Responsabilità contributiva in caso di cessione di azienda invalida
30 Maggio 2023
Massima
In caso di cessione di azienda dichiarata illegittima, permane l'obbligo contributivo previdenziale di colui che ha ceduto l'azienda anche in relazione al periodo per il quale la prestazione lavorativa è stata resa in favore del beneficiario della cessione, restando irrilevanti sia le vicende relative alla retribuzione dovuta dal cedente, sia l'eventuale pagamento di contributi da parte del cessionario per lo stesso periodo. Il caso
All'esito della dichiarazione di illegittimità di una cessione di ramo di azienda, i lavoratori dipendenti ceduti erano stati reintegrati presso la cedente. I rapporti di lavoro delle maestranze interessate erano stati infatti ricostruiti nei confronti dell'unico datore di lavoro (la cedente), tenuto, secondo le regole generali, agli obblighi di legge, retributivi e previdenziali.
La Corte di Appello di Bologna aveva però considerato insussistenti obblighi contributivi e retributivi in capo alla cedente per il periodo in cui la cessione era in corso e non era ancora stata dichiarata invalida.
La Corte di Cassazione, con l'ordinanza in commento, ha cassato siffatta sentenza e ha rinviato alla Corte di Appello in diversa composizione al fine di permetterle di decidere la controversia attenendosi al principio secondo il quale, nel caso di cessione di azienda dichiarata poi invalida, responsabile dei contributi rimane il datore di lavoro cedente anche per il periodo in cui il rapporto è stato reso a favore della cessionaria. La questione
Ci si domanda se per il periodo antecedente alla dichiarazione di invalidità di una cessione di azienda risponda del mancato pagamento dei contributi il datore di lavoro cedente ovvero il cessionario. Le soluzioni giuridiche
Preliminarmente, occorre precisare come soltanto un legittimo trasferimento d'azienda possa assicurare la continuità del rapporto di lavoro che, solo in tal caso, resta unico ed immutato nei suoi elementi oggettivi.
In virtù della continuità del rapporto, il lavoratore conserva tutti i diritti già maturati presso il cedente al momento della cessione dell'azienda (anzianità, scatti retributivi, diritti relativi alla qualifica ed alle mansioni svolte, ecc.), ivi compresa la sua posizione previdenziale.
Per quanto riguarda il diritto di credito del lavoratore, l'acquirente dell'azienda e chi la cede rimangono entrambi investiti di una responsabilità in solido nei confronti dei dipendenti ceduti, tranne che per i contributi obbligatori omessi al momento del trasferimento che rimangono a carico del cedente.
Ciò detto e precisato, è evidente che l'unicità del rapporto debba venir meno allorquando il trasferimento di azienda sia dichiarato invalido.
In sintesi, per quello che qui interessa, nel caso di invalidità della cessione, il rapporto di lavoro permane nella titolarità dell'originario cedente.
E, per giungere a tale conclusione, la Corte di Cassazione coinvolge e sviluppa due principi cardine in materia.
Il primo riguarda la fonte dell'obbligazione contributiva che trova la propria origine nel rapporto di lavoro e non nella retribuzione effettivamente corrisposta.
Il secondo principio riguarda l'inderogabilità dell'obbligo di versare i contributi previdenziali sancita dal comma 3 dell'art. 2115 c.c., secondo il quale: “È nullo qualsiasi patto diretto ad eludere gli obblighi relativi alla previdenza o all'assistenza”. Tale inderogabilità è tale in quanto nasce direttamente dalla legge ed è integralmente sottratta all'autonomia privata.
In sostanza l'inderogabilità esprime l'indisponibilità dei soggetti coinvolti nel rapporto previdenziale rispetto alla fattispecie legale, così che gli stessi non possono sottrarsi, nemmeno in via convenzionale, se non facendo venir meno i presupposti che determinano il nascere dell'obbligo o del diritto alla contribuzione.
La responsabilità per contributi si basa essenzialmente sulla titolarità del rapporto di lavoro che, nel caso di lavoratori reintegrati a seguito di dichiarazione di invalidità di una cessione di ramo di azienda, produce i propri effetti con riguardo alla figura del datore di lavoro cedente l'azienda.
Tra l'altro, nel caso analizzato, il rapporto di lavoro ha avuto perdurante esecuzione in fatto (seppur formalmente alle dipendenze apparenti di altro soggetto), avendo i lavoratori continuato a rendere la prestazione a favore del cedente, e, quindi, il datore di lavoro originario è rimasto obbligato alla retribuzione, la cui inosservanza può infatti essere giustificata solo per causa non imputabile al datore (cfr. Cass. 9 agosto 2004, n. 15372; Cass. 16 aprile 2004, n. 7300; Cass. 10 aprile 2002, n. 5101; Cass. 22 ottobre 1999, n. 11916).
