Lavoro pubblico contrattualizzato: sulla decorrenza della prescrizione per l'anzianità di servizio maturata prima della stabilizzazione del rapporto

14 Giugno 2023

Con l'ordinanza interlocutoria del 28 febbraio 2023, n. 6051, la Sezione Lavoro della S.C. ha rimesso all'attenzione delle Sezioni Unite alcune delle questioni al momento dibattute in tema di decorrenza della prescrizione nel settore del pubblico impiego contrattualizzato. In particolare, oltre ad affrontare nello specifico l'ipotesi della reiterazione di contratti a termine seguiti dalla stabilizzazione del rapporto, la Corte più in generale ricostruisce e confronta il regime normativo sulla decorrenza dei crediti retributivi rispettivamente applicato nei due ambiti di lavoro, pubblico e privato, adoperandosi al fine di addivenire nell'attuale contesto socio-economico ad una disciplina uniforme.
Massima

Occorre rimettere gli atti al Primo Presidente, affinché valuti l'opportunità di assegnare la trattazione e la decisione del ricorso alle Sezioni Unite, per la soluzione delle seguenti questioni: a) se la prescrizione dei crediti retributivi dei lavoratori nel pubblico impiego contrattualizzato debba decorrere dalla fine del rapporto di lavoro, a termine o a tempo indeterminato o, in caso di successione di rapporti, dalla cessazione dell'ultimo, come accade nel lavoro privato; b) se, nell'eventualità di abuso nella reiterazione di contratti a termine, seguita dalla stabilizzazione presso la stessa p.a. datrice di lavoro, la prescrizione dei crediti retributivi dei lavoratori nel pubblico impiego contrattualizzato debba decorrere dal momento di tale stabilizzazione; c) se la prescrizione dei crediti retributivi dei lavoratori nel pubblico impiego contrattualizzato, nell'ipotesi sub b), sia comunque preclusa, interrotta o sospesa ove la p.a. neghi il riconoscimento del servizio pregresso dei dipendenti.

Il caso

Un dipendente INAIL, già ricercatore sulla scorta di successivi contratti a tempo determinato presso l'ente incorporato ISPESL, ricorre al giudice del lavoro chiedendo che venga accertato il suo diritto all'inquadramento in fascia stipendiale superiore, che ritiene di aver maturato considerando, per intero, il periodo di lavoro a tempo determinato precedente la stabilizzazione del rapporto disposta ex art. 1, comma 519, legge n. 296/2006.

La domanda è finalizzata alla condanna del datore di lavoro a ricostruire l'anzianità di servizio ed a corrispondere al lavoratore le conseguenti differenze retributive, maturate e maturande.

Il Tribunale accoglie il ricorso, rigettando l'eccezione di prescrizione sollevata dall'Istituto resistente, sul presupposto che il relativo dies a quo non possa che decorrere dal momento della stabilizzazione del rapporto di lavoro in quanto durante la pendenza dei contratti a termine il dipendente, non avendo la certezza della loro continuazione, si trova in una condizione di metus nei confronti del datore di lavoro, tipica dei rapporti senza stabilità.

Adita su gravame dell'Istituto, la Corte di Appello rigetta l'impugnazione e conferma il dispositivo di primo grado, però diversamente motivando con riguardo all'eccezione di prescrizione sollevata dalla P.A.: la corte territoriale dà importanza infatti non al metus del lavoratore ma alla stabilizzazione del rapporto, a decorrere dalla quale soltanto il diritto azionato avrebbe potuto essere esercitato poiché, a ben vedere, l'inadempimento nella sostanza lamentato dal lavoratore è l'omesso riconoscimento dell'anzianità di servizio pregressa all'atto della stabilizzazione.

L'Inail propone ricorso per cassazione sulla base di un unico motivo concernente l'individuazione del giorno di decorrenza della prescrizione dei crediti retributivi vantati dal lavoratore, chiedendo che la prescrizione stessa venga dichiarata con riferimento a quelli maturati nel corso dei rapporti di lavoro a termine instaurati prima della stabilizzazione, essi pure dotati di stabilità reale.

Rilevanti le conseguenze economiche della modalità di computo della prescrizione in tal guisa prospettata dalla P.A. ricorrente: la stessa svuoterebbe di contenuto, per la gran parte, il diritto del lavoratore quand'anche formalmente attribuito.

