L'impianto di videosorveglianza a tutela della sicurezza degli studenti e il controllo preterintenzionale degli insegnanti
25 Maggio 2023
Massima
Per valutare il legittimo esercizio del potere disciplinare, sono utilizzabili le riprese eseguite da un impianto di videosorveglianza destinato a soddisfare esigenze di sicurezza e collocato, previo accordo sindacale, in spazi accessibili anche a personale non dipendente e non deputati ad accogliere postazioni di lavoro; tra le ragioni di sicurezza, vanno comprese anche quelle di un istituto scolastico rispetto alla tutela degli studenti (fattispecie rientrante nell'ambito d'applicazione dell'art. 4, comma 2, legge n. 300/1970, nella versione anteriore alle modifiche di cui all'art. 23, comma 1, d.lgs. n. 151/2015). Il caso
Un impianto di videosorveglianza, collocato a seguito d'accordo sindacale all'interno d'un istituto scolastico, ha ritratto un insegnante che, per superare il rifiuto degli alunni di far rientro nelle loro stanze, ha usato la forza nei confronti di uno di loro, trascinandolo per la maglietta verso l'ascensore e causandone la caduta a terra quando, per vincerne la resistenza, ha lasciato la presa sull'indumento che aveva afferrato.
Il datore di lavoro, ritenendo che la condotta in questione avesse rilevanza disciplinare, ha sospeso il docente dal lavoro e dalla retribuzione per n. 10 giorni. La sanzione, ridotta all'esito del giudizio di primo grado celebratosi davanti al Tribunale di Aosta, è stata invece giudicata legittima, nell'an e nel quantum, dalla Corte d'appello di Torino, la cui pronuncia, secondo la ricostruzione fattane dalla pronuncia di legittimità in commento, si è minuziosamente diffusa sulle risultanze istruttorie raccolte, valutate al lume anche delle riprese assicurate dall'impianto di videosorveglianza presente sul luogo del fatto.
La sentenza d'appello è stata quindi impugnata dall'insegnante, il cui ricorso per cassazione ha criticato sia la lettura delle risultanze istruttorie compiuta dalla Corte d'appello, sia l'impiego, ai fini del decidere, delle immagini che lo ritraevano mentre poneva in essere la condotta sanzionata. Le questioni giuridiche
La pronuncia della Corte di cassazione coinvolge, oltre ai limiti della denuncia in sede di legittimità di vizi attinenti alla valutazione del fatto eseguita dal giudice di merito, la figura dei c.d. controlli preterintenzionali e l'utilizzabilità di quanto da essi emerso per valutare la legittimità della sanzione disciplinare adottata. Le soluzioni giuridiche
I vizi rilevati dal ricorrente, benché etichettati quali errores in procedendo e vizi di motivazione, non hanno colto nel segno presso la Suprema Corte, che ha individuato, sotto le mentite spoglie dei motivi formalmente addotti, l'indebito tentativo di procedere ad una nuova analisi del merito della vicenda. In tal senso, la Cassazione, nel valutare inammissibili i motivi del ricorso, ha ricordato che la valutazione delle risultanze della prova testimoniale, il giudizio sull'attendibilità dei testi e sulla credibilità di alcuni invece che di altri, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito.
Questi – ha ricordato la Cassazione -, nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive. Sono in particolare da intendersi implicitamente disattesi tutti i diversi rilievi e le circostanze che, pur non menzionate esplicitamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata.
Su un altro versante, la Corte ha disatteso la censura con cui il ricorrente ha denunciato la violazione dell'art. 4 Stat. Lav., derivata, a suo dire, dall'impiego ai fini disciplinari delle riprese eseguite da un sistema di videosorveglianza per il controllo dei dipendenti. Secondo il lavoratore, quest'utilizzo non potrebbe giustificarsi in ragione dell'accordo sindacale relativo al posizionamento delle telecamere e sarebbe irrilevante, ai fini dell'utilizzabilità in questione, il fatto che le videoregistrazioni siano state depositate dallo stesso lavoratore in allegato ai propri scritti difensivi.
