Concordato semplificato ingiustamente sacrificato alle ragioni della liquidazione giudiziale

Luigi Amerigo Bottai
06 Giugno 2023

Con questa pronuncia, la Corte d'appello di Milano individua un “rapporto di necessaria connessione” tra l'operatività delle misure protettive e l'inibitoria alla declaratoria di fallimento, tale che, venendo meno le prime, la seconda ne segue le sorti. L'Autore sottopone a commento critico le conclusioni dei giudici milanesi, facendo riferimento alla dottrina espressasi sull'argomento.
Massime

L'insussistenza del requisito dell'insolvenza non costituisce presupposto per l'accesso alle misure protettive ex art. 6 DL 118/2021, perché la finalità del percorso della composizione negoziata della crisi è quella di fornire alle imprese in difficoltà nuovi strumenti per prevenire l'insorgenza di situazioni di crisi o per affrontare e risolvere tutte quelle situazioni di squilibrio economico-patrimoniale che, pur rivelando l'esistenza di una crisi o di uno stato di insolvenza, appaiono reversibili.

Il termine di 60 giorni dalla comunicazione all'imprenditore della relazione finale dell'esperto, entro cui può essere proposto il concordato semplificato, previsto dall'art. 18 DL 118/2021 (oggi art. 25-sexies CCII), non introduce un nuovo automatic stay, atteso che non sancisce alcun divieto alla dichiarazione di fallimento, ma contempla un termine finale entro il quale il debitore può accedere all'istituto, in considerazione del suo legame funzionale con la procedura di negoziazione, nesso che sarebbe vanificato dalla possibilità di proporre ad libitum il concordato.

Pertanto, la declaratoria di fallimento rimane inibita entro il solo periodo temporale di operatività della misura protettiva, con la conseguenza che, nel caso in cui ad una procedura prefallimentare faccia seguito una procedura di composizione negoziata con concessione di misura protettiva e questa cessi senza che le trattative abbiano dato esito positivo, il Tribunale fallimentare riacquista immediatamente pieni poteri e ben può pronunciare la sentenza dichiarativa di fallimento, a nulla rilevando il mero proposito della società di depositare in futuro un concordato semplificato. Ciò in quanto la citata norma (art. 6, comma 4, DL 118/2021, oggi art. 18, comma 4 CCII) deve essere intesa nel senso che, allorché le misure protettive sono cessate, e quindi è venuta a mancare la “protezione” alla soluzione negoziata, anche se la procedura di negoziazione non è stata formalmente archiviata, i creditori riprendono la facoltà di promuovere o proseguire azioni esecutive sul patrimonio del debitore e il fallimento può essere dichiarato; mentre in pendenza di misure protettive, e quindi nell' attualità delle stesse, è impedita la dichiarazione di fallimento fino alla conclusione delle trattative o alla formale archiviazione della procedura di negoziazione.



Il caso

Una società, che aveva esperito il procedimento di composizione negoziata (d'ora innanzi anche CNC) in pendenza di istanza di fallimento da parte di un creditore, veniva dichiarata fallita in sede di udienza prefallimentare, subito successiva all'archiviazione della CNC, malgrado non fossero decorsi i 60 giorni dalla relazione finale dell'esperto previsti dall'art. 18 delDL 118/2021, conv. con modif. nella L. 147/2021 (e poi sostituito dall'art. 25-sexies CCII), per il deposito del concordato semplificato di liquidazione e nonostante avesse richiesto un corrispondente rinvio di quell'udienza proprio al fine di consentire la presentazione di detto concordato.

Il collegio, nella decisione reclamata, riteneva, per quanto qui di interesse, che l'assenza di misure protettive pendenti – esaurite già da mesi – non fosse più di ostacolo alla declaratoria di fallimento, in piena osservanza del disposto di cui all'art. 6, comma 4 DL 118/2021 (e oggi di cui all'art. 18, comma 4 CCII, come modificato dal D.Lgs. 83/2022).

