Quando la condotta di insubordinazione ritenuta riconducibile alle fattispecie tipizzate dalla contrattazione collettiva può giustificare il licenziamento?
07 Giugno 2023
Massima
La nozione di insubordinazione non può essere limitata al rifiuto di adempimento delle disposizioni dei superiori, ricomprendendo essa qualsiasi comportamento atto a pregiudicare l'esecuzione e il corretto svolgimento delle suddette disposizioni nel quadro dell'organizzazione aziendale. Tuttavia, qualora la contrattazione collettiva colleghi l'irrogazione del licenziamento ad una determinata intensità della condotta (“grave”) ed a specifiche azioni (minacce, vie di fatto, etc.), non potrebbe rilevare qualunque comportamento, ma solo quello che, per le sue caratteristiche proprie, si palesi ingiustificatamente in netto contrasto con gli ordini impartiti. Fatto
Il lavoratore agiva in giudizio al fine di ottenere l'annullamento del licenziamento per giusta causa, deducendone l'illegittimità per insussistenza dei fatti contestati e per difetto di proporzionalità della sanzione.
Il Tribunale, accertata l'illegittimità del recesso datoriale, ordinava la reintegrazione del ricorrente con condanna della società convenuta al risarcimento del danno liquidato in 5 mensilità.
La Corte di appello rigettava l'impugnazione della datrice, ritenendo corretta l'esclusione, da parte del giudice di primo, della contestata recidiva, sul rilievo che in epoca antecedente al licenziamento le due sospensioni erano state l'una revocata e l'altra annullata in sede giudiziaria e che, comunque, le varie contestazioni allegate attenevano a violazioni diverse tra loro ed erano pertanto da ritenersi irrilevanti ai fini della contestazione della recidiva. Veniva confermata la sentenza anche nella parte in cui era stato escluso che le condotte del lavoratore potessero essere sussunte nelle fattispecie disciplinari sanzionate con il licenziamento (recte: “grave” insubordinazione, minacce o vie di fatto).
La sentenza veniva impugnata innanzi alla Corte di Cassazione. Ad avviso della società-datrice il giudice di secondo grado avrebbe errato nel ritenere i comportamenti contestati non rilevanti ai fini della valutazione della gravità del comportamento, confondendo la recidiva con la valutazione dell'intensità dell'addebito contestato. La Corte di appello, inoltre, avrebbe erroneamente sussunto i fatti accertati in giudizio in una insubordinazione punibile con una sanzione conservativa, configurando quantomeno un giustificato motivo soggettivo di licenziamento, avuto riguardo alle espressioni ingiuriose utilizzate dal lavoratore nei confronti dei superiori gerarchici. La questione
Quando l'insubordinazione agli ordini dei superiori può giustificare il licenziamento previsto dalla contrattazione collettiva? La soluzione della Corte
I motivi di ricorso sono stati dichiarati inammissibili.
La Corte di Cassazione ha rilevato che, sebbene la società si dolesse della valutazione di gravità della condotta, non era stata impugnata la statuizione con la quale era stato accertato che, ai fini della recidiva giustificante il licenziamento di una condotta normalmente sanzionabile con una misura conservativa, era necessario seguire un procedimento che nella specie non era stato osservato. Sebbene la società-datrice ritenesse che le condotte pregresse avrebbero dovuto essere comunque prese in esame per valutare complessivamente la condotta tenuta dal lavoratore, la Corte di appello aveva fondato la sua decisione su un duplice rilievo: l'insussistenza della recidiva, posto che nessuna sospensione era stata validamente irrogata; la formazione del giudicato sull'accertata mancata adozione della procedura da seguire in caso di recidiva, essendo, inoltre, i precedenti richiamati riconducibili a violazioni diverse.
Il giudice di secondo grado aveva, pertanto, espressamente valutato il fatto e le modalità con le quali la condotta era stata posta in essere anche sotto il profilo dell'impatto nell'ambiente di lavoro circostante, ritenendo che, nel suo complesso, la fattispecie non potesse essere ricondotta alla grave insubordinazione verso i superiori. In tale procedimento di sussunzione, la Corte territoriale era rimasta aderente ai principi dettati dalla giurisprudenza di legittimità. Evidenzia la Suprema Corte, infatti, che, sebbene la nozione di insubordinazione non possa essere limitata al rifiuto di adempimento delle disposizioni dei superiori, ricomprendendo qualsiasi comportamento atto a pregiudicare l'esecuzione e il corretto svolgimento delle suddette disposizioni nel quadro dell'organizzazione aziendale, tuttavia ove la contrattazione collettiva, come nel caso esaminato, ancori l'irrogazione del licenziamento a determinate condotte (minacce, vie di fatto, etc.), non potrebbe rilevare qualunque comportamento, ma solo quello che, per le sue caratteristiche proprie, si palesi ingiustificatamente in netto contrasto con gli ordini impartiti.
Il giudice di appello aveva tenuto conto delle indicazioni contenute nella contrattazione collettiva, qualificando conseguentemente il comportamento del lavoratore come un'insubordinazione non talmente grave da non poter essere altrimenti sanzionata.