Sul punto, la Cassazione ha avallato la valutazione compiuta dalla Corte d'appello, che aveva apprezzato il contenuto delle riprese nel complessivo ambito delle prove raccolte. Secondo la Suprema Corte, il giudice di secondo grado non ha omesso di indicare le ragioni a sostegno dell'utilizzabilità di queste riprese, con la precisazione per cui esse rientrano, «per la loro accertata destinazione ad esigenze di sicurezza, in quanto orientate verso spazi accessibili anche a personale non dipendente e non deputati ad accogliere postazioni di lavoro e collocate in base ad accordo sindacale», nell'ambito d'applicazione dell'art. 4, comma 2, Stat. Lav., nel testo anteriore alle modifiche dell'art. 23, comma 1, d.lgs. n. 151/2015, nell'osservanza delle garanzie ivi previste e delle esigenze organizzative e produttive ovvero della sicurezza sul lavoro: «in esse sicuramente comprese quelle di un istituto scolastico, a tutela della sicurezza degli studenti». Osservazioni
La sentenza in commento offre lo spunto per analizzare un tema fortemente dibattuto nel panorama giuslavoristico. Nell'ultimo ventennio, ed al di là della riforma che l'ha riguardata, la figura dei controlli a distanza ha dato luogo ad interpretazioni variegate, utili a ritagliare o restringere gli spazi offerti dal dettato normativo di riferimento.
La versione previgente dell'art. 4 Stat. Lav. era di per sé piuttosto chiara. Il comma 1 esprimeva un assoluto divieto all'uso di impianti audiovisivi e di altre apparecchiature per finalità di controllo a distanza dell'attività dei lavoratori. Il comma 2 legittimava, previo accordo sindacale o dietro autorizzazione amministrativa, l'installazione di impianti e di apparecchiature di controllo, richiesti da esigenze organizzative e produttive ovvero dalla sicurezza del lavoro, «ma dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell'attività dei lavoratori». Si tratta di quei controlli che vengono comunemente denominati controlli indiretti o controlli preterintenzionali.
Come sottolineato dalla Cassazione, la norma contemplava, in sostanza, due livelli di protezione della sfera privata del lavoratore: uno pieno, mediante la previsione del divieto assoluto di uso di impianti audiovisivi e di altre apparecchiature per finalità di controllo a distanza dell'attività dei lavoratori non sorretto da ragioni inerenti all'impresa (ossia, il cd. controllo fine a sé stesso); l'altro affievolito, ove le ragioni del controllo fossero state riconducibili ad esigenze oggettive dell'impresa, ferma restando l'attuazione del controllo (indiretto o preterintenzionale) con l'osservanza di determinate procedure di garanzia (l'art. 4, 2° comma, consentiva, previo accordo sindacale o autorizzazione amministrativa).
Accanto a queste due tipologie di controllo, basate su un solido riscontro normativo, la giurisprudenza ha nel tempo tratteggiato una terza categoria, quella dei c.d. controlli difensivi, tali in quanto rivolti “esclusivamente” ad accertare comportamenti illeciti dei lavoratori.
Questa categoria, forgiata a partire dall'assunto che le disposizioni dello Statuto dei lavoratori non precludono al datore di lavoro di controllare, direttamente o mediante la sua organizzazione gerarchica, l'adempimento delle prestazioni cui i lavoratori sono tenuti e, così, di accertare eventuali mancanze specifiche dei dipendenti medesimi, già commesse o in corso di esecuzione [Cass., n. 3039/2002], ha dato luogo ad una divaricazione giurisprudenziale in ordine al fatto che fossero anche ad essa applicabili i limiti e le condizioni previste dall'art. 4 Stat. Lav. previgente.
La circostanza fu inizialmente esclusa mediante l'affermazione per cui «devono ritenersi certamente fuori dell'ambito di applicazione della norma i controlli diretti ad accertare condotte illecite del lavoratore (cd. controlli difensivi), quali, ad esempio, i sistemi di controllo dell'accesso ad aree riservate, o, appunto, gli apparecchi di rilevazione di telefonate ingiustificate» [Cass., n. 4746/2002]. Successivamente, altre pronunce, attente all'esigenza di non trascurare i limiti imperativi (il divieto di controllo diretto sull'attività lavorativa) e i vincoli procedurali (l'obbligo preventivo di accordo sindacale o di autorizzazione amministrativa), anche per l'indubbia attinenza delle esigenze difensive con quelle organizzativo-produttive dell'impresa di cui all'originario art. 4, comma 2, St. Lav., consacrarono il principio di diritto che ammetteva l'inapplicabilità delle garanzie dello Statuto per soddisfare le finalità di “tutela del patrimonio aziendale”, ma solo a condizione che «non ne derivi anche la possibilità del controllo a distanza dell'attività lavorativa, né risulti in alcun modo compromessa la dignità e la riservatezza dei lavoratori» [cfr., in questi termini, ex multis, Cass. n. 15892/2007; Cass., n. 4375/2010; Cass. 6498/2011; Cass., 2722/2012; Cass., n. 22662/2016].