La società proponeva tre motivi di reclamo, vertenti (da quanto si evince dalla sentenza di appello): a) sull'insussistenza dello stato d'insolvenza, alla luce delle prospettive di risanamento consistenti nel surplus di attivo sul passivo; b) sull'inammissibilità della dichiarazione di fallimento perché le stesse prospettive di risanamento sarebbero state confermate, con efficacia di giudicato, dall'ordinanza di conferma delle misure protettive di alcuni mesi prima; c) sull'improcedibilità dell'istanza di fallimento poiché non era decorso il termine dilatorio dei 60 giorni concesso dall'art. 18 DL 118/21 e non era ancora stata archiviata la composizione negoziata della crisi.



Le questioni giuridiche e le soluzioni

La Corte d'appello ha avuto agio di rigettare i primi due motivi, siccome infondati: a) il primo tema, ossia lo stato d'insolvenza pur in presenza di un attivo patrimoniale asseritamente superiore al passivo, è stato agevolmente deciso richiamando la pacifica, costante giurisprudenza sul punto, che indica la rilevanza al fine di “uno stato d'impotenza economico-patrimoniale, idoneo a privare il soggetto della possibilità di far fronte, con mezzi normali, ai propri debiti” (da Cass. S.U. 11.2.2003, n. 1997 a Cass. civ., sez. I, ord. 11.3.2019, n. 6978); tale stato – inteso quale “situazione dotata di un certo grado di stabilità” (v. Cass. civ., sez. I, 20.11.2018, n. 29913) – ben può sussistere anche nell'ipotesi in cui “l'attivo superi il passivo e non esistano conclamati inadempimenti esteriormente apprezzabili”, a patto che si valutino “le condizioni economiche necessarie (secondo un criterio di normalità) all'esercizio di attività economiche”, valutazione che “sottende un giudizio di inidoneità solutoria strutturale del debitore”. Quanto ai debiti, occorre tener conto dei dati “emergenti dai bilanci e dalle scritture contabili”, mentre per la stima dell'attivo, “i cespiti vanno considerati non solo per il loro valore contabile o di mercato, ma anche in rapporto all'attitudine ad essere adoperati per estinguere tempestivamente i debiti”. E' inoltre irrilevante la consistenza immobiliare del debitore, ove essa “non consenta, oggettivamente, di far fronte nell'immediatezza alle suddette obbligazioni, ed implicando solo un soddisfacimento futuro ed incerto nel quantum, con la relativa liquidazione”. Dirimente è, dunque, la “mancanza di risorse finanziarie della società a fronte delle obbligazioni inadempiute” (Cass. civ., Sez. VI, ord. n. 1069 del 20/01/2020).

Nella fattispecie in esame esistevano il preesistente inadempimento del debito (di euro 135mila ca.) verso il fallimento instante, un passivo complessivo di euro 1,2 mln risultante dall'elenco dei creditori allegato alla CNC, una perdita d'esercizio di euro 700mila ca. risalente già al 2017 e una perdita integrale del capitale sociale a far data dallo stesso esercizio 2017, secondo la relazione finale dell'esperto. Di talché financo l'eccedenza dell'attivo sul passivo era contestata e, comunque, mancava la liquidità necessaria ad operare come entità in continuità, posto che la società non era in liquidazione.

Anche il secondo motivo è stato respinto con la semplice osservazione che l'ordinanza di conferma delle misure protettive costituisce provvedimento camerale provvisorio (nella specie con termine di scadenza fissato a 90 gg. dal decreto di pubblicazione dell'istanza), passibile di modifica o revoca ai sensi dell'art. 7, comma 6 DL 118/2021 (oggi art. 19, comma 6 CCII), reclamabile davanti al Collegio nelle forme dell'art. 669- terdecies c.p.c. e, pertanto, non idoneo alla formazione del giudicato sostanziale; ciò in quanto “il perimetro della delibazione giudiziale ai fini della conferma delle misure protettive ex art. 6 D.L. n. 118/2021 non si estende all'accertamento negativo della condizione di insolvenza in cui versa il debitore istante, ma è circoscritto alla verifica dell'attitudine delle misure a perseguire la funzione a cui esse sono preordinate dalla legge e cioè proteggere le trattative e presidiarne il buon esito e alla verifica dell'assenza di pregiudizi a carico dei creditori e dei terzi” (in realtà quest'ultimo requisito nei confronti dei creditori va declinato diversamente, come si illustrerà infra).