Del resto, in caso di accertata illegittimità della cessione di azienda, anche le eventuali retribuzioni corrisposte dal cessionario non producono un effetto estintivo dell'obbligazione retributiva gravante sul cedente che rifiuti, senza giustificazione, la controprestazione lavorativa.
Ciò posto, la permanenza del rapporto lavorativo in capo al cedente implica a maggior ragione la configurabilità della relativa obbligazione contributiva previdenziale.
Infine, deve rilevarsi che non è neppure di ostacolo alla configurabilità del debito contributivo del datore di lavoro cedente, la corresponsione dei contributi previdenziali da parte del cessionario in relazione alle retribuzioni pagate ai lavoratori nel periodo di efficacia della cessione di azienda, in quanto, una volta invalidata la cessione, il pagamento dell'obbligazione contributiva non proviene più dal datore di lavoro formalmente titolare del rapporto ma da un terzo a ciò non autorizzato, ciò che peraltro non può aver luogo con riferimento ad un medesimo periodo lavorativo già coperto integralmente (sul piano del diritto) da obbligo di contribuzione. Invero, deve rilevarsi che, se in linea generale è vero che qualsiasi terzo può intervenire nel rapporto obbligatorio altrui, tacitando le pretese creditorie, non è altrettanto vero che possa farlo sempre, e ciò in ragione della presenza, nel caso concreto, di interessi giuridicamente apprezzabili del creditore che possono paralizzare l'intervento del soggetto estraneo, negandogli la facoltà di intromissione nel rapporto giuridico intercorrente tra i soggetti originari. Osservazioni
Nel caso che ci occupa, sembra che il lavoratore abbia comunque sempre lavorato presso l'azienda della cedente. Di conseguenza, pare più semplice delineare la responsabilità retributiva e, quindi, contributiva del datore di lavoro che ha ceduto l'azienda.
Ma, nell'ipotesi in cui così non fosse, allora sarebbe utile operare un distinguo, almeno dal punto di vista retributivo, tra: (i) la ricostituzione del rapporto di lavoro a seguito della sentenza di accertamento della illegittimità della cessione di ramo di azienda (che fa sorgere l'obbligazione retributiva in capo alla società cedente, come riconosciuto da orientamento consolidato della Corte di Cassazione) e (ii) il periodo precedente alla suddetta sentenza (che fa sorgere un diritto di natura risarcitoria a favore del lavoratore).
Per il periodo successivo alla pronuncia giudiziale, secondo la citata e consolidata giurisprudenza della Corte di Cassazione, a seguito della declaratoria di illegittimità della cessione del ramo e dell'ordine del giudice di ripristinare il rapporto di lavoro con il datore di lavoro cedente, il rapporto con il cessionario è ritenuto instaurato in via di mero fatto e il sinallagma contrattuale tra cedente e lavoratore ceduto riprende effettività e rivivono gli ordinari obblighi a carico di entrambe le parti e, in particolare, l'obbligo del datore di lavoro di corrispondere la retribuzione (cfr. Cass., Sez. Un. n. 2990/2018). Solo per il periodo successivo, quindi, il datore deve riammettere in servizio il lavoratore e corrispondergli le retribuzioni dovute, e ciò anche se poi non ci fosse la riammissione effettiva.
Le Sezioni Unite hanno tenuto invero distinto il precedente arco temporale intercorrente tra il passaggio alle dipendenze del datore di lavoro cessionario e l'accertamento giudiziale della illegittimità della interposizione o della cessione, rispetto al quale non può che continuare ad operare il principio secondo il quale il contratto di lavoro è un contratto a prestazioni corrispettive in cui l'erogazione del trattamento economico, in mancanza di lavoro, costituisce un'eccezione, che deve essere oggetto di un'espressa previsione di legge o di contratto. In difetto di un'espressa previsione in tal senso, la mancanza della prestazione lavorativa esclude il diritto alla retribuzione, ma determina a carico del datore di lavoro, che ne è responsabile, l'obbligo di risarcire i danni, eventualmente commisurati alle mancate retribuzioni. In tal caso, il lavoratore ceduto che vuol agire per il risarcimento del danno subito deve preventivamente provvedere a costituire in mora il datore di lavoro, con la messa a disposizione delle energie lavorative ovvero mediante intimazione di ricevere la prestazione, in modo da rendere ingiustificato il rifiuto del cedente e suscettibile di risarcimento l'eventuale danno cagionato.
L'obbligazione contributiva, di cui si tratta in questa sede, non viene invece esclusa dall'inadempimento retributivo del datore di lavoro, neppure ove questo sia solo parziale e sebbene l'originaria obbligazione sia trasformata in altra di natura risarcitoria (Cass. n. 26078 del 12 dicembre 2007). |