La Corte di Cassazione, infine, non ha riscontrato un errore di diritto nella decisione impugnata, non potendosi ritenere connotato da gravità il rifiuto opposto dal dipendente allo svolgimento dei compiti richiesti dai superiori, seppur utilizzando un linguaggio volgare, per ragioni connesse al suo stato di salute. Tale addebito, inoltre, era rimasto l'unico tra quelli contestati ad essere risultato oggettivamente dimostrato. Osservazioni
In linea con l'ormai consolidata giurisprudenza di legittimità, al fine di poter dare contenuto sostanziale alla clausola generale della “giusta causa”, di cui all'art. 2119 c.c., è necessario operare una valutazione complessiva della fattispecie avente rilevanza disciplinare, tenendo conto sia di elementi oggettivi che soggettivi.
Le circostanze fattuali, così come il contesto psicologico nel quale versava il lavoratore, acquistano particolare rilievo nei casi in cui il licenziamento sia stato determinato da espressioni ingiuriose verso il datore stesso o superiori gerarchici, nonché qualora sia stato opposto un rifiuto all'esecuzione delle disposizioni impartite. Non sono rari, infatti, i casi in cui l'insubordinazione del dipendente costituisce una reazione ad una situazione - effettivamente o solo così percepita - ingiusta o provocatoria, il che non può che venire in rilievo nel giudizio di proporzionalità della sanzione.
La legge, così come spesso i codici disciplinari, non forniscono una chiara definizione di insubordinazione, sebbene in sede negoziale non manchino tentativi di precisazione che, in non pochi casi, rischiano di non facilitare il compito dell'interprete. Si fa riferimento, in particolare, a quelle ipotesi in cui l'insubordinazione venga in rilievo come causa giustificante il licenziamento ove essa sia “grave”, con conseguente esclusione di tutte quelle condotte che tali non potrebbero essere definite dal punto di vista sostanziale, così attribuendo rilevanza all'entità della stessa nella graduazione delle sanzioni disciplinari irrogabili.
Il concetto in sé di insubordinazione, d'altronde, in ragione della flessibilità dei suoi confini, è idoneo a ricomprendere al suo interno una molteplicità di comportamenti tra loro eterogenei. Il dato letterale, infatti, evoca una fattispecie descrivibile in termini di contrarietà rispetto alla subordinazione, recte di violazione dei doveri che da quest'ultima scaturiscono, il che ha costituito la base dell'interpretazione seguita dalla Corte di Cassazione anche nel caso oggetto della decisione in commento. Infatti, sebbene il mero rifiuto agli ordini datoriali o dei superiori gerarchici costituisca, indubbiamente, un elemento di rilievo ai fini della qualificazione di una condotta in termini di insubordinazione, il restringimento a tale ipotesi della nozione mal si concilierebbe con la sua potenziale estensibilità nei termini sopra indicati, preferendosi adottare un'ottica più ampia degli obblighi di diligenza e di obbedienza del lavoratore.
La nozione di insubordinazione ha così subito una notevole dilatazione, finendo per ricomprendere qualsiasi altro comportamento volto ad incidere negativamente sul regolare svolgimento della prestazione, sia sotto il profilo del suo adempimento che dell'ordine e della disciplina, alterando in tal modo il vincolo fiduciario tra le parti. ;
In base al significato lessicale del termine, pertanto, l'insubordinazione dovrebbe essere intesa quale sinonimo non solo di disubbidienza a una specifica disposizione, ma anche di ogni altra manifestazione di “insofferenza o di intolleranza”, attuata eventualmente anche con un linguaggio scurrile, con violenza, con minacce o con azioni analoghe, nei confronti del datore e/o dei superiori, in tal modo incidendo sul regolare funzionamento dell'attività lavorativa.
Nonostante non si dubiti dell'incidenza negativa di siffatte condotte sul vincolo fiduciario tra le parti, non sempre è agevole stabilire se, nel caso specifico, il comportamento del dipendente sia sanzionabile con il licenziamento, costituendone esempio il caso in cui il lavoratore, nonostante l'improperio, adempia alle disposizioni impartite dal datore o dai superiori (si veda Tribunale Velletri, sez. lav., 31 gennaio 2023, n.69: ad avviso del giudice non potrebbe parlarsi propriamente di insubordinazione nel caso in cui il lavoratore si sia rivolto a un superiore gerarchico, ancorché utilizzando modi inappropriati, alzando la voce e mostrandosi aggressivo nel lamentare la mancanza di pulizia dei luoghi di lavoro, ma dopo aver verificato le condizioni degli stessi - quindi in modo niente affatto pretestuoso - e, terminata la discussione, abbia reso regolarmente la propria prestazione lavorativa).
Viene in rilievo, dunque, il giudizio prognostico circa la correttezza dei futuri adempimenti del lavoratore: una reazione impulsiva, pur dai toni particolarmente volgari, la quale sia scaturita da un contesto di tensione o da uno stato d'ira, rappresenterebbe un fatto naturale, tipico delle dinamiche relazionali, non implicante ex se una contrapposizione ostile nei confronti delle gerarchie aziendali. Mancherebbe, in tali ipotesi, un fatto idoneo a interrompere il vincolo fiduciario, potendosi ritenere che, in un contesto di normalità, quel particolare comportamento non si sarebbe realizzato.