Pertanto, la dichiarazione di fallimento resta ammissibile qualora, come nel caso concreto, l'esperto abbia dato atto nella sua relazione finale dell'impossibilità di procedere secondo una modalità definitoria di cui all'art. 11 del dl 118/2021 (oggi art. 23 CCII), escludendo con ciò la possibilità di risanamento dell'impresa.

Sull'ultimo motivo di reclamo – c) erronea dichiarazione del fallimento per improcedibilità della relativa istanza “sia perché non ancora decorso il termine (di 60 giorni per l'eventuale presentazione di concordato semplificato) di cui all'art. 18 DL 118/2021” sia ai sensi dell'art. 6 DL 118/2021 “perché non ancora archiviata la procedura di composizione negoziata della crisi” – anch'esso respinto, la Corte d'appello, ricostruendo il quadro normativo di riferimento: a) ha ravvisato un automatismo con cui opererebbe “l'inibitoria alla declaratoria di fallimento a seguito della pubblicazione dell'istanza di applicazione delle misure protettive, entrambe poste a presidio della soluzione concordata della crisi”; b) ha ritenuto che “non possa dubitarsi che vi sia un rapporto di necessaria connessione tra l'operatività delle misure protettive e l'inibitoria. Infatti, in difetto della presentazione e pubblicazione dell'istanza di applicazione delle misure protettive, l'inibitoria non opera. Al predetto nesso tra le misure protettive e l'inibitoria alla dichiarazione di fallimento, che si realizza al momento in cui viene pubblicata l'istanza di applicazione delle prime, consegue, logicamente e necessariamente, che tale connessione permanga non solo nella fase genetica ma anche in quella funzionale”.

In tale fase funzionale le misure protettive possono diventare inefficaci per mancata o tardiva presentazione del ricorso al tribunale (o della richiesta di pubblicazione del numero di ruolo del procedimento di conferma entro 30 giorni) oppure – ipotesi frequente - possono cessare per scadenza del termine.

In questi casi, afferma la Corte lombarda, il predetto legame tra inibitoria del fallimento e misure protettive comporta che la prima (l'inibitoria) segua le sorti delle seconde (le misure protettive). E “non è di ostacolo a questa conclusione l'art. 6, comma 4, che prevede l'operare dell'inibitoria fino alla conclusione delle trattative o all'archiviazione dell'istanza di composizione negoziata. Infatti, l'interpretazione restrittiva della norma, secondo cui anche non confermate o cessate le misure protettive comunque sarebbe inibita la dichiarazione di fallimento fino alla formale archiviazione della procedura di negoziazione, da un lato si presterebbe a forme di abuso poiché le imprese interessate solo a bloccare la dichiarazione di fallimento potrebbero limitarsi semplicemente a presentare l'istanza di applicazione delle misure protettive; dall'altro sarebbe paradossale considerato che, mentre resterebbe inibita la dichiarazione di fallimento, invece i creditori potrebbero aggredire, al di fuori della parità di trattamento, il patrimonio del debitore proseguendo o proponendo azioni esecutive. Non può dunque che accedersi ad una interpretazione della norma che valorizzi il collegamento biunivoco della inibitoria con le misure protettive sia nella fase genetica, che in quella funzionale onde evitare distonie nel sistema”.