Il dibattito, tuttavia, lungi dal potersi dare per concluso, ha trovato successivo riscontro allorché la Cassazione, con una serie di pronunce adottate all'esito della medesima “udienza tematica”, ha ricostruito i suoi punti d'approdo in termini antitetici [cfr. Cass., n. 25732/2021 e Cass., n. 32760/2021].
Oggi, all'esito delle modifiche introdotte dall'art. 23, d.lgs. 151/2015, la questione di maggior rilievo è rappresentata dal dubbio se i controlli difensivi siano sopravvissuti al nuovo testo normativo. La versione vigente dell'art. 4, comma 1, prevede infatti che gli impianti audiovisivi e gli altri strumenti dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell'attività dei lavoratori possono essere impiegati non solo per «esigenze organizzative e produttive» e «per la sicurezza del lavoro», ma anche «per la tutela del patrimonio aziendale». Quest'ultima categoria pare rintracciare e offrire una disciplina anche ai c.d. controlli difensivi, da intendersi subordinati al regime autorizzatorio prescritto per i controlli preterintenzionali ed utilizzabili alle condizioni di cui alla regola forgiata ex novo dal successivo comma 3: «le informazioni raccolte ai sensi dei commi 1 e 2 sono utilizzabili a tutti i fini connessi al rapporto di lavoro a condizione che sia data al lavoratore adeguata informazione delle modalità d'uso degli strumenti e di effettuazione dei controlli e nel rispetto di quanto disposto dal decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196».
Ad onta di questa interpretazione normativa, la sopravvivenza della figura è stata comunque affermata dalla Corte di cassazione, la quale ha enucleato per l'occasione una nuova distinzione, tratta implicitamente dalla disposizione in commento. È stato infatti tracciato un confine tra i «controlli difensivi in senso lato», tali in quanto «riguardano tutti i dipendenti (o gruppi di dipendenti) nello svolgimento della loro prestazione di lavoro e che devono necessariamente essere realizzati nel rispetto delle previsioni dell'art. 4 novellato in tutti i suoi aspetti», e i «controlli difensivi in senso stretto», ossia quelli «diretti ad accertare specificamente condotte illecite ascrivibili – in base a concreti indizi – a singoli dipendenti, anche se questo si verifica durante la prestazione di lavoro» [Cass., n. 25732/2021].
Questi ultimi, pur collocandosi al di fuori del perimetro delineato dall'art. 4 Stat. Lav., potranno essere legittimi solo se attuati ex post, «ossia a seguito del comportamento illecito di uno o più lavoratori del cui avvenuto compimento il datore abbia avuto il fondato sospetto».
Sul piano pratico, alla dubbia configurazione di una categoria cui la legge non fa alcun esplicito riferimento, s'abbinano concreti problemi di carattere probatorio, atteso che l'utilizzabilità dei dati raccolti sarà inevitabilmente condizionata dalla preventiva dimostrazione dei contorni entro cui è emerso il “fondato sospetto”. Inoltre, non ha meno rilievo la necessaria dimostrazione che i dati siano stati raccolti solo successivamente a questo sospetto: pare infatti da escludere che si possa far impiego di dati acquisiti in precedenza e che, successivamente, siano stati oggetto solo di un esame critico.
Questa panoramica riflette i contorni dell'attuale dibattito, non sopito dalle innovazioni normative e destinato a trovare prossimi riscontri presso la giurisprudenza di merito e di legittimità.
La sentenza in commento non può annoverarsi tra quelle utili a fornire peculiari chiarimenti sulla vexata quaestio. Pur con approccio non perfettamente nitido, essa pare mettere in luce due aspetti di rilievo rispetto alla diversa categoria dei controlli preterintenzionali.