La questione

A pochi mesi di distanza dall'importante pronuncia del 6 settembre 2022, n. 26246, la Corte di Cassazione torna sull'argomento della determinazione del termine di decorrenza (dies a quo) della prescrizione dei crediti retributivi, questa volta con specifico riferimento ai rapporti di pubblico impiego contrattualizzato.

In tempi recenti, la questione nel suo insieme ha assunto notevole rilievo nel dibattito giuridico venendo da più parti correlata alle intervenute modifiche della disciplina sanzionatoria per il licenziamento illegittimo: dettate tanto dall'art. 18 Stat. Lav., come novellato dalla legge n. 92/2012, quanto dal D.lgs. n. 23/2015.

Ci si è infatti domandato se in ragione del mutato quadro di protezione della stabilità del rapporto di lavoro subordinato - concetto a cui nella materia, tradizionalmente, per orientamento ultra quarantennale della S.C. e ancor più risalente della Corte Costituzionale, si fa dirimente riferimento – il momento di avvio della prescrizione dei crediti del lavoratore debba essere, sempre, differito alla cessazione del rapporto.

Per una migliore comprensione del fenomeno, pare opportuno richiamare preliminarmente alcune nozioni di carattere generale sull'istituto della prescrizione nell'ambito del rapporto di lavoro, ripercorrendo poi, pur in sintesi, l'excursus della giurisprudenza sullo specifico tema.

Al pari di ogni diritto disponibile, anche i crediti retributivi possono estinguersi per il decorso del tempo ove ne manchi l'esercizio da parte del titolare, ciò secondo le regole generali dettate dagli articoli da 2934 a 2963 del codice civile.

In particolare, nell'ambito del rapporto di lavoro subordinato, i diritti di credito dei prestatori – che per lo più maturano con periodicità annuale od inferiore all'anno, se non in alcuni casi alla fine del rapporto - ricadono principalmente nel regime di prescrizione quinquennale (art. 2948 c.c.) con applicazione invece residuale dell'ordinaria prescrizione decennale (art. 2946 c.c.).

L'interruzione della prescrizione può avvenire in forma giudiziale o stragiudiziale, in quest'ultima evenienza attraverso ogni atto del creditore (o di un suo rappresentante o mandatario) che valga a costituire in mora il debitore. Utile allo scopo è anche il riconoscimento del diritto da parte dell'obbligato o di un suo rappresentante (artt.2943-2944 c.c.).

Poiché il termine di prescrizione fissato dalla legge inizia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere (art. 2935 c.c.), nell'area giuslavoristica da tempo è discussa la questione della decorrenza di tale termine anche nel periodo in cui il rapporto di lavoro ha svolgimento.

Tali riflessioni poggiano sulla considerazione, generalmente accolta, che il lavoratore subordinato rappresenta il contraente debole del rapporto il quale, corrente il medesimo, potrebbe trovarsi in condizione di soggezione psicologica verso il datore di lavoro, derivante dal timore di essere licenziato così perdendo i necessari mezzi di sostentamento per sé e per la propria famiglia; timore che, si ritiene, potrebbe quindi spingerlo a rinunciare alla difesa dei suoi diritti.

Gli interpreti concordano quindi sulla necessità di tutela del lavoratore, contraente debole, divergendo però nell'individuazione dei relativi strumenti.

Sulla questione è più volte intervenuta la Corte Costituzionale.

In particolare, la Consulta con la sentenza 10 giugno 1966, n. 63, ha dichiarato che, potendosi presumere, allora in via assoluta, il timore di licenziamento in capo ad ogni lavoratore, le disposizioni del codice civile le quali consentono la prescrizione quinquennale o quelle presuntive delle retribuzioni corrisposte per periodi non superiori o superiori al mese (art. 2948, n. 4; art. 2955, n. 2 ed art. 2956, n. 1) sono affette da illegittimità costituzionale nella parte in cui fanno decorrere i relativi termini durante la costanza del rapporto di lavoro.

A tale pronuncia ne sono seguite altre – nel dettaglio, CorteCost. 20 novembre 1969, n. 143; 29 aprile 1971, n. 86; 12 dicembre 1972, n. 174; 21 maggio 1975, n. 115; 1° giugno 1979, n. 40 – ciascuna in connessione all'evolversi del quadro normativo sulla materia: con riferimento, in particolare, alla legge n. 604/1966 e, soprattutto, alla legge n. 300/1970 (Statuto dei lavoratori).