Rammentata la necessaria considerazione, quale parametro valutativo, della contrattazione collettiva nell'accertamento della proporzionalità del licenziamento ex art. 2119 c.c., nel caso trattato dalla decisione in commento la condotta di insubordinazione del dipendente non è stata ritenuta riconducibile alle fattispecie tipizzate in sede negoziale e giustificanti il licenziamento. Come sopra evidenziato, infatti, il riferimento all'intensità del comportamento (“grave”), nonché l'indicazione di specifiche ipotesi (minacce, vie di fatto, etc.) non avrebbe potuto consentire una interpretazione analogica, limitata ex art. 12 preleggi c.c. ai testi legislativi. Sebbene il giudice non sia strettamente vincolato dalle previsioni contenute nel contratto collettivo, non potrebbe tuttavia discostarsi dalla previsione negoziale che contempli un comportamento come infrazione disciplinare determinante una sanzione conservativa. Deve ritenersi preclusa, infatti, un'autonoma e più grave valutazione della medesima condotta da parte dell'organo giudicante, salvo che si accerti che le parti sociali non avevano inteso escludere, per i casi di maggiore gravità, la possibilità del licenziamento.
Alla luce di quanto sopra è possibile osservare come, in linea generale, l'impiego di nozioni generiche, l'assenza di elencazioni dettagliate ed analitiche delle condotte vietate e delle relative sanzioni, nonché la classificazione dei medesimi comportamenti solo in virtù del loro grado di intensità (grave/lieve), rendono non agevole l'attività di sussunzione e l'accertamento della legittimità della sanzione espulsiva eventualmente applicata. Nel caso in commento, la soluzione adottata dai giudici di merito - e confermata dalla Corte di Cassazione - ha preso le mosse proprio dalla constatazione della previsione negoziale di determinate fattispecie astratte giustificanti il licenziamento e dalla impossibilità di una perfetta sussunzione del caso concreto in esse.
Ciò consente di rilevare che sia la generalità che la (eccessiva?) determinatezza delle fattispecie tipizzate dalle parti sociali ben possa condurre ad una dichiarazione di illegittimità della sanzione espulsiva: nel primo caso in quanto le espressioni generiche o vaghe dovrebbero necessariamente essere coadiuvate da un accertamento della potenzialità effettiva della condotta ad incidere sul rapporto di fiducia tra lavoratore e datore e, nel secondo caso, in ragione della precisione dei comportamenti tipizzati la quale impedirebbe al giudice di operare una valutazione autonoma e più grave della fattispecie concreta. Forse, per una maggiore sicurezza, le parti sociali potrebbero procedere ad una individuazione specifica delle condotte considerate più gravi, precisandone, tuttavia, la portata meramente esemplificativa, assicurando in tal modo anche in fase contenziosa il giudizio valoriale operato in sede negoziale. Per approfondire
S. Battistelli, la dilatazione della nozione di insubordinazione nel contesto social, in Riv. dir. lav., 2022, 1, 8 ss.
P. Bernardo, Ancora sul concetto di insubordinazione quale giusta causa di licenziamento, in Dir. rel. ind., 2020, 4, 1147 ss.
L. Cairo, Licenziamento disciplinare: previsioni del contratto collettivo e concetto di insubordinazione, in Lav. giur., 2017, n. 11, 976 ss.
M. Nicolosi, Insubordinazione del lavoratore, licenziamento illegittimo e rimedi esperibili, in Giur. it., 2017, n. 1, p. 142 ss.
C. Carchio, Violazione dei doveri di correttezza e buona fede e licenziamento per insubordinazione, in Arg. dir. lav., 2017, 1, 159 ss.
M. Nicolosi, Giusta causa e giustificato motivo di licenziamento e insubordinazione - insubordinazione del lavoratore, licenziamento illegittimo e rimedi esperibili, in Giur. it., 2017, 1, 142 ss.
M. Del Frate, Le ingiurie al superiore gerarchico come giusta causa di licenziamento, in Riv. it. dir. lav., 2015, 2, 403 ss.
M.G. Mattarolo, Il dovere di obbedienza, in C. Cester, M.G. Mattarolo, Diligenza e obbedienza del prestatore di lavoro. Art. 2104, Milano, 2007, 505 ss.
M. Grandi, Riflessioni sul dovere d'obbedienza nel rapporto di lavoro subordinato, in Arg. dir. lav., 2004, 725 ss.
M.L. Vallauri, Espressioni ingiuriose, abitudini lessicali e giusta causa di licenziamento. Alcune osservazioni sulla natura di giusta causa e giustificato motivo, in Riv. it. dir. lav., 2001, 2, 112 ss.
F. Bano, Quando l'aggressione ai danni del superiore gerarchico non è insubordinazione, in Riv. it. dir. lav., 1999, n. 4, II, 832 ss. |