparato sanzionatorio del contratto a termine invalido, è stata dettata al fine di evitare che eventuali lungaggini del processo potessero gravare oltremodo sul datore, in astratto tenuto a riammettere in servizio il lavoratore vittorioso dopo molto tempo nonché a pagargli ingenti somme all'esito del giudizio, pur in mancanza di prestazione lavorativa.

Il maggior correttivo, pertanto, è stato quello di confermare legalmente la qualificazione giurisprudenziale in termini di risarcimento della posta dovuta fino alla sentenza - che, secondo le regole ordinarie, avrebbe dovuto avere, invece, come visto, natura di retribuzione - determinandone un contenimento, entro un tetto massimo, in astratto legittimo, sfuggendo il risarcimento dal vincolo di cui all'art. 36 Cost.

La regola della limitazione del risarcimento è stata poi esportata, per soddisfare la medesima esigenza di non far gravare troppo la durata del processo sul datore, nell'ambito della disciplina del licenziamento individuale nell'ipotesi della tutela reintegratoria attenuata, sulla premessa implicita che la posta dovuta tra licenziamento illegittimo e sentenza di reintegra non abbia sostanziale valore di retribuzione (diversamene da quanto tuttavia riconosciuto dalla S.C. in una recente sentenza; cfr. Cass. 25 gennaio 2023, n. 2234: “In caso di insolvenza del datore di lavoro, tra i crediti retributivi che il lavoratore ha diritto di ottenere dal Fondo di garanzia costituito presso l'INPS, va inclusa l'indennità associata alla tutela reintegratoria ex art. 18 Stat. Lav. novellato, stante la sua connotazione retributiva, alla luce dell'equivalenza del segmento temporale tra licenziamento e reintegrazione ad un periodo effettivamente lavorato”; cfr., altresì, il seguente passo: “con la declaratoria di annullamento del licenziamento per illegittimo esercizio del recesso datoriale … e l'ordine giudiziale di reintegrazione del lavoratore si è ripristinato lo status quo ante all'illegittima estromissione … e il lavoratore vanta il credito al quale avrebbe avuto diritto, e la retribuzione che avrebbe concretamente percepito, ove non fosse stato illegittimamente estromesso dall'azienda”), sì da sfuggire ancora una volta alle maglie del sopra citato parametro costituzionale.

Ma è legittimo chiedersi, a tale ultimo riguardo, se il lavoratore illegittimamente licenziato che avrebbe diritto al computo, nella retribuzione globale di fatto, degli aumenti retributivi per il periodo dal licenziamento alla pronunzia di reintegra (cfr., in tal senso, Cass. 1° marzo 2022, n. 6744, ove è precisato che la retribuzione globale di fatto deve essere commisurata a quella che il lavoratore avrebbe percepito se avesse lavorato, dovendosi ricomprendere nel suo complesso anche ogni compenso avente carattere continuativo che si ricolleghi alle particolari modalità della prestazione in atto al momento del licenziamento; cfr., in senso conforme, Cass. 11 novembre 2022, n. 33344) ma non, paradossalmente, al conseguimento della retribuzione globale di fatto oltre il dodicesimo mese dal licenziamento, non possa almeno pretendere (ove non si ipotizzasse addirittura una illegittimità costituzionale della norma di riferimento), sub specie di “danno ulteriore” - essendo mancata la prestazione lavorativa per causa imputabile al datore - gli ulteriori importi fino alla sentenza una volta dimostrata la indispensabilità degli stessi ai fini di una esistenza libera e dignitosa.

Infine, con la menzionata sentenza delle sezioni unite n. 2990/2018, in virtù di ragioni fondate anche sull'esigenza di rispetto, ad opera del datore, dell'ordine giudiziale di ripristino del rapporto di lavoro, si è stabilito che il lavoratore ceduto possa, in caso di accertata nullità della cessione di azienda, chiedere la posta risarcitoria/retributiva al cedente che si rifiuti di riammetterlo in servizio anche in caso di avvenuta corresponsione della retribuzione ad opera dello pseudo-cessionario, secondo un meccanismo non rinvenibile né nella disciplina del licenziamento - in cui opera l'“aliunde perceptum” - né in quella delle vicende interpositorie, in cui il legislatore ha previsto la detraibilità di quanto ricevuto dal lavoratore dallo pseudo datore.

Tale ultimo meccanismo, peraltro, ove volesse ritenersi di valenza generale, potrebbe portare ad una impostazione maggiormente in linea con il sistema, con la conseguenza che la retribuzione potrebbe rimanere “se stessa” anche subendo, in tutti i casi considerati, una riduzione per effetto di quanto il lavoratore abbia percepito da terzi (ivi compreso lo pseudo-cessionario).

Il complessivo quadro sopra delineato porta a concludere che, in materia, un'opera di ripensamento di alcune ricostruzioni - che, modellate sulla specialità del diritto del lavoro, si sono consolidate nell'ambito di un sistema disancorato dal diritto civile - potrebbe condurre ad una maggiore uniformità di trattamento di situazioni analoghe, salvaguardando le esigenze equitative che, a suo tempo, ebbero ad ispirare le ricostruzioni in questione, ferma restando l'esigenza di ricavare, anche ai fini del giudizio di compatibilità di alcune disposizioni normative con parametri costituzionali, la natura della posta monetaria non esclusivamente sulla base della qualificazione datane contingentemente dal legislatore, ma dall'effettivo valore di essa nell'ambito del rapporto di lavoro.