La Corte conclude statuendo il principio di diritto per cui “La norma, quindi, deve essere intesa nel senso che, allorché le misure protettive sono cessate, e quindi è venuta a mancare la “protezione” alla soluzione negoziata, anche se la procedura di negoziazione non è stata formalmente archiviata, i creditori riprendono la facoltà di promuovere o proseguire azioni esecutive sul patrimonio del debitore e il fallimento può essere dichiarato; mentre in pendenza di misure protettive e quindi nell'attualità delle stesse, è impedita la dichiarazione di fallimento fino alla conclusione delle trattative o alla formale archiviazione della procedura di negoziazione”. E lo rafforza con l'esegesi dell'attuale art. 18, comma 4 CCII, il quale, stabilendo che “la sentenza di apertura della liquidazione giudiziale o di accertamento dello stato di insolvenza non può essere pronunciata, salvo che il tribunale disponga la revoca delle misure protettive”, sancisce evidentemente il legame non solo genetico ma anche funzionale tra la misura protettiva e l'istanza di fallimento (oggi di apertura della liquidazione giudiziale) e al contempo chiarisce come, anche prima dell'archiviazione dell'istanza di CNC, la sentenza di fallimento ben possa essere pronunciata “purché venga revocata la misura protettiva (presupponendosene la pendenza)”.

Del resto, se la misura protettiva è nel frattempo cessata (ad es. per scadenza del termine non prorogato) la declaratoria di fallimento non sarà subordinata alla revoca della misura protettiva “per la tautologica considerazione che non vi è nulla da revocare”.



Osservazioni

Mentre sui primi due punti delle decisioni di prime e di seconde cure nulla vi è da eccepire, sulla terza questione l'esito di entrambi i gradi di giudizio desta – a parere di chi scrive - notevoli perplessità, alla luce dell'interpretazione più ragionevole offerta dalla migliore dottrina.

A) Sotto il primo profilo, ossia sulla definizione dello stato d'insolvenza allorché l'attivo dell'impresa superi il passivo (ma la società non sia in liquidazione), basta qui aggiungere ulteriori recenti pronunce conformi a quelle richiamate nella sentenza in commento: per Cass. civ. sez. I, 14/10/2022, n.30284, commentata in Ilsocietario.it 8 FEBBRAIO 2023 da M. Giorgetti), ai fini della dichiarazione di fallimento di una società non in liquidazione, l'accertamento dello stato di insolvenza è desumibile, più che dal rapporto tra attivo e passivo, dalla possibilità dell'impresa di continuare ad operare proficuamente sul mercato fronteggiando con mezzi ordinari le proprie obbligazioni, sicché i beni e i crediti che compongono il patrimonio sociale vanno considerati non solo per il loro valore contabile e di mercato, ma anche in rapporto all'attitudine ad essere adoperati per estinguere tempestivamente i debiti, senza compromissione – di regola – dell'operatività dell'impresa (nella specie l'impresa aveva in precedenza concluso un piano attestato di risanamento contenente un programma di vendite immobiliari rimasto inadempiuto). Conformi Cass. civ. sez. I, 3/03/2022, n.7087, che fa leva sul venir meno delle condizioni di liquidità e di credito necessarie allo svolgimento dell'attività, e Cass. civ. sez. I, 20/11/2018, n.29913, che sottolinea la necessità di valutare “l'aspetto dinamico rappresentato dall'accertata impotenza economico-finanziaria dell'impresa ad operare sul mercato, fronteggiando le obbligazioni secondo un criterio di "normalità").

Per altro verso, giova segnalare la decisione di Cass. civ. sez. VI, 15/12/2021, n.40165, che enuncia il principio per cui qualora la contestazione dei crediti si appalesi ragionevole può escludersi la sussistenza dello stato d'insolvenza (v. Ilfallimentarista.it, 14 GIUGNO 2022, nota di F. Spina), perché si toglie all'inadempimento del debitore il significato indicativo d'impotenza finanziaria, cosicché il giudice deve procedere all'accertamento, sia pur incidentale, dei crediti stessi.

B) Sotto il secondo aspetto, ovvero la inconfigurabilità dell'efficacia di giudicato – anche interno - per i provvedimenti cautelari o interinali o protettivi, in quanto destinati a regolare la fattispecie in via provvisoria e “allo stato degli atti”, non si può obliterare, infatti, che i provvedimenti di natura cautelare o possessoria costituiscono decisioni a carattere strumentale ed interinale, come tali inidonee a conseguire efficacia di giudicato, sia dal punto di vista formale che da quello sostanziale, operanti per il limitato tempo del giudizio di merito e sino all'adozione delle determinazioni definitive all'esito di esso (Cass. civ., sez. II, 3/08/2022, n. 24075; Cons. Stato, sez. IV, 25/05/2022, n. 4170; Cons. Stato, sez. III, 28/06/2019, n. 4461). Il provvedimento che costituisce misure cautelari e provvisorie, invero, pur coinvolgendo diritti soggettivi, non statuisce su di essi a definizione di una controversia e non ha attitudine ad acquistare autorità di giudicato sostanziale, con la conseguente inimpugnabilità con ricorso per cassazione ex articolo 111 della Costituzione (Cass. civ. sez. I, 13/09/2021, n.24638). Non occorre, quindi, indugiare nel rammentare la disposizione dell'art. 669-septies c.p.c., secondo cui “L'ordinanza di rigetto non preclude la riproposizione dell'istanza per il provvedimento cautelare quando si verifichino mutamenti delle circostanze o vengano dedotte nuove ragioni di fatto o di diritto”, laddove per la modifica o revoca delle misure concesse devono ricorrere i requisiti di cui all'art. 669-decies c.p.c..

Mentre par d'uopo riprendere l'accenno precedente circa “il perimetro della delibazione giudiziale ai fini della conferma delle misure protettive” (pag. 7 sentenza in commento), che secondo i giudici milanesi deve estendersi, oltre che alla verifica dell'attitudine delle misure stesse a perseguire la funzione di proteggere le trattative al fine del loro buon esito, anche “alla verifica dell'assenza di pregiudizi a carico dei creditori e dei terzi”; ma tale secondo parametro non è previsto dalla legge, che anzi subordina gli interessi dei creditori all'esito del risanamento, purché ovviamente si prospetti come concretamente probabile, proprio per l'innovativa preminenza di interessi “altri” nella composizione della crisi – la sostenibilità dell'impresa medesima e gli interessi dei c.d. stakeholders (lavoratori, fornitori, clienti, erario) nell'accezione riveduta di R. Edward Freeman (et aliis),Stakeholder Theory: The State of the Art, Cambridge University Press, 2010; cfr., inoltre, C. Mayer, Prosperità, dal profitto al benessere, Milano, 2021 -, imposta dalla Direttiva UE 2019/1023, rispetto ai meri interessi dei creditori. Ad avviso di chi scrive la considerazione degli interessi dei creditori è già valutata nelle norme di legge sulla CNC e dev'essere contemperata come affermato dalle pronunce di merito edite: cfr., a titolo esemplificativo, Tribunale Padova sez. I, 2/03/2023, Ilfallimentarista.it,23 MARZO 2023, secondo cui ai fini della conferma delle misure protettive ex art. 18 CCII, queste debbono essere proporzionate rispetto al pregiudizio arrecato ai creditori e strutturalmente idonee a salvaguardare trattative effettivamente in corso, per il raggiungimento di un risanamento che non risulti, ad un esame obiettivo, manifestatamente implausibile, assumendo a tal fine un ruolo centrale il parere dell'esperto; Tribunale S. Maria Capua V. sez. III, 16/12/2022, Ilfallimentarista.it, 30 GENNAIO 2023, per cui la valutazione sulla proroga, in un caso di domanda prenotativa di concordato preventivo, “deve essere il frutto del ponderato bilanciamento tra l'incidenza delle misure protettive sui diritti e gli interessi dei singoli che nelle more risultano compressi ed il beneficio che dalla realizzazione del piano di ristrutturazione potrà derivare: 1) in via diretta all'imprenditore e alla sua impresa; 2) in via indiretta, al sistema economico/sociale generale e, in senso specifico, all'interesse dei creditori”; Tribunale Milano sez. II, 17/01/2022, Riv. Dott. Commerc., 2022, 1, 111, che attribuisce al giudice chiamato a confermare le misure protettive nel procedimento di CNC, in base ad un principio di proporzionalità, l'onere di operare un bilanciamento tra gli interessi del debitore e le aspettative dei creditori, valutando come utile il percorso di risanamento intrapreso, in base alle inequivoche indicazioni dell'esperto. I creditori interessati dalle misure protettive non risultano essere i creditori potenzialmente interessati, ma piuttosto solo quelli concretamente colpiti dalle misure in questione, i quali hanno perciò lo strumento della richiesta di revoca se la misura appaia sproporzionata rispetto al pregiudizio loro arrecato.

C) È invece sul terzo profilo che si deve soffermare l'attenzione degli osservatori e dei professionisti della materia. Nella versione originaria del DL 118/2021, come convertito dalla L. 147/21, l'art. 6, comma 4 recitava seccamente: “Dal giorno della pubblicazione dell'istanza di cui al comma 1 (di applicazione delle misure protettive, ndr) e fino alla conclusione delle trattative o all'archiviazione dell'istanza di composizione negoziata, la sentenza dichiarativa di fallimento o di accertamento dello stato di insolvenza non può essere pronunciata”. È arduo non ravvisare in siffatta perentorietà la preclusione alla dichiarazione di fallimento.

La Corte, invece, non dubita che esista un rapporto di necessaria connessione – addirittura di “collegamento biunivoco” – fra inibitoria al fallimento e misure protettive. In realtà, se è vero che inizialmente la richiesta di misure protettive (anche successiva all'avvio della CNC) dev'essere formulata, mancando altrimenti un provvedimento che blocchi le istanze di fallimento/LG, non è altrettanto vero che dette misure debbano rimanere in vita fino alla fine, per la semplice ragione che i presupposti del mantenimento delle protezioni potrebbero non servire quando il ceto creditorio non aggredisca il patrimonio del debitore (e nel 30% dei casi, come risulta dai dati statistici mensili di Infocamere, è così). In altri termini, nessuna norma consente di istituire quel “collegamento biunivoco” sopra descritto.

Parimenti inconferenti si rivelano gli argumenta ab inconvenienti addotti dai giudici: “le imprese interessate solo a bloccare la dichiarazione di fallimento potrebbero limitarsi semplicemente a presentare l'istanza” di misure protettive; ma non v'è chi non veda come, in simili casi, l'istanza verrebbe rigettata per mancanza dei presupposti giuridici (la protezione delle trattative). Stessa sorte tocca l'altro argomento, ovvero il “paradosso” per cui sarebbe inibita la declaratoria di fallimento, ma non i pignoramenti dei creditori al di fuori della par condicio: questo risultato è esattamente quello voluto e imposto dalla Direttiva Restructuring, che ha abrogato il blocco automatico e generale delle esecuzioni.

La formula normativa è stata, invece, così spiegata (da G. Bozza, Il “concordato semplificato” introdotto dal d.l. n. 118 del 2021, convertito, con modifiche, dalla l. n. 147 del 2021, in fallimentiesocieta.it, 2022, 27): “alla conclusione delle trattative - quando, cioè, l'esperto redige la relazione finale con cui dichiara che le trattative non hanno avuto esito positivo e che le soluzioni individuate ai sensi dell'articolo 11, commi 1 e 2, non sono praticabili - oppure al momento dell'archiviazione, quando, cioè l'esperto non apre neanche il discorso con i creditori rilevando la mancanza di prospettive di risanamento, il tribunale (…) riprende il potere di riavviare il procedimento prefallimentare, rimasto nel frattempo sospeso, e di dichiarare il fallimento, impedendo la presentazione della domanda di concordato semplificato”. Ma subito dopo l'Autore espone il problema che ci occupa e prende posizione: “E' lecito, tuttavia, il dubbio che si pone attenta dottrina (M. Montanari, I rapporti della composizione negoziata della crisi con i procedimenti concorsuali, in DC, 24.11.2021) se alla declaratoria di cessazione del divieto di cui all'art. 6, comma 4, e, del caso, all'annessa pronuncia di fallimento o accertamento dello stato d'insolvenza, il giudice possa addivenire immediatamente, ossia non appena ricevuta la relazione finale di tenore negativo, ovvero non debba piuttosto attendere il decorso del termine di sessanta giorni di cui alla disposizione testé riportata. Io propenderei per questa seconda alternativa considerato che il legislatore ha concesso al debitore un termine di sessanta giorni decorrenti proprio dalla comunicazione della relazione finale dell'esperto per presentare la domanda di concordato semplificato, che ha lo scopo di evitare la dichiarazione di fallimento, per cui bisogna anche che il diritto del debitore di avvalersi della possibilità offertagli sia salvaguardato, prolungando il divieto di dichiarare il fallimento fino alla scadenza di detto termine sebbene la lettera della norma indurrebbe alla soluzione contraria”.

