Per la bancarotta da reato societario basta aggravare un dissesto già esistente

Francesco Spina
15 Giugno 2023

La Corte si pronuncia, in tema di bancarotta impropