La nuova regolamentazione del lavoro sportivo alla luce della crescente rilevanza del dilettantismo e della centralità dell'atleta nell'ecosistema sportivo

Lorenzo Vittorio Caprara
14 Giugno 2023

La crescita economica del comparto sport, la sempre maggiore rilevanza del dilettantismo nel nostro Paese e la centralità dell'atleta nell'ecosistema sportivo hanno reso indispensabile un riordino della disciplina del lavoro sportivo. Tale materia è stata fortemente impattata dal Decreto legislativo n. 36/2021, come modificato dal Decreto legislativo n. 163/2022, avente ad oggetto il riordino e la riforma delle disposizioni in materia di enti sportivi professionistici e di lavoro sportivo. Partendo da una breve disamina degli impatti macroeconomici del settore sport in Italia e fornendo alcune dimensioni economiche relative alla accresciuta rilevanza del ruolo degli atleti e del settore dilettantistico, il presente contributo intende analizzare le principali novità introdotte dal Decreto legislativo n. 36/2021 - e dal suo correttivo – con riferimento alla nuova figura del lavoratore sportivo.
I numeri dello sport e del calcio in Italia

La rilevanza dell'industria sportiva in Italia ha visto una crescita esponenziale nel corso degli ultimi dieci anni. Oltre 35 milioni di italiani seguono almeno uno sport e 15,5 milioni lo praticano regolarmente. Si stima che nel 2022 il valore complessivo dello sport in Italia ammonterebbe a 78,8 miliardi di euro, pari al 3% del PIL nazionale.

Tali numeri sono trainati nel nostro Paese dal calcio che, oltre ad essere lo sport più praticato, con una percentuale del 34% tra gli over 18, è quello più seguito e quello che più beneficia dei contributi pubblici. Basti pensare che nel 2021 il 55% della popolazione maggiorenne si dichiarava interessata a questo sport (un 7% in più rispetto al 48% della media europea), per un totale pari a circa 27,4 milioni di persone.

Il calcio rappresenta un comparto economico in grado di coinvolgere 12 diversi settori merceologici nella sua catena di attivazione di valore, con un impatto indiretto e indotto sul PIL italiano pari 10,2 miliardi di euro e oltre 112.000 posti di lavoro attivati. Si tratta di numeri comunque lontani dai 39 miliardi generati dallo sport nel Regno Unito, dove però nel solo calcio i club della massima serie inglese hanno fatturato nel 2021 circa 5,52 miliardi di euro, ossia più del doppio della Serie A italiana. Di questi, 4,08 miliardi derivano dalla sola vendita dei diritti televisivi, quasi quattro volte il valore registrato dalla vendita dei diritti televisivi della Serie A nello stesso periodo di riferimento (pari a 1,17 miliardi di euro).

Tale crescita ha determinato la necessità di un'evoluzione anche dell'impalcatura giuridica dello sport e in particolare della normativa che regola la gestione del fenomeno sportivo con particolare riferimento agli attori principali dell'ecosistema sportivo, gli atleti.

La centralità e la gestione degli atleti nel modello europeo e nordamericano

È evidente come l'ecosistema dello sport veda al suo centro la figura dell'atleta, come esplicitamente affermato dallo stesso Comitato Olimpico Internazionale (di seguito, il “CIO”). Per il CIO gli atleti sono sul campo gli attori centrali della competizione sportiva in quanto modelli che ispirano milioni di persone in tutto il mondo a partecipare allo sport e emblemi degli ideali olimpici. Fuori dal campo, gli atleti hanno la capacità di promuovere i valori dello sport per abbracciare un numero più ampio possibile di sostenitori e di trainare l'industria dello sport e dell'intrattenimento con la loro influenza e lo sviluppo dei loro brand personali.

Per comprendere la rilevanza di questi attori per l'ecosistema, basti pensare che, per la stagione 2020/2021 – fortemente impattata dalla pandemia – il rapporto medio tra salari e ricavi dei club di Serie A era pari all'82%. Tale percentuale si elevava addirittura sino al 98% con riferimento ai club francesi della Ligue 1. In Inghilterra il valore si attestava sul 71%.

Considerando poi il valore economico attribuito all' acquisizione dei diritti pluriennali alle prestazioni dei calciatori – che costituiscono una posta patrimoniale attiva di natura immateriale a carattere pluriennale – spesso tale valore è talmente ingente da sfiorare un quarto dei ricavi complessivi di un club. È peraltro interessante notare come alcuni atleti abbiano una rilevanza maggiore delle loro organizzazioni sportive per quel che riguarda il loro seguito sui social media. Inoltre, anche fuori dal mondo degli sport che in Italia rientrano nella categoria del professionismo, ad esempio nel tennis, gli atleti continuano a mantenere un ruolo economicamente centrale.

Oltreoceano le profittevoli leghe americane fondano il loro funzionamento su una gestione sui generis degli atleti che prevede meccanismi e istituti volti alla crescita e ad una maggiore competitività del sistema quali: il draft, la struttura dei college athletics contrapposta ai nostri settori giovanili, la creazione di associazioni di atleti dotati di un forte potere negoziale e la sottoscrizione di contratti collettivi che regolano gran parte dei rapporti sussistenti tra leghe, franchigie e atleti. Peraltro, alcuni contratti collettivi sottoscritti dalle leghe americane prevedono meccanismi di contenimento dei costi (ad esempio il salary cap) volti a contenere entro il 50% il rapporto tra salari e ricavi.

Tuttavia, anche in Europa le legislazioni giuslavoristiche in punto di gestione del lavoro sportivo sono estremamente frammentate, con il lavoratore sportivo che viene talvolta assimilato a un lavoratore autonomo (ad esempio in Repubblica Ceca) e altre volte viene considerato un lavoratore subordinato. È interessante notare come la FIFPRO (Fédération Internationale des Associations de Footballeurs Professionnels) sul proprio sito web sancisca che “ogni calciatore è a tutti gli effetti un lavoratore full-time”. Senza voler entrare nel merito della precisione e della ragionevolezza di tale asserzione, merita comunque una riflessione la considerazione secondo cui non potrebbe, per la FIFPRO, esistere alcuna altra forma di lavoro se non quella della subordinazione per regolare i rapporti di lavoro dei calciatori. Inoltre, sempre in ambito internazionale, la Commissione Europea, con Comunicazione IP/01/314 del 5 marzo 2001, ha riconosciuto quale regola generale quella della sussistenza di un rapporto di lavoro in presenza di un contratto scritto con una società sportiva a fronte di un compenso superiore alle spese effettivamente sostenute. Ciò è peraltro ribadito all'articolo 1, comma 1, delle FIFA Regulations on Status and Transfer of Players, secondo cui “A professional is a player who has a written contract with a club and is paid more for his footballing activity than the expenses he effectively incurs. All other players are considered to be amateurs”.

Ciononostante, nel nostro ordinamento la scelta che è stata fatta dal legislatore del 1981 è stata quella di limitare la presunzione di lavoro subordinato sportivo ai soli atleti cosiddetti “professionisti”.

L'impianto normativo della legge n. 91/1981

Nel nostro ordinamento la disciplina del rapporto di lavoro instaurato dal lavoratore subordinato sportivo si differenzia sotto molteplici aspetti da quella che è la disciplina comune applicabile al lavoratore subordinato non sportivo. Già in quella che è la legge principe sul rapporto di lavoro dello sportivo professionista, ovverosia la Legge n. 91/1981, veniva fornito un elenco, che la dottrina ha ritenuto essere non tassativo, di norme che, pur applicandosi al lavoratore comune, non trovavano applicazione nei confronti del lavoratore subordinato sportivo professionista. Più in particolare, la norma disponeva che: “Ai contratti di cui al presente articolo non si applicano le norme contenute negli articoli 4, 5, 13, 18, 33, 34 della legge 20 maggio 1970, n. 300, e negli articoli 1, 2, 3, 5, 6, 7, 8 della legge 15 luglio 1996, n. 604. Ai contratti di lavoro a termine non si applicano le norme della legge 18 aprile 1962, n. 230.”

L'ordinamento rinviava infatti verso l'ordinamento sportivo per quanto riguarda la determinazione delle condizioni di appartenenza alla categoria dei dilettanti o dei professionisti. I requisiti e le modalità di acquisizione dello status di professionista erano – e sono - infatti determinati esclusivamente dall'articolo 2, rubricato per l'appunto “Professionismo sportivo”, della Legge n. 91/1981. Tale Legge, comunque, non si riferiva unicamente all'attività sportiva professionistica. La ratio di una tale scelta è parsa consistere nella volontà da parte del legislatore di ribadire che “l'organizzazione e la regolamentazione dell'attività sportiva in genere e di quella professionistica in particolare non è prerogativa esclusiva del C.O.N.I. e delle federazioni sportive nazionali nella sfera dell'ordinamento statale che, pure regolando con la legge in esame lo sport professionistico svolto in seno a tale organizzazione, riconosce la libertà di organizzarlo e praticarlo al di fuori della stessa”.

L'articolo 2 della Legge n. 91 si occupava di definire l'ambito soggettivo di applicazione della disciplina in esame. La disposizione definiva chi fossero i destinatari delle norme disposte agli articoli seguenti. Contrariamente a quanto ritenuto da una parte, a dire il vero minoritaria, della dottrina e da parte della giurisprudenza di legittimità, l'elenco di cui all'articolo 2 non era da considerarsi un elenco tassativo bensì meramente indicativo dei soggetti più frequenti, senza perciò estromettere dall'applicazione della norma altre figure eventualmente previste dagli ordinamenti federali.

La norma disponeva che “ai fini dell'applicazione della presente legge, sono sportivi professionisti gli atleti, gli allenatori, i direttori tecnico-sportivi ed i preparatori atletici, che esercitano l'attività sportiva a titolo oneroso con carattere di continuità nell'ambito delle discipline regolamentate dal CONI e che conseguono la qualificazione dalle federazioni sportive nazionali, secondo le norme emanate dalle federazioni stesse, con l'osservanza delle direttive stabilite dal CONI per la distinzione dell'attività dilettantistica da quella professionistica”.

La norma richiedeva dunque la sussistenza di tre requisiti ai fini della qualificazione dell'attività sportiva come attività di carattere professionistica: la continuità, l'onerosità e il conseguimento della suddetta qualificazione dalle federazioni sportive nazionali. Questo ultimo requisito acquistava una fondamentale importanza poiché, rimettendo alle federazioni nazionali l'autorità di concedere la qualifica di “sport professionistico” a una determinata attività ed elevando tale concessione a presupposto legale del contratto tra atleta e società sportiva, veniva sancito il preminente ruolo delle federazioni sportive nell'ordinamento. Inoltre, giova menzionare come il C.O.N.I., nel rimettere alla discrezionalità delle singole federazioni sportive nazionali l'istituzione del settore professionistico, si sia limitato a stabilire due sole condizioni: la notevole rilevanza economica del fenomeno e il riconoscimento del settore professionistico da parte della rispettiva federazione internazionale.

Questa norma è stata ritenuta il trait d'union fra ordinamento sportivo e ordinamento dello Stato in quanto consentiva all'ordinamento sportivo di permeare l'ordinamento ordinario con i propri regolamenti.

Altra ratio della norma, era quella di sancire in modo chiaro e definitivo la distinzione tra professionismo e dilettantismo, lasciando alle federazioni sportive la competenza di escludere una determinata attività dall'alveo del professionismo al ricorrere di determinate circostanze.