Si verte in un'ipotesi di impedimento d'ordine sostanziale rispetto alle pronunce di fallimento, annoverabile fra le particolari figure di sospensione, “costruita sulla falsariga di quella per pregiudizialità-dipendenza ex art. 295 cpc” (M. Montanari, op. cit., 9, il quale ne precisa la durata e la ratio: “per tutto il tempo in cui sia in atto il tentativo, per il tramite della composizione negoziata, di superare lo stato di crisi in cui versa l'imprenditore, è fatto divieto al giudice di certificare formalmente quello stato con il provvedimento di apertura di una procedura liquidatoria che quel tentativo inesorabilmente vanificherebbe”).

Quanto illustrato vale allo scopo di rendere effettivo il “principio generale della prevenzione o, per meglio dire, della prevalenza del concordato sul fallimento, la cui vigenza, come statuito dalle Sezioni Unite (15 maggio 2015, n. 9936, nda), è ricavabile dal sistema, il quale attribuisce al concordato preventivo la funzione di prevenire - appunto - il fallimento attraverso una soluzione alternativa basata sull'accordo del debitore con la maggioranza dei creditori. Ad eguali conclusioni può pervenirsi nel caso l'istanza di fallimento sia presentata per la prima volta dopo la chiusura della composizione negoziata” (G. Bozza, op. cit., 28).

Si aggiunge e chiarisce (Montanari, op. cit., 8): “È di solare evidenza come un'eventuale apertura del fallimento o di altra procedura di liquidazione varrebbe automaticamente a decretare la fine dell'esperimento, dianzi promosso, di composizione negoziata per la soluzione della crisi. E poiché non è pensabile che le sorti di quell'esperimento possano essere in balìa delle scelte rimesse al giudice intorno all'operatività e alla durata di una determinata misura protettiva, il legislatore ha stabilito che, una volta calata, la suddetta barriera preclusiva debba tassativamente protrarsi “fino alla conclusione delle trattative o all'archiviazione dell'istanza di composizione negoziata”, con tutto quanto ciò significa, in termini di: a) emancipazione della misura dai limiti temporali di durata di cui all'art. 7, commi 4 e 5; b) sottrazione della stessa ai poteri giudiziali di revoca e abbreviazione della durata di cui al comma 6 dello stesso art. 7; c) insussistenza dell'onere di chiederne la conferma in sede giudiziale ex art. 7, comma 1, non essendovi ragione alcuna per sottoporre al vaglio del giudice una misura su cui lo stesso, per quanto s'è appena visto sub a) e b), non avrebbe modo di interferire.

Il problema era già stato sollevato e affrontato da S. Sanzo, Concordato semplificato e misure protettive: un vuoto normativo nel codice della crisi?, in www.ilFallimentarista.it 20.7.2022, il quale aveva sottolineato come la legge di conversione 147/2021 avesse inserito, all'art. 18, comma 2, ultima parte, un espresso richiamo, tra le altre, alla norma dell'art. 168 l. fall., regolante, come noto, l'effetto protettivo generalizzato (e permanente), tipico del sistema concorsuale tradizionale, che tuttavia nel passaggio al sistema del Codice è venuto meno – per la perduta automaticità dell'automatic stay dovuta alla Direttiva –, per cui “dal 15 luglio 2022, di fatto, chi accede al concordato semplificato rischia di ritrovarsi privo di protezione, anche perché la struttura procedimentale definitiva non prevede l'applicazione ad esso delle norme sul procedimento unitario, le uniche che consentono di fruire, su provvedimento del tribunale, della nuova protezione. È un vuoto che non sarebbe tollerabile, nella misura in cui finirebbe per produrre effetti perfettamente contrari a quelli voluti dal legislatore: anziché favorire la liquidazione concorsuale, infatti, esso la renderebbe sostanzialmente impossibile”.

In tale contesto la soluzione proposta – ma non attuata dal ricorrente nel caso che ci occupa – è l'applicazione in via analogica dell'art. 54 CCII: con istanza anticipata, rispetto alla domanda di omologazione del concordato semplificato, l'imprenditore può chiedere al tribunale l'applicazione delle misure protettive di cui agli artt. 54 e 55 Codice (come effettivamente disposto, in altre vicende, da Tribunale Milano 16.9.2022, in www.ilFallimentarista.it , e da Tribunale Bergamo 12.1.2023, in DC). In tema si v. F. Lamanna, Il Codice della crisi e dell'insolvenza dopo il secondo Correttivo, Milano, 2022, 199 s., il quale evidenzia e lamenta proprio che non si sia “rapporta[ta] la cessazione del blocco della possibilità di dichiarare l'apertura della liquidazione giudiziale al momento di cessazione delle misure protettive”, essendo invece il blocco collegato soltanto alla cessazione delle trattative o all'archiviazione dell'istanza ovvero ancora alla revoca delle misure protettive.

Oggi, con l'entrata in vigore del Codice della crisi, che ha modificato il vecchio art. 6, comma 4, D.L. 118 con l'aggiunta (all'art. 18, comma 4 del D.lgs. 14/2019) dell'inciso “salvo che il tribunale disponga la revoca delle misure protettive”, si è, in sostanza, introdotta un'ipotesi specifica di anticipazione della dichiarazione di apertura della LG. Ma ciò non può essere ritenuto applicabile al caso in commento, atteso che nessuna revoca delle misure protettive si era lì verificata.

In quella fattispecie, peraltro, non è stato chiarito quale fosse la disciplina applicabile, se quella del D.L. 118 o quella del CCII (come sarebbe preferibile, stante l'avvenuta abrogazione della prima disciplina: v. Tribunale Siena 9.9.2022, in www.ilFallimentarista.it ): al riguardo si rinvia alle differenti considerazioni sull'art 46 D.lgs. 83/2022 di A. Pezzano, I Codici della concorsualità, in ilcodicedeiconcordati.it, 4, e di G. Fichera, La transizione verso il Codice della crisi: ancora molte norme da attuare,15.7.2022, in altalex.com).

Sembrano, poi, non agevolmente utilizzabili i suggerimenti “pratici” (cfr. G. D'Attorre, Il concordato semplificato per la liquidazione del patrimonio, in Fall., 2021, 1612) di iniziare a predisporre la documentazione per la presentazione della domanda di concordato semplificato alle prime avvisaglie di infruttuosità delle trattative (suggerimento da prendere in considerazione, ma in dipendenza dal “peso” dei creditori contrari alla prosecuzione, non potendosi sapere in anticipo quando l'esperto chiuderà la CNC), oppure di presentare una domanda di concordato con riserva, cui rinunciare appena pronta la documentazione per presentare, nei sessanta giorni dalla comunicazione della relazione dell'esperto, la domanda di concordato semplificato [sarebbe un abuso dello strumento, che potrebbe attivare l'istanza del PM (v. Cass. civ., sez. I, 7/12/2020, n. 27936; Cass. civ., sez. I, 23/10/2019, n. 27200) e i tribunali ben potrebbero rifiutare la concessione dei termini se strumentale ad altra procedura che non li prevede (a meno di voler tacere nel ricorso in bianco la prossima “virata” verso il concordato semplificato, ma appare comportamento poco commendevole rispetto alla possibilità, sopra esaminata, di chiedere le misure protettive ex art. 54 CCII in via analogica].



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