Il primo aspetto, di carattere tassonomico, è volto a ricondurre entro i genuini “controlli per la sicurezza” quelli garantiti da un impianto di videosorveglianza non orientato sulla singola postazione del lavoratore ma verso spazi accessibili a chiunque. Viene in tal senso chiarito che possono rappresentare effettive esigenze di sicurezza anche quelle relative alla sfera degli studenti all'interno d'un istituto scolastico. È su questo presupposto che i controlli in questione sono stati ricondotti alla figura di cui all'art. 4, comma 2, Stat. Lav., previgente.
Il secondo aspetto di rilievo è che la sentenza prende implicitamente posizione sull'esistenza della categoria dell'«utilizzabilità» all'interno dell'universo processuale civile.
Invero, la mancanza nel codice di procedura civile d'una norma analoga a quella presente nel codice di procedura penale all'art. 191 ha indotto parte della giurisprudenza ad affermare che «le prove precostituite, quali i documenti, entrano nel giudizio attraverso la produzione e nella decisione in virtù di un'operazione di semplice logica giuridica, essendo tali attività contestabili solo se svolte in contrasto con le regole, rispettivamente, processuali o di giudizio, che vi presiedono, senza che abbia rilievo una valutazione in termini di utilizzabilità, categoria propria del rito penale ed ignota al processo civile» [Cass., n. 33809/2021].
In linea con una diversa logica, nella pronuncia in commento si fa invece specifico riferimento all'utilizzabilità, avallando l'impostazione della pronuncia d'appello che, sull'assunto che le condizioni di liceità previste dall'art. 4 Stat. Lav., erano state rispettate, l'aveva positivamente affermata rispetto alle riprese compiute dall'impianto installato dal datore di lavoro.
Sebbene la Cassazione non ne faccia esplicita menzione, è tuttavia da notare che il percorso argomentativo della Corte d'appello di Torino aveva inteso precisare che, in ogni caso, le riprese dell'impianto non erano state lo strumento mediante il quale si era proceduto alla contestazione disciplinare. Tuttavia, è da ritenere che se anche ciò fosse avvenuto, la legittima acquisizione delle riprese avrebbe potuto senz'altro giustificare un'iniziativa datoriale mossa esclusivamente dalle conoscenze così acquisite. In casi analoghi, la stessa Cassazione ha affermato che non sarebbe ravvisabile alcuna violazione della disciplina legale in esame qualora «il controllo a distanza ha costituito il mezzo per rilevare e dimostrare un illecito avente anche rilievo disciplinare» [Cass. n. 6498/2011].
Infine, sebbene il ricorrente abbia sostenuto che l'utilizzabilità delle riprese non poteva essere ammessa per il solo fatto che anch'egli le avesse depositate in allegato ai propri scritti, la Corte non ha preso una specifica posizione sul punto. In merito, la questione sollevata echeggia quella della rilevanza del consenso dei lavoratori nella materia in esame, laddove, sul versante penale, è stato affermato che il consenso non può surrogare l'accordo collettivo rispetto all'installazione dell'impianto, dal momento che la funzione svolta da quest'ultimo non è solo quella di esprimere l'assenso al controllo, ma anche quella di regolare l'uso dei dispositivi di sorveglianza e di tutelare i lavoratori mediante la verifica della sussistenza dei presupposti. Proprio queste finalità di garanzia e di disciplina rendono infungibile l'accordo collettivo rispetto a una semplice liberatoria sottoscritta dai lavoratori, con la quale ciascuno acconsente ad essere controllato a distanza dal proprio datore di lavoro senza alcun limite [cfr. Cass. pen., n. 50919/2019].
Nel nostro caso, in cui l'accordo collettivo è risultato presente, il tema del consenso si è proiettato in una fase successiva, quella dell'utilizzo probatorio delle riprese. La Corte sembra avallare l'idea che, una volta depositato il documento, la parte non potrebbe dolersi del suo impiego ai fini del decidere, ciò che è del tutto ragionevole, dal momento che ragioni di lealtà processuale e di tutela del “patrimonio probatorio” comune alle parti precludono alla parte che abbia chiesto di avvalersi di un documento la possibilità di dolersene qualora il significato ad esso attribuito non coincida con quello che ella avrebbe inteso assegnargli. |