In virtù dell'applicazione della detta disposizione, la Legge n. 91 risultava dunque inapplicabile a tutti quegli sport privi di una regolamentazione del proprio settore professionistico, stante la necessità di un conferimento da parte della federazione della qualifica di professionismo. Tali discipline sportive continuavano dunque a essere regolate dalle norme sul dilettantismo. Ad oggi, le federazioni sportive che sono caratterizzate da un settore professionistico sono: la F.I.G.C. (Federazione Italiana Giuoco Calcio), dal 2022 anche con riferimento alla Divisione Calcio Femminile; la F.C.I. (Federazione Ciclistica Italiana); la F.I.G. (Federazione Italiana Golf); la F.I.P. (Federazione Italiana Pallacanestro) e la F.P.I. (Federazione Pugilistica Italiana). Inizialmente, come disposto dalla delibera del C.O.N.I. n. 469 del 2 marzo 1988, le federazioni che riconoscevano il professionismo erano una in più, in quanto vi rientrava anche la F.M.I. (Federazione Motociclistica Italiana), prima di decidere di chiudere il settore professionistico nel 2011.

Dalla lettura dell'articolo 2, si rilevava un ulteriore elemento di comunanza caratterizzante i soggetti appartenenti alla categoria descritta, ovverosia “il concorso diretto della loro attività al conseguimento del miglior risultato sportivo”. Ciò consentiva di poter distinguere i soggetti della Legge n. 91 da altre “figure professionali” che, sebbene legate da un contratto con il club, esercitano attività non strettamente connesse all'attività sportiva agonistica. Rientravano in questa ultima categoria i massaggiatori, i medici sportivi, i match analyst e altri impiegati al servizio dell'impresa sportiva. Ciò è stato peraltro sottolineato da una pronuncia della Suprema Corte che ha categoricamente escluso i massaggiatori dai soggetti a cui si applica la Legge n. 91.

La crescente rilevanza del dilettantismo

Fermo tutto quanto sopra, per lungo tempo i rapporti di lavoro sportivo di natura non professionistica sono rimasti privi di una chiara, univoca e omnicomprensiva disciplina giuslavoristica. In particolare, tali rapporti sono stati rimessi a disposizioni di esclusivo rilievo endoassociativo sportivo.

Da un punto di vista fiscale poi, pur non volendoci soffermare estensivamente in questa sede, è opportuno notare che con le leggi n. 1986 e 342/2000 il legislatore ha disciplinato esclusivamente la collocazione fiscale del compenso sportivo dilettantistico, senza occuparsi dell'aspetto più prettamente contrattualistico. La dottrina ha ritenuto tale scelta determinata dall'esigenza di proteggere la cosiddetta utilità sociale della prestazione sportiva in un ambito apparentemente di limitata portata economica. Invero, oggi tale argomentazione non può più trovare pregio alla luce della sempre maggiore rilevanza del dilettantismo nel nostro Paese. Secondo Sport e Salute S.p.A., a marzo 2021 circa duecentomila lavoratori operavano in Italia, a vario titolo, nello sport dilettantistico.

Nella stagione 2014-2015 il calcio dilettantistico e giovanile in Italia ha prodotto un fatturato aggregato di 913,3 milioni di euro; le spese totali hanno invece raggiunto i 919,9 milioni di euro. Le voci di ricavo di maggiore rilevanza erano le entrate derivanti da contributi, offerte, donazioni, lasciti testamentari e liberalità che incidevano per il 54% dei ricavi totali, per un valore aggregato pari a 493,5 milioni di euro. I ricavi da contratti di pubblicità e sponsorizzazioni ammontavano invece a 470,5 milioni. Altri ricavi erano rappresentati dai proventi derivanti dalla vendita di beni e servizi, che incidono per il 26,5% del totale (242,4 milioni di euro), con un significativo impatto derivante dalle iscrizioni alla scuola calcio (10,5% dei ricavi totali), mentre la vendita di biglietti e abbonamenti producevano circa 34 milioni di euro (3,8% del fatturato totale). I contributi annui di soci, proprietari o altri soggetti incidevano per l'8,7% dell'aggregato.

Venendo ai costi, il 44,8% dell'ammontare complessivo era rappresentato dagli oneri e dalle spese sostenute per i collaboratori (per un totale di 412,4 milioni di euro, di cui quasi il 60% relativo al pagamento dei compensi e dei rimborsi spese). L'incidenza delle spese e degli oneri sostenuti per i dipendenti era di circa l'1%, mentre la voce relativa ai rimborsi spese per i volontari era pari al 3,8% del totale. L'acquisto di beni e servizi pesava per il 34,7%, mentre gli oneri tributari sono pari a 37,9 milioni, con un'incidenza di poco superiore al 4%.

Inoltre, con riferimento alla stagione 2020-2021, 9.124 società di calcio dilettantistico (per un totale di 13.393 squadre) hanno preso parte alla Lega Nazionale Dilettanti che contava 5.727 tecnici, 191.013 dirigenti e 336.965 calciatori tesserati. La pandemia ha provocato una significativa riduzione nel numero dei calciatori tesserati (-5,8% nel calcio a 11 maschile, -17,4% nel calcio a 5 maschile, - 29,6% SGS maschile). Inoltre, tra il 2019-2020 e il 2020-2021, 610 giovani calciatori formati da società di calcio giovanile o dilettantistico sono riusciti ad accedere al calcio professionistico.

Ad ogni modo, sino ad oggi per tutte quelle attività sportive agonistiche in settori ove non era riconosciuto il professionismo dalla federazione competente, e che dunque risultavano essere attività dilettantistiche a cui non si applica la Legge n. 91, dottrina e giurisprudenza hanno ricorso a lungo alla figura del cosiddetto “professionismo di fatto”, applicando l'articolo 2126 delcodice civile sulle prestazioni di fatto. Ancora, altra parte della giurisprudenza ha ritenuto che tale rapporto dovesse essere considerato un rapporto di lavoro parasubordinato di cui all'articolo 409 n. 3 del codice di procedura civile.

Lo scopo del presente scritto è quello di indagare come la riforma del lavoro sportivo, le cui norme in materia di lavoro sportivo dovrebbero entrare in vigore il 1֯ luglio 2023, modificherà l'impalcatura giuridica definita dalla Legge n. 91/1981 provvedendo a fornire una nuova e più ampia definizione di lavoro sportiva. Tale definizione non sarà più legata esclusivamente alla categoria del professionismo – de facto demandando ai regolamenti federali di definirne i confini di applicazione – ma alla natura stessa dell'attività svolta dagli attori dell'ecosistema sportivo.

La riforma dello sport

Il 28 febbraio del 2021 è stato promulgato il Decreto Legislativo n. 36 allo scopo di dare attuazione alla delega conferita al Governo dall'articolo 5 della Legge n. 86/2019. Come evidenziato nei lavori preparatori della legge delega, lo scopo della norma era quello di “garantire l'osservanza dei principi di parità di trattamento e di non discriminazione nel lavoro sportivo, sia nel settore dilettantistico sia nel settore sport professionistico, e di assicurare la stabilità e la sostenibilità del sistema dello sport”.

Il decreto n. 36/2021 è stato da ultimo modificato con il Decreto Legislativo n. 163 del 5 ottobre 2022 (il cosiddetto “Decreto Correttivo”) che, consistendo di 31 articoli, ha modificato altrettanti articoli del decreto n. 36/2021 prevedendo disposizioni recanti, inter alia, modifiche al regime contributivo e fiscale dei lavoratori sportivi e chiarendo la distinzione tra l'area del professionismo e l'area del dilettantismo, in particolare attraverso l'introduzione di una specifica disciplina del rapporto di lavoro sportivo nell'area del dilettantismo. Inoltre, il Decreto Correttivo ha provveduto ad ampliare la nozione di lavoratore sportivo, portandola a ricomprendere anche ogni lavoratore tesserato che svolge, verso un corrispettivo, le mansioni rientranti tra quelle necessarie per lo svolgimento di attività sportiva, con esclusione di quelle aventi carattere amministrativo-gestionale.

Il nuovo testo del Decreto legislativo n. 36/2021 (di seguito, il “Decreto”) tenta di strutturare il lavoro sportivo distinguendo la figura del lavoratore sportivo autonomo (all'articolo 25 del Decreto), quella del lavoratore subordinato sportivo (articoli 25 e 26 del Decreto), quella del lavoratore sportivo in ambito professionistico (articolo 27 del Decreto) - a cui continuerà ad essere applicata la disciplina della Leggen. 91/1981 – e quella del dilettante (articolo 28 del Decreto). Inoltre, il legislatore contrappone alla figura del lavoratore sportivo quella del volontario sportivo (articolo 29 del Decreto).

In aggiunta a tutto quanto sopra, giova menzionare come l'articolo 30 del Decreto provveda a legittimare la stipulazione di contrati di apprendistato – purché esclusivamente con “giovani atleti” – e come l'articolo 31 abolisca definitivamente il cosiddetto “vincolo sportivo”. Sebbene tali interventi legislativi siano da ritenersi di indubbia rilevanza per il nuovo impianto normativo sportivo, lo scrivente intende rimettere a futura trattazione la disamina di tali novità.

La nuova figura del lavoratore sportivo

Come detto, ciò su cui si intende soffermare l'attenzione in questa sede è la costituzione della nuova figura del lavoratore sportivo e la declinazione delle sue caratteristiche alla luce del nuovo impianto normativo. In particolare, l'articolo 25 del Decreto, al comma 1, sancisce che: “È lavoratore sportivo l'atleta, l'allenatore, l'istruttore, il direttore tecnico, il direttore sportivo, il preparatore atletico e il direttore di gara che, senza alcuna distinzione di genere e indipendentemente dal settore professionistico o dilettantistico, esercita l'attività sportiva verso un corrispettivo. È lavoratore sportivo anche ogni tesserato, ai sensi dell'articolo 15, che svolge verso un corrispettivo le mansioni rientranti, sulla base dei regolamenti dei singoli enti affilianti, tra quelle necessarie per lo svolgimento di attività sportiva, con esclusione delle mansioni di carattere amministrativo-gestionale.”

Con tale previsione normativa il legislatore ha dunque voluto superare i limiti soggettivi dell'articolo 2 della Legge n. 91/1981 delimitando il campo di applicazione delle nuove norme protettive a tutti quei soggetti che traggono una fonte di reddito personale dalla propria prestazione sportiva.

Il comma 2, precisa poi che: “Ricorrendone i presupposti, l'attività di lavoro sportivo può costituire oggetto di un rapporto di lavoro subordinato o di un rapporto di lavoro autonomo, anche nella forma di collaborazioni coordinate e continuative ai sensi dell'articolo 409, comma 1, n. 3del codice di procedura civile”.

Ne consegue che, a differenza di quanto fatto nel 1981, il legislatore non ha voluto imporre una forma contrattuale vincolata ma ha optato per un rinvio alle classi definitorie generali del diritto del lavoro ordinario.

In materia di certificazione dei contratti di lavoro poi, il comma 3 sottolinea che “Ai fini della certificazione dei contratti di lavoro, gli accordi collettivi stipulati dalle Federazioni Sportive Nazionali, dalle Discipline Sportive Associate, anche paralimpiche, e dalle organizzazioni comparativamente più rappresentative, sul piano nazionale, delle categorie di lavoratori sportivi interessate possono individuare indici delle fattispecie utili ai sensi dell'articolo 78 del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276. In mancanza di questi accordi, si tiene conto degli indici individuati con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri o dell'Autorità politica da esso delegata in materia di sport da adottarsi, di concerto con il Ministro del lavoro e delle politiche sociali, entro 9 mesi dall'entrata in vigore del presente decreto.”

L'articolo 26 disciplina poi in concreto il lavoro subordinato sportivo, richiamando la non applicazione, inter alia, di alcune di quelle norme dello Statuto dei Lavoratori e della Legge n. 604/1966 che già la Legge n. 91/1981 escludeva dalla disciplina del lavoratore subordinato sportivo professionista.

L'articolo 27 disciplina il lavoro sportivo prestato nei settori professionistici, disponendo al comma 1 che esso è regolato dalle norme contenute nel Titolo V del Decreto (i.e. gli articoli da 25 a 42), salvo quanto diversamente disciplinato dai successivi commi dello stesso articolo 27. In particolare, al comma 2 si dispone che “Nei settori professionistici, il lavoro sportivo prestato dagli atleti come attività principale, ovvero prevalente, e continuativa, si presume oggetto di contratto di lavoro subordinato.” Prosegue poi il comma 3 sancendo che: “Esso costituisce, tuttavia, oggetto di contratto di lavoro autonomo quando ricorra almeno uno dei seguenti requisiti: a) l'attività sia svolta nell'ambito di una singola manifestazione sportiva o di più manifestazioni tra loro collegate in un breve periodo di tempo; b) lo sportivo non sia contrattualmente vincolato per ciò che riguarda la frequenza a sedute di preparazione o allenamento; c) la prestazione che è oggetto del contratto, pur avendo carattere continuativo, non superi otto ore settimanali oppure cinque giorni ogni mese ovvero trenta giorni ogni anno”. I successivi commi 4 e 5 disciplinano poi la forma scritta del contratto a pena di nullità – nelle forme del contratto tipo predisposto dalla federazione, dalla disciplina sportiva associata, e dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative, sul piano nazionale, delle categorie di lavoratori sportivi interessate, conformemente all'accordo collettivo stipulato – e l'obbligo di depositare il contratto presso la federazione sportiva nazionale o la disciplina sportiva associata per l'approvazione.

Infine, l'articolo 28, introdotto per effetto del Decreto Correttivo e rubricato “Rapporto di lavoro sportivo nell'area del dilettantismo”, disciplina specificamente il lavoro sportivo prestato nell'area del dilettantismo precisando come anch'esso sia regolato dalle disposizioni contenute nel Titolo V, salvo quanto diversamente disposto dallo stesso articolo 28. In particolare, la norma dispone che, nell'area del dilettantismo, “il lavoro sportivo si presume oggetto di contratto di lavoro autonomo, nella forma della collaborazione coordinata e continuativa, quando ricorrono i seguenti requisiti nei confronti del medesimo committente: a) la durata delle prestazioni oggetto del contratto, pur avendo carattere continuativo, non supera le diciotto ore settimanali, escluso il tempo dedicato alla partecipazione a manifestazioni sportive; b) le prestazioni oggetto del contratto risultano coordinate sotto il profilo tecnico-sportivo, in osservanza dei regolamenti delle Federazioni sportive nazionali, delle Discipline sportive associate e degli Enti di promozione sportiva.” I commi 3 e 4 forniscono poi alcune indicazioni relative alla necessaria comunicazione al Registro delle attività sportive dilettantistiche i dati necessari all'individuazione del rapporto di lavoro sportivo; all'obbligo di tenuta del libro unico del lavoro per le collaborazioni coordinate e continuative.

Il volontario sportivo

Nel quadro proposto ai paragrafi che precedono è reso evidente come nel nuovo impianto normativo rimarrebbero tuttavia ancora privi di una disciplina propria le prestazioni sportive dei volontari. A tali prestazioni è dedicato l'articolo 29 del Decreto, precedentemente rubricato “Prestazioni sportive amatoriali” e ora denominato “Prestazioni sportive dei volontari”.

Non vi è dubbio che tali prestazioni siano da considerarsi di particolare importanza in virtù della funzione che esse svolgono nel contesto sociale. Infatti, è proprio in questo tipo di prestazioni che si concretizzano gli obiettivi dello sport, tra cui, a mero scopo esemplificativo, il mantenimento e miglioramento dello stato di salute, lo spirito di competizione, la passione, il divertimento e la promozione di valori quali il rispetto, la collaborazione, l'integrazione, la disciplina e la costanza. Ciò è reso ancor più evidente nel contesto delle attività dei volontari se consideriamo che tali prestazioni vengono rese senza scopo di lucro.

In tal senso, il comma 1 dell'articolo 29 del Decreto dispone che: “Le società e le associazioni sportive, le Federazioni Sportive Nazionali, le Discipline Sportive Associate e gli Enti di Promozione Sportiva (anche paralimpici, il CONI, il CIP e la società Sport e salute S.p.a.), possono avvalersi nello svolgimento delle proprie attività istituzionali di volontari che mettono a disposizione il proprio tempo e le proprie capacità per promuovere lo sport, in modo personale, spontaneo e gratuito, senza fini di lucro, neanche indiretti, ma esclusivamente con finalità amatoriali. Le prestazioni dei volontari sono comprensive dello svolgimento diretto dell'attività sportiva, nonché della formazione, della didattica e della preparazione degli atleti”.

Il comma 2 precisa che “Le prestazioni sportive dei volontari di cui al comma 1 non sono retribuite in alcun modo nemmeno dal beneficiario. Per tali prestazioni sportive possono essere rimborsate esclusivamente le spese documentate relative al vitto, all'alloggio, al viaggio e al trasporto sostenute in occasione di prestazioni effettuate fuori dal territorio comunale di residenza del percipiente. Tali rimborsi non concorrono a formare il reddito del percipiente”.

Il comma 3 precisa poi che “Le prestazioni sportive di volontariato sono incompatibili con qualsiasi forma di rapporto di lavoro subordinato o autonomo e con ogni altro rapporto di lavoro retribuito con l'ente di cui il volontario è socio o associato o tramite il quale svolge la propria attività sportiva”.

Fermo tutto quanto sopra, a far data dal 1֯ luglio 2023, allo scopo di valutare se la prestazione di un volontario sia genuina, occorrerà verificare caso per caso la reale volontà contrattuale delle parti e lo schema di svolgimento della prestazione, non essendo più sufficiente il mero status giuridico dilettantistico ad escludere la natura di lavoro subordinato sportivo di una prestazione.

Riflessioni conclusive

Dal nuovo quadro normativo emerge dunque una rinnovata sensibilità da parte del legislatore nei confronti della figura del lavoratore sportivo, inteso non più esclusivamente come un “professionista” – la cui qualifica dipendeva e dipende dalla federazione di appartenenza – ma come un individuo che esercita l'attività sportiva verso un corrispettivo. Tale decisione risulta ancor più ragionevole se consideriamo che negli anni un numero molto limitato di federazioni ha optato per il passaggio al professionismo. Ma vi è di più, il legislatore si è spinto oltre considerando lavoratore sportivo anche ogni tesserato, che svolge verso un corrispettivo mansioni necessarie per lo svolgimento di attività sportiva, fermo restando l'esclusione delle mansioni di carattere amministrativo-gestionale. Si è inteso dunque dare una nuova dignità anche a quelle attività che rientrano nell'alveo del dilettantismo e ciò è stato reso ancor più evidente dalle novità introdotte con il Decreto Correttivo.

In ogni caso, appare altresì ragionevole la scelta del legislatore di non intervenire in maniera eccessivamente disgregante isolando ovvero escludendo le federazioni dalla potestà di definire autonomamente la qualificazione o meno delle attività svolte dai propri federati come attività professionistica o meno. Tale scelta si riflette nei testi degli articoli 26 e 27 che, oltre a ricalcare (alcune) deroghe già previste per il lavoratore subordinato sportivo dalla Legge n. 91/1981 rispetto alla disciplina ordinaria, sanciscono una presunzione di subordinazione del lavoro sportivo prestato dagli atleti nei settori professionistici ove esso costituisca attività principale e continuativa, senza attingere la facoltà delle federazioni di riconoscere o meno il professionismo all'interno della propria disciplina sportiva.

Alla luce di tutto quanto sopra, non stupisce che pur essendo il Decreto rubricato come norma di “riordino e riforma delle disposizioni in materia di enti sportivi professionistici e dilettantistici, nonché di lavoro sportivo”, gran parte del testo viene dedicata a regolare i rapporti di lavoro instaurati dall'attore principale del sistema sport, l'atleta, che sia un professionista, un dilettante o un volontario, a sottolineare la centralità di questa figura per l'intero ecosistema.

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