Attraverso tali pronunciamenti, la Corte Costituzionale ha pertanto modulato l'incondizionato principio inizialmente espresso: la posticipazione a fine rapporto del decorso del termine prescrizionale è stata limitata ai soli crediti di natura retributiva (per cui opera il principio di irrinunciabilità del diritto alla retribuzione ex art. 36 Cost.) ed al contempo ne è stata esclusa la necessità in relazione ai rapporti, di natura pubblicistica o privatistica, caratterizzati dal requisito della predetta stabilità o resistenza.

Più in particolare, con la sentenza n. 174/1972 il giudice delle Leggi ha precisato che siffatta situazione di stabilità si verifica allorquando ricorra la possibilità di applicare le menzionate due serie di disposizioni legali sui licenziamenti illegittimi (leggi n. 604/1966 e n. 300/1970); di cui la seconda deve considerarsi necessaria integrazione della prima, dato che una vera stabilità non si assicura se all'annullamento dell'avvenuto licenziamento non si faccia seguire la completa reintegrazione nella posizione giuridica preesistente fatta illegittimamente cessare.

La stabilità reale del rapporto, dunque, secondo i riportati principi enunciati dalla Corte Costituzionale, è stata per diversi anni, anzi per decenni il discrimen all'origine del doppio regime di decorrenza della prescrizione dei crediti retributivi nei rapporti di lavoro subordinato.

La giurisprudenzasi è infatti pedissequamente uniformata a tali regole di compatibilità costituzionale.

In particolare, affermando la sussistenza del requisito della stabilità del posto di lavoro tutte le volte in cui, sul piano dei presupposti di fatto, la disciplina del rapporto avesse subordinato il licenziamento a circostanze obiettive e predeterminate; e sul piano della tutela dei diritti, avesse affidato al giudice il pieno sindacato su tali circostanze con la facoltà di rimuovere gli effetti del licenziamento illegittimo (Cass., sez. un., 12 aprile 1976, n. 1268; Cass. 19 agosto 2011, n.17399).

Tale rimozione, secondo la S.C., non può però esaurirsi nella previsione di un risarcimento del danno, dovendo concretizzarsi nell'ordine di reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro ai sensi della legge n. 300/1970, art. 18, ovvero di altre disposizioni che comunque garantiscano la stabilità (tra le tante, Cass. 12 dicembre 2017, n. 29774; Cass. 23 giugno 2003, n. 9968; Cass. 20 giugno 1997, n. 5494; Cass. 13 settembre 1997, n. 9137).

La sopra descritta regola c.d. del “doppio binario” o della “doppia velocità” del decorso della prescrizione, ripetiamo, fondata sull'unico e decisivo parametro della stabilità del rapporto di lavoro, è rimasta per lungo tempo saldamente radicata nella giurisprudenza in ogni sua espressione di legittimità come di merito.

Senonché, l'apparato di tutela contro i licenziamenti illegittimi è stato nel frattempo modificato.

In particolare, la revisione dell'art. 18 Statuto lavoratori operata dalla L. n. 92/2012 (Riforma Fornero) e, poi, il nuovo regime previsto dal D.lgs. n. 23/2015 (Jobs act ec.d. contratto a tutele crescenti) non potevano non avere, nel citato contesto giurisprudenziale, effetti indiretti anche sulla decorrenza della prescrizione dei crediti di lavoro.

Ne è derivato, nei termini sopra descritti, l'attuale dibattito di dottrina e giurisprudenza sull'ipotizzato confinamento, questa volta non derogabile, dell'inizio della prescrizione dal momento conclusivo del rapporto di lavoro.

Ed in effetti la giurisprudenza di merito, chiamata in prima battuta ad orientarsi nel rinnovato orizzonte normativo, pur con qualche eccezione ha diffusamente adottato tale soluzione (cfr., Trib. Milano 16/12/2015, n. 3640; App. Milano 30/4/2019, n. 376; Trib. Torino 25/5/2016, n.1021; Trib. Firenze 16/1/2018, n.25; contra, Trib. Napoli 12 novembre 2019, n. 7343; Trib. di Milano, sentt. 24 aprile 2014 e 7 ottobre 2016).

Avutane l'occasione, anche la Corte di Cassazione ha potuto esprimere il proprio parere, di indubbio significato nomofilattico e quanto mai atteso visto che, non va dimenticato, scopo primo della prescrizione è proprio quello di favorire la certezza nei rapporti giuridici.

Come accennato, con l'ord. 6 settembre 2022, n. 26246 la Sezione Lavoro della Corte ha suggellato il seguente principio di diritto: in tema di crediti retributivi maturati nel rapporto di lavoro a tempo indeterminato, il termine di prescrizione dei relativi diritti decorre sempre dalla cessazione del rapporto.

Per gli ermellini, in particolare, il rapporto di lavoro a tempo indeterminato, come modulato per effetto della l. n. 92/2012 e del d. lgs. n. 23/2015, mancando dei presupposti di predeterminazione certa delle fattispecie di risoluzione e di una loro tutela adeguata, non è assistito da un regime di stabilità, sicché, per tutti quei diritti che non siano prescritti al momento di entrata in vigore della l. n. 92/2012, il termine di prescrizione decorre, a norma del combinato disposto degli artt. 2948, n. 4, e 2935 c.c., dalla cessazione del rapporto di lavoro”.

La regola è stata poco dopo confermata, nei medesimi termini, dalla sentenza Cass. 20 ottobre 2022, n. 30957.

Tutto chiaro e lineare, se non fosse, però, che non molto tempo prima la stessa S.C., con riferimento al parallelo ambito del pubblico impiego contrattualizzato ed in relazione all'ipotesi di contratti a termine affetti da nullità, aveva al contrario avuto occasione di riaffermare la “vecchia” regola del doppio binario.

Nello specifico, con la sentenza 28 maggio 2020, n. 10219, la Corte di Cassazione aveva enunciato nell'interesse della legge ai sensi dell'art. 363, comma3, c.p.c. il principio secondo il quale per il pubblico dipendente assunto a tempo determinato che rivendichi il medesimo trattamento retributivo previsto per gli assunti a tempo indeterminato la prescrizione quinquennale di cui all'art. 2948 nn.4 e 5 c.c. decorre - anche in caso di illegittimità del termine apposto al suo contratto - dal giorno dell'insorgenza per i crediti che sorgono in corso di rapporto e dal giorno della fine di quest'ultimo per quelli che maturano in tale frangente.

Ed ancora, con la successiva pronuncia n. 35676 del 19 novembre 2021, la stessa Suprema Corte aveva poi ribadito che nel settore del pubblico impiego privatizzato, nel caso di un contratto di lavoro formalmente autonomo del quale, successivamente, venga accertata la natura subordinata, la prescrizione dei crediti retributivi decorre durante il rapporto stesso attesa la mancanza di ogni aspettativa del lavoratore alla stabilità dell'impiego.

In entrambe le occasioni, la S.C. non si era quindi allontanata dalla tralatizia regola pretoria per la quale, data la sua speciale natura, il pubblico impiego seppur contrattualizzato è sempre caratterizzato dal requisito della stabilità: tanto da non potersi nel suo ambito mai configurare la condizione di metus in ordine alla mancata continuazione del rapporto di lavoro suscettibile di particolare tutela in tema di prescrizione (cfr. Cass. n. 24157/2015; Cons. Stato, sez. V, 3 aprile 2007 n. 1486; Cons. Stato, sez. V, 17 febbraio 2004 n. 601; Cons. Stato, sez. V, 10 novembre 1992 n. 1243).

In definitiva, la doppia velocità della prescrizione sembrava permanere ancora nelle separate sfere del lavoro pubblico e del lavoro privato.

Le soluzioni giuridiche

Per quanto detto, nel mutato contesto d'insieme, c'era però da attendersi che la Corte di Cassazione rimeditasse a breve il proprio pensiero.

La previsione si è dimostrata esatta.

Con l'ordinanza interlocutoria 28 febbraio 2023, n. 6051, qui commentata, la Sezione Lavoro della S.C., ritenendole di massima importanza, ha rimesso all'attenzione delle Sezioni Unite le questioni attualmente più dibattute in tema di decorrenza della prescrizione nel settore del lavoro pubblico.

Come riportato in massima, tre sono in particolare i quesiti allo scopo demandati alla decisione delle SS.UU.:

a) se la prescrizione dei crediti retributivi dei lavoratori nel pubblico impiego contrattualizzato debba decorrere dalla fine del rapporto di lavoro, a termine o a tempo indeterminato o, in caso di successione di rapporti, dalla cessazione dell'ultimo, come accade nel lavoro privato;

b)se, nell'eventualità di abuso nella reiterazione di contratti a termine, seguita dalla stabilizzazione presso la stessa p.a. datrice di lavoro, la prescrizione dei crediti retributivi dei lavoratori nel pubblico impiego contrattualizzato debba decorrere dal momento di tale stabilizzazione;

infine, c) se la prescrizione dei crediti retributivi dei lavoratori nel pubblico impiego contrattualizzato, nell'ipotesi sub b), sia comunque preclusa, interrotta o sospesa ove la p.a. neghi il riconoscimento del servizio pregresso dei dipendenti.

Le riflessioni della Sezione remittente muovono dalla ricognizione storica dell'anzidetta giurisprudenza anni '60 e '70 della Corte Costituzionale e della Corte di Cassazione, considerata meritevole, a distanza di tanto tempo, di rimeditazione.

La notevole evoluzione del contesto socioeconomico, afferma innanzitutto la Corte, ha reso oggi il lavoro sempre più precario e meno garantito, persino nel settore del pubblico impiego.

Basti in proposito considerare, viene sottolineato, l'anacronismo insito nell'affermazione contenuta nelle pronunce Corte Cost. n. 143/1969 e sez. un. n. 575/2003, secondo la quale la quale nei contratti a termine “la non rinnovazione del rapporto si configura quale evento avente carattere di normalità”, che varrebbe ad escludere il metus addotto a fondamento della non decorrenza della prescrizione in costanza di rapporto.

L'affermazione stessa risulta ora totalmente smentita nei fatti.

La reiterazione delle assunzioni a tempo determinato, osserva infatti il Collegio, è oggi la prassi nell'impiego sia privato che pubblico. E rappresenta spesso l'unico canale per giungere, dopo anni, ad un rapporto a tempo indeterminato con lo stesso datore di lavoro.

Impensabile, ormai, escludere l'esistenza per tali rapporti di una soggezione psicologica in capo al lavoratore sull'assunto che egli non ha comunque aspettative di conclusione di un contratto a tempo indeterminato.

In particolare, si enfatizza nell'ordinanza, in ragione della “reiterazione dei contratti a termine con le modalità esposte [...] (ma queste riflessioni possono estendersi a tutti contratti di lavoro flessibili con la P.A.) [...] è istituzionalizzata una condizione di strutturale inferiorità del medesimo lavoratore, che esegue la sua prestazione sperando di beneficiare di una procedura di stabilizzazione, [...] condizione che va ben oltre il metus ed è incompatibile con l'applicazione ai contratti de quibus delle comuni regole civilistiche, anche sulla prescrizione, basate sulla parità fra le parti negoziali”.

Del resto, aggiunge la Corte, nessuna delle richiamate e risalenti pronunce costituzionali e di legittimità tiene nel dovuto conto che, per quanto oggi previsto dall'art. 2, comma2, D. lgs. n.165/2001, il rapporto di pubblico impego contrattualizzato è regolato per la gran parte dalle medesime disposizioni di legge del rapporto di lavoro subordinato nell'impresa e comunque in maniera paritaria a questo.

E, specificamente guardando al regime di tutela nei licenziamenti, dopo la riforma del 2017 (con la nuova formulazione, ad opera del D.lgs. n.27/2017, dell'art. 63, comma 2, D.lgs. n.165/2001), anche nel lavoro pubblico non ha più applicazione generale la possibilità di “completa reintegrazione nella posizione giuridica preesistente fatta illegittimamente cessare" (sic Corte Cost. n.174/1972), condizione allora ritenuta atta a giustificare il decorso immediato della prescrizione dei crediti retributivi.

Inoltre, continua il giudice remittente, con la recente riforma anche l'art. 36 D.lgs. n. 165/2001 ha subito rilevanti modifiche: concernenti la possibilità per le Amministrazioni pubbliche di stipulare contratti di lavoro subordinato a tempo determinato, contratti di formazione e lavoro e contratti di somministrazione di lavoro a tempo determinato, nonché di avvalersi delle forme contrattuali flessibili previste dal codice civile e dalle altre leggi sui rapporti di lavoro nell'impresa.

Pertanto, sono state innovate proprio le disposizioni del D.lgs. n. 165/2001 riportate nella motivazione, tra le altre, della richiamata sentenza Cass.n. 35676 del 19 novembre 2021 come prova del fatto che la privatizzazione non avrebbe comportato una totale identificazione tra lavoro pubblico privatizzato e lavoro privato e, addirittura, della permanenza nel lavoro pubblico privatizzato delle peculiarità individuate dalla Corte costituzionale, in relazione al previgente regime dell'impiego pubblico, oltre 50 anni prima.

Deve inoltre essere considerato, rimarca la Corte, che la differenza di regime della prescrizione tra lavoro privato e lavoro pubblico viene ad incidere altresì sul diritto al riconoscimento dell'anzianità di servizio come ricostruito in ambito UE.

