Deroghe alla normativa sui licenziamenti collettivi in caso di cessazione d'appalto in continuità

Francesco Pedroni
23 Maggio 2023

La sentenza offre l'occasione per ripercorrere l'ambito di applicazione delle deroghe alla disciplina (sostanziale e procedimentale) in caso di licenziamento plurimo o collettivo e di configurabilità di trasferimento d'azienda conseguente alla cessazione della commessa in ipotesi di appalto con subentro di appaltatore terzo. Si tratta di ipotesi specifiche, frutto di adattamento della normativa nazionale a quella europea, la cui errata individuazione e interpretazione circa i presupposti di fatto e i requisiti normativi può portare a importanti conseguenze in termini di validità e legittimità dei recessi e di continuità dei rapporti di lavoro.
La massima

In caso di licenziamento di lavoratori per motivo oggettivo intimato per cessazione della commessa in appalto con subentro di appaltatore terzo, la deroga all'applicabilità dell'art. 24 legge n. 223/1991 prevista dall'art. 7, comma 4-bis, d.l. 248/2007, necessita dell'accertamento delle condizioni ivi previste e cioè dell'offerta di assunzione dei lavoratori interessati da parte dell'azienda subentrante a parità di condizioni economiche e normative previste dai contratti collettivi nazionali di settore stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative o dell'offerta della loro assunzione a seguito di accordi collettivi stipulati con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative.

Il caso

Un socio lavoratore di una cooperativa veniva licenziato unitamente ad altri 61 dipendenti per cessazione dell'attività connessa alla scadenza del contratto di appalto con la committente (unica commessa). 40 dei predetti lavoratori venivano assunti dal nuovo appaltatore subentrato nella commessa nell'ambito di accordi formalizzati tramite la sottoscrizione di un verbale di conciliazione in sede sindacale.

Uno dei lavoratori che non avevano aderito all'accordo impugnava il licenziamento eccependo la nullità dello stesso per violazione della procedura prevista in caso di licenziamento collettivo dalla legge n. 223/1991, l'insussistenza del motivo oggettivo alla base del recesso e la violazione dell'art. 2112 c.c. in ragione del trasferimento delle attività appaltate al terzo appaltatore che avrebbe configurato il suo diritto alla prosecuzione del rapporto di lavoro con la società cessionaria.

Entrambi i gradi di merito si concludevano con il rigetto delle domande del lavoratore ritenendo i giudici di primo e secondo grado che il licenziamento del lavoratore fosse qualificabile come licenziamento plurimo oggettivo motivato dalla soppressione di tutti i posti di lavoro per effetto della cessazione dell'attività. Secondo la ricostruzione operata dalla sentenza in commento, le decisioni di prima e seconda istanza avevano escluso che la fattispecie vertesse in ipotesi di licenziamento collettivo, in difetto dei presupposti di riduzione o di trasformazione dell'attività della datrice di lavoro previsti dall'art. 24, c. 1, legge n. 223/1991, in assenza dei relativi requisiti.

La Corte d'Appello di cui alla sentenza impugnata, inoltre, aveva negato la ricorrenza di un trasferimento d'azienda, non sussistendone i requisiti normativi previsti che il lavoratore non aveva dimostrato.

Ricorreva in cassazione il lavoratore censurando la sentenza di secondo grado per violazione e falsa applicazione della normativa relativa ai licenziamenti per motivo oggettivo e collettivi (leggi nn. 604/1966 e 223/1991) in relazione ai requisiti della deroga all'art. 24 legge n. 223/1991 previsti dall'art. 7, comma 4-bis, d.l. n. 248/2007 nell'ambito di una successione di appalto regolata dall'art. 29, comma 3, d.lgs. n. 276/2003.

In particolare, il lavoratore ricorrente lamentava il vizio della decisione impugnata laddove aveva ritenuto efficaci i licenziamenti dei lavoratori non sottoscrittori del verbale di conciliazione quali licenziamenti plurimi oggettivi, anziché licenziamenti collettivi, concentrandosi la Corte di merito solo sul dichiarato motivo di licenziamento (perdita di unica commessa), senza considerare le interlocuzioni sindacali inerenti la successione nell'appalto e in difetto di assicurazione da parte della società subentrante della sussistenza della parità di condizioni normative ed economiche previste dai contratti collettivi nazionali di settore.

Con ulteriore motivo di censura il lavoratore deduceva violazione e falsa applicazione dell'art. 2112 c.c. e dell'art. 29, comma 3, d.lgs. n. 276/2003 per erronea ripartizione, in tema di cambio di appalto, dell'onere della prova ai fini dell'accertamento della presenza degli “elementi di discontinuità” d'impresa che possano escludere un trasferimento d'azienda nell'ipotesi di acquisizione del personale già impiegato nell'appalto a seguito di subentro di nuovo appaltatore.

La questione

Si tratta di valutare quale sia l'oggetto dell'indagine e del contesto di riferimento nell'ipotesi di licenziamento per motivo oggettivo intimato a più lavoratori per cessazione della commessa in appalto con subentro di appaltatore terzo alla luce della normativa (sostanziale e procedimentale) sui licenziamenti collettivi e sul trasferimento d'azienda e le loro deroghe.

La soluzione giuridica

Con la decisione in commento la Suprema Corte cassa con rinvio la sentenza impugnata contestando innanzitutto che alla fattispecie si applichi il principio di diritto in tema di licenziamento individuale plurimo di cui Cass. n. 25653/2017, richiamato dalla sentenza impugnata, secondo cui “in tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, quando la ragione del recesso consista nella soppressione di uno specifico servizio legato alla cessazione di un appalto e non si identifichi nella generica esigenza di riduzione di personale omogeneo e fungibile, il nesso causale tra detta ragione e la soppressione del posto di lavoro è idoneo di per sé a individuare il personale da licenziare, senza che si renda necessaria la comparazione con altri lavoratori dell'azienda e l'applicazione dei criteri previsti dall'art. 5 legge n. 223/1991”.

Il giudice di legittimità richiama, infatti, la distinzione e l'autonomia del licenziamento collettivo rispetto a quello individuale che consiste nella caratterizzazione specifica del primo, prevista normativamente, in base alle dimensioni occupazionali dell'impresa, al numero dei licenziamenti, all'arco temporale della loro intimazione e per il suo inderogabile collegamento al controllo preventivo, sindacale e pubblico, dell'operazione imprenditoriale di ridimensionamento dell'azienda.

Richiamata, quindi, la definizione normativa e i requisiti del licenziamento collettivo, la decisione in commento censura la Corte di merito laddove aveva ritenuto la fattispecie sottoposta al suo esame quale licenziamento plurimo e non collettivo in base al contesto di riferimento: il venir meno dell'unico contratto di appalto comportante la cessazione della sua attività d'impresa sarebbe circostanza diversa dalla riduzione o trasformazione dell'attività prevista dall'art. 24 della legge n. 223/1991. Secondo il giudice di legittimità il presupposto normativo da cui parte la Corte di merito è errato laddove la predetta norma, al comma 2, prevede espressamente il licenziamento collettivo anche nel caso di cessazione totale dell'attività d'impresa, apportando correttivi procedurali derivanti dalla necessaria e conseguente unicità del criterio di scelta per tutti i lavoratori (art. 4, comma 9 legge n. 223/1991).

Inoltre, nell'esaminare l'ipotesi di esclusione della procedura di cui all'art. 24 prevista dall'art. 7, comma 4 bis, d.l. 248/2007 in caso di acquisizione di lavoratori già impiegati in appalto da parte di nuovo appaltatore subentrato nell'appalto stesso, la Corte richiama il fatto che la predetta norma condiziona la sua applicabilità alle circostanze che i lavoratori impiegati siano riassunti “dall'azienda subentrante a parità di condizioni economiche e normative previste dei contratti collettivi nazionali di settore stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative, oppure che siano riassunte seguito di accordi collettivi stipulati con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative. Sicché, solo una ricorrenza di tali presupposti, la situazione fattuale costituisce sufficiente garanzia per i lavoratori, risultando nella posizione adeguatamente tutelata, ed esonera dal rispetto dei requisiti procedurali richiamati dall'art. 24 della legge n. 223/1991”.

E delle predette circostanze la Corte territoriale non ha compiuto alcun accertamento limitandosi alla drastica affermazione di inapplicabilità della procedura gestionale in questione, senza accertare l'effettiva rispondenza della proposta di riassunzione formulata dalla società subentrante nell'appalto ai requisiti indicati dall'art. 7, comma 4 bis, d.l. n. 248/2007.

Considerata la centralità di tale accertamento, la Corte ha ritenuto assorbiti gli ulteriori motivi di censura relativi alla configurazione e ripartizione dell'onere della prova circa gli elementi di discontinuità determinanti una specifica identità di impresa al fine di escludere un trasferimento d'azienda ai sensi dell'art. 29, comma 3, D.Lgs. 276/03 e ha cassato la sentenza impugnata con rinvio.

Osservazioni

La pronuncia in commento è necessariamente coerente con il quadro normativo delineatosi a seguito degli interventi normativi di adattamento della disciplina nazionale alle previsioni europee di protezione dei lavoratori in caso di successione degli appalti in cui sono impiegati.

Limitandosi alla fattispecie oggetto della pronuncia in commento, la normativa di riferimento è innanzitutto rappresentata dall'art. 7, comma 4-bis, d.l. n. 248/2007 che così dispone:

“Nelle more della completa attuazione della normativa in materia di tutela dei lavoratori impiegati in imprese che svolgono attività di servizi in appalto e al fine di favorire la piena occupazione e di garantire l'invarianza del trattamento economico complessivo dei lavoratori, l'acquisizione del personale già impiegato nel medesimo appalto, a seguito del subentro di un nuovo appaltatore, non comporta l'applicazione delle disposizioni di cui alla L. 23 luglio 1991, n. 223, articolo 24, e successive modificazioni, in materia di licenziamenti collettivi, nei confronti dei lavoratori riassunti dall'azienda subentrante a parità di condizioni economiche e normative previste dai contratti collettivi nazionali di settore stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative o a seguito di accordi collettivi stipulati con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative”.

La previsione si inserisce nel solco delle eccezioni (da ritenersi tassative) all'applicazione della procedura di consultazione e gestione della cessazione dei rapporti di lavoro in caso di licenziamento collettivo già individuati dalla direttiva 98/59/CE, in virtù della clausola aperta di cui all'art. 5 della direttiva secondo cui “non pregiudica la facoltà degli Stati membri di applicare o di introdurre disposizioni legislative, regolamentari o amministrative più favorevoli ai lavoratori o favorire o consentire l'applicazione di disposizioni contrattuali più favorevoli ai lavoratori”.

Sulla scorta di tale contesto normativo, la giurisprudenza aveva già avuto modo di meglio precisare i limiti della deroga in questione chiarendo che si tratta di un'ipotesi ulteriore alle eccezioni dall'applicazione della procedura prevista dalla L. n. 223/1991 già individuate dall'art. 24 comma 4 (scadenza dei rapporti di lavoro a termine, di fine lavoro nelle costruzioni edili e di attività stagionali o saltuarie) relativa al subentro nell'appalto di servizi che ha come scopo normativamente enunciato quello della protezione e del mantenimento dei diritti acquisiti dei lavoratori che hanno prestato la loro opera nell'appalto stesso. Il requisito di operatività di tale esclusione, quindi, è rappresentato dalla circostanza che i lavoratori in questione siano riassunti dall'azienda subentrante a parità di condizioni economiche e normative previste dai CCNL principali o a seguito gli accordi collettivi stipulati con organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative. In tali ipotesi, infatti, la procedura regolamentata prevista dalla normativa sui licenziamenti collettivi non occorre perché la situazione fattuale determinatasi costituisce sufficiente garanzia per i lavoratori, risultandone le posizioni adeguatamente tutelate (Cass. n. 9932/2022; Cass. n. 20772/2018; Cass. n.23732/2016).

Una nota variazione sul tema, che conferma la regola generale sopra illustrata, è rappresentata dalle cosiddette “clausole sociali” previste da taluni contratti collettivi che regolano il passaggio dei lavoratori impiegati in un appalto in caso di subentro di nuovo appaltatore. Tali clausole, proprio per la predetta medesima finalità di garanzia della continuità occupazionale, generalmente prevedono, quale requisito della legittimità del recesso per cambio di appalto l'effettiva assunzione del lavoratore alle dipendenze della società subentrante alle determinate condizioni economiche e normative. In tali casi, il lavoratore utilizzato nell'appalto ha accesso a due forme di tutela coesistenti nei confronti dell'appaltatore uscente e nei confronti di quello subentrante: contro il primo potrà agire per accedere alle tutele previste in caso di licenziamento illegittimo e al secondo potrà domandare l'esecuzione specifica dell'obbligo di concludere il contratto di lavoro alle condizioni acquisite presso il primo (Cass. n. 9932/2022).

Il caso oggetto della sentenza in commento presenta una situazione ibrida; secondo quanto si apprende dalle motivazioni della sentenza della Corte di Cassazione, in conseguenza di un cambio di appalto tutti i lavoratori ivi addetti erano stati licenziati e solo alcuni erano stati assunti dall'appaltatore subentrante in base ad un accordo sindacale. Non si conoscono i motivi per cui i lavoratori esclusi non sono stati anch'essi assunti dall'appaltatore subentrante e proprio di ciò la Suprema Corte lamenta un difetto di accertamento da parte del giudice del merito. La circostanza stessa della mancata assunzione (o dell'accettazione dell'offerta di assunzione) avrebbe, infatti, dovuto condurre al necessario accertamento se il rifiuto all'assunzione da parte dei lavoratori esclusi potesse essere giustificato dall'assenza dei requisiti previsti dalla normativa invocata, con conseguente riviviscenza della normativa gestionale prevista dall'art. 24 legge n. 223/1991. A tal riguardo, ulteriore indagine avrebbe dovuto riguardare le caratteristiche dell'accordo sindacale che, se stipulato con organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative, avrebbe potuto integrare il secondo requisito alternativo previsto dalla norma in questione.

Gli ultimi motivi di cassazione argomentati dal ricorrente inducono a pensare che il rifiuto del lavoratore di accettare le condizioni di assunzione presso l'appaltatore subentrante contenute nell'accordo sindacale fosse riconducibile al mancato mantenimento da parte dei quest'ultimo delle condizioni di impiego di cui il lavoratore godeva presso l'appaltatore uscente. Il lavoratore, infatti, invoca sotto profilo sostanziale e processuale (con argomento in merito alla ripartizione dell'onere della prova) la previsione dell'art. 29, comma 3, del d.lgs. n. 276/2003 nell'intento di vedersi riconosciuto il passaggio diretto all'appaltatore subentrante con diritto al mantenimento del trattamento precedentemente goduto. Tale ultima norma prevede, infatti, che “L'acquisizione del personale già impiegato nell'appalto a seguito di subentro di nuovo appaltatore dotato di propria struttura organizzativa e operativa, in forza di legge, di contratto collettivo nazionale di lavoro o di clausola del contratto d'appalto, ove siano presenti elementi di discontinuità che determinano una specifica identità di impresa, non costituisce trasferimento d'azienda o di parte d'azienda”.

L'art. 29, comma 3, d.lgs. n. 276/2003 è stato modificato dall'art. 30, l. 7 luglio 2016, n. 122 (Legge europea 2015-2016) in seguito alla procedura di pre-infrazione della Commissione Europea nei confronti del nostro Paese (fascicolo «EU PILOT», n. 7622/15/EMPL) per possibile violazione della disciplina comunitaria, in ragione della precedente formulazione della norma e dalla conseguente applicazione giurisprudenziale che escludeva il “cambio appalto” dalle ipotesi di trasferimento di azienda.

Si veda l'approfondimento e il commento sulla genesi di tale norma e sulle interpretazioni giurisprudenziali del concetto di discontinuità di identità di impresa , F. Pedroni “La discontinuità degli elementi nel passaggio dell'appalto ai fini della configurazione del trasferimento di azienda” , in IUS Lavoro (www.ius.giuffrefl.it) del 15 novembre 2021 su questa rivista.

In questa sede sarà sufficiente aggiungere che tale ultima norma rappresenta un ulteriore tutela del lavoratore interessato dalla successione di appalto qualora non riesca ad ottenere l'assunzione presso l'appaltatore cessionario o la conferma dei propri diritti quesiti o mediante accordo sindacale.

Ovviamente anche l'applicabilità della disposizione in questione e, in particolare, dell'assenza degli elementi di discontinuità che determinano la specifica identità di impresa dell'appaltatore subentrante, devono essere oggetto di adeguato accertamento giudiziale.

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