In particolare, svuotare di contenuto l'anzianità di servizio dei lavoratori a termine nell'impiego pubblico contrattualizzato, con pesanti conseguenze sulla progressione stipendiale, è in contrasto con la giurisprudenza della CGUE.

Secondo varie pronunce di tale Corte, infatti, le maggiorazioni retributive che derivano dall'anzianità di servizio del lavoratore costituiscono condizioni di impiego ai sensi della clausola 4 dell'Accordo Quadro sul lavoro a tempo determinato accluso alla direttiva 1999/70/CE, con l'effetto che le stesse possono essere negate agli assunti a tale titolo solo in presenza di una giustificazione oggettiva (cfr. CGUE, 9 luglio 2015, c-177/14, Regojo Dans, punto 44; CGUE, 4 luglio 2006, Adeneler, C-212/04, punto 105; CGUE,7 settembre 2006, c-53/04, Marrosu e Sardino, punto 49; CGUE, 7 settembre 2006, C-180/04, Vassallo, punto 34).

E la stessa Corte di Cassazione ha già dato seguito a tale giurisprudenza euro unitaria affermando (fra le molte, Cass. n. 2924/2020) che anche nel pubblico impiego contrattualizzato l'anzianità di servizio va riconosciuta ad ogni effetto pure ai lavoratori assunti a tempo determinato, poi immessi in ruolo.

Ciononostante, dice l'ordinanza, la Corte stessa non ha mai correlativamente modificato il criterio di computo della prescrizione dei crediti retributivi sui quali si basa l'anzianità di servizio al fine della progressione economica.

L'attuale irrazionalità del sistema, e quindi la diversità di regime della prescrizione tra lavoro a termine nel settore privato e nel settore pubblico contrattualizzato, risulta in definitiva lesiva non solo del diritto UE ma soprattutto dei principi di eguaglianza e di ragionevolezza (Cost., art. 3) e del diritto al lavoro (Cost., artt. 4 e 35).

Tali considerazioni hanno appunto indotto la Sezione Lavoro a rimettere alle SS. UU. la soluzione di questioni che, tenuto conto dei rilevanti cambiamenti normativi e giurisprudenziali e della notevole modifica delle condizioni economico sociali che hanno interessato il diritto del lavoro dopo i risalenti pronunciamenti della Corte Costituzionale e della stessa S.C., sono oggi da ritenersi di massima importanza.

Osservazioni

L'articolato ragionamento svolto nell'ordinanza interlocutoria n. 6051/2023 suggerisce alcuni commenti.

In primo luogo, per i giudici remittenti l'opportunità di individuare un'uniforme disciplina della prescrizione dei crediti retributivi, da riconoscersi tanto nel lavoro pubblico quanto nel lavoro privato, pare costituire un obbiettivo di rilievo assolutamente preminente.

Anche a discapito della forza e della coerenza degli specifici argomenti addotti a sua giustificazione.

Ci si riferisce in particolare al primo, sub a), dei quesiti formulati e rimessi alla decisione delle SS.UU.: se la prescrizione dei crediti retributivi dei lavoratori nel pubblico impiego contrattualizzato debba decorre dalla fine del rapporto di lavoro, a termine o a tempo indeterminato [...], come accade nel lavoro privato.

Il quesito, a ben guardare, è estraneo allo specifico caso in decisione, nel quale è rilevante invece la più circoscritta questione dell'accertamento del dies a quo della prescrizione nell'ipotesi di reiterazione di contratti a termine seguiti dalla stabilizzazione del rapporto [questione oggetto dei quesiti sub b) e c)].

Il fatto che tale quesito di valore generale, e quindi di ben più ampia portata, sia stato formulato insieme a quelli specificamente rilevanti ai fini della decisione concreta già di per sé manifesta tutto l'interesse della Suprema Corte rispetto allo scopo, che peraltro istituzionalmente le appartiene, di giungere ad un'interpretazione unitaria ed uniforme delle disposizioni di legge relative all'argomento in discussione.

L'attenzione rispetto alla meta perseguita, però, pare avere compromesso l'approfondimento della questione.

Infatti, la dedotta necessità di un pronunciamento in punto da parte delle SS.UU. nella sostanza poggia su di un unico, sintetico postulato contenuto nell'ordinanza di rimessione: che le conseguenze del licenziamento nullo o annullabile previste dal nuovo testo dell'art. 63, comma 2, D.lgs. n.165/2001 avrebbero introdotto “una disciplina che pare non più idonea a garantire il completo ripristino della posizione giuridica preesistente fatta illegittimamente cessare, stante l'imposizione di un massimale” – di ventiquattro mensilità -in luogo del risarcimento in misura piena del danno”.

L'assunto, quand'anche astrattamente condivisibile, non ci pare però adeguatamente sviluppato, tanto più nell'assegnata sua funzione di ragione fondante l'auspicato generale (valido cioè per tutti i rapporti di lavoro presso ogni P.A.) ed epocale (mai prima d'ora intervenuto) cambio di paradigma nelle regole della prescrizione nel settore del pubblico impiego.

A tal proposito, l'ordinanza in nessun modo si esprime circa la congruità o meno, anche ai fini della relativa legittimità costituzionale, da riferirsi soprattutto alle fattispecie di nullità del licenziamento, del predetto tetto massimo risarcitorio di 24 mensilità fissato dalla legge e, tra l'altro, riferito all'intero periodo dopo il licenziamento sino all'effettiva reintegrazione del lavoratore (e non soltanto a quello pre-sentenza).

Neppure si valuta nell'ordinanza se, per converso, siffatta sanzione unica, che prescinde dalla natura (formale o sostanziale) e dalla gravità del vizio proprio del licenziamento, in realtà avvantaggi, e se sì in che ordine di grandezza, il dipendente pubblico il quale, a differenza del lavoratore del settore privato, tuttora conserva in ogni caso di annullamento giudiziale del recesso subitoil diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro.

In altri termini, viene da chiedersi se il solo venir meno nell'ordinamento della tutela reintegratoria piena– ritenuta operante nel lavoro pubblico sino alla riforma Madia del 2017, almeno secondo l'orientamento maggioritario espresso dalla stessa S.C. (la quale in proposito ha sostenuto che le modifiche apportate dalla legge n. 92/2012 all'art. 18 St. lav. non si applicano ai rapporti di pubblico impiego privatizzato) – ed il suo attuale avvicendamento con la predetta tutela o sanzione unica, assimilabile invece alla c.d. tutela reintegratoria debole di cui all'art. 18, comma 4, legge n.300/1970, salvo il raddoppio (da 12 a 14 mensilità retributive) del tetto massimo dell'indennità risarcitoria prevista, può di per sé giustificare anche nell'ambito pubblico un generale differimento dell'inizio della prescrizione dei crediti retributivi al momento finale del rapporto.

Ci permettiamo di avere più di un dubbio al riguardo.

Rispetto al lavoro privato, nell'impiego pubblico ancor oggi rimane comunque la fondamentale differenza data dal rimedio, di carattere generale ed assoluto, nei presupposti come nei soggetti destinatari, della reintegrazione nel posto di lavoro.

Ed al riguardo, non dimentichiamolo, il principio affermato come dirimente sul punto dalla Corte Costituzionale nella pronuncia n. 174/1972, richiamata a sostegno nella stessa ordinanza di rimessione, rimane quello legato al concetto di “stabilità” del rapporto di lavoro rappresentato dall'idoneità della normativa di riferimento sui licenziamenti a “garantire il completo ripristino della posizione giuridica preesistente fatta illegittimamente cessare”.

Posizione giuridica, quindi. Non economica o comunque patrimoniale.

L'individuazione della condizione di potenziale metus in capo ai vari lavoratori basata sulla stabilità del loro rapporto, dunque, pare essere questione essenzialmente qualitativa più che quantitativa.

Del resto, coerentemente, la mera tutela risarcitoria o indennitaria, ergo economica, è stata dalla giurisprudenza sempre ritenuta insoddisfacente ai fini del conseguimento di una reintegrazione piena, sia nel patrimonio sia nella sfera della sua personalità, del lavoratore non validamente licenziato, a prescindere dall'entità o misura dello specifico risarcimento accordato dal legislatore.

Pertanto, in altre parole, se la tutela risarcitoria legale - di per sé e per sua natura - non è mai stata dai giudici considerata sufficiente a scongiurare il rischio d'insorgenza per il lavoratore dipendente del timore di venire ingiustamente licenziato non si vede come oggi, allorché la stessa nel nuovo art. 63, comma 2, D.lgs. n.165/2001, si affianca a quella restitutoria/reintegratoria, tra l'altro nel non trascurabile importo pari a 24 mensilità retributive, essa possa determinare in via generale ed astratta tale temuto esito.

Come hanno sin qui detto le stesse corti, infatti, non si tratta di questione di natura soltanto economica o monetaria ma di problema legato al ripristino della “posizione giuridica” del lavoratore preesistente al licenziamento.

Del resto, la S.C. non si è mai data troppa pena per i limiti che l'ordinamento nel suo complesso pone alla risarcibilità in favore dei lavoratori licenziati di danni, siano essi patrimoniali od all'integrità psico-fisica, “ulteriori” rispetto alla perdita della retribuzione, parametro unico invece considerato dalla normativa speciale del diritto del lavoro.

Per costante orientamento giurisprudenziale, il risarcimento degli stessi è infatti limitato alla sola ipotesi in cui derivino da un licenziamento ingiurioso e/o persecutorio, escludendosene l'ammissibilità per quello semplicemente illegittimo (cfr. Cass. n. 10235/2009; n. 6845/2010; n. 23686/2015).

Sullo sfondo, poi, permangono immutate le critiche nel tempo espresse da varie parti nei confronti della giurisprudenza “costituzionalmente orientata” più volte sopra richiamata.

Sul piano temporale, la prima critica fu quella che la stabilità del rapporto di lavoro non poteva riferirsi alla sola possibilità di reintegro nel posto di lavoro.

Infatti, venne osservato, la stessa reintegrazione del lavoratore illegittimamente licenziato prevista dallo Statuto non è suscettibile di esecuzione forzata; e pertanto la stabilità reale del rapporto, nei fatti, può realizzarsi solo con il consenso del datore di lavoro (così, A. Maresca, Sull'individuazione del termine di decorrenza della prescrizione nei rapporti di lavoro stabili, in Riv. giur. lav. prev. soc., 1976, 319 ss.).

Tale opinione è stata in passato condivisa anche da parte della giurisprudenza di merito (cfr. Trib. Padova 21 maggio 1978, in Riv. giur. lav. prev. soc., 1978, II, 833 e la successiva pronuncia del Trib. Genova 29 gennaio 1980, in Riv. giur. lav. prev. soc., 1980, II, 101).

Inoltre, si è in seguito aggiunto, non pare corretto individuare unicamente nel “timore del licenziamento”, considerato oltretutto in via generale ed astratta, senza alcuno riferimento alla specifica condizione del lavoratore nel caso concreto, il criterio attraverso il quale far emergere la situazione di soggezione psicologica del prestatore verso il datore di lavoro.

Più realisticamente, si è detto, la concreta condizione didebolezzadel primo, tale da risultare addirittura impeditiva dell'esercizio dei diritti retributivi, più che nella paura di perdere il posto di lavoro andrebbe ricercata in altri aspetti della subordinazione che, in costanza di rapporto, lo espongono a rischi di coercizioni o ritorsioni datoriali.

Basti in proposito pensare al mancato riconoscimento di una meritata qualifica professionale, alla relegazione in reparti punitivi o sgraditi, alla degradazione delle mansioni affidate, oppure al trasferimento in sedi disagiate magari celato sotto la forma di una promozione, e via dicendo.

In buona sostanza, per quanto il rapporto di lavoro sia stabile e corroborato da strumenti di tutela giurisdizionale, il datore di lavoro mantiene la possibilità di utilizzare, purtroppo anche per finalità improprie e strumentali, il suo potere direttivo.

E, del resto, la stessa ordinanza S.C. n. 6051/2023 qui commentata in proposito riconosce: “Non può sottovalutarsi, poi, che la semplice c.d. stabilità reale non costituisce valido strumento di difesa contro la pluralità di strumenti ritorsivi nella disponibilità del datore di lavoro (si pensi alle fattispecie di mobbing e straining)”.

Infine, sottolineiamo, se, come sostiene la S.C., per il mutato contesto giuridico e socio-economico va rivisitata criticamente l'ormai datata giurisprudenza costituzionale e di legittimità sul tema, auspichiamo che nell'ambito di tale rivisitazione attualizzante non manchi una maggiore attenzione verso la situazione del mercato del lavoro nel nostro Paese, come mai prima contraddistinta dalla carenza di offerta (soprattutto specializzata) piuttosto che di domanda di lavoro (ricordiamo in proposito il fenomeno del c.d. skill mismatch).

Anche perché, concludiamo, la preoccupazione che angustia ogni lavoratore non è soltanto quella di perdere il posto di lavoro ma, soprattutto, quella di non poterne poi trovare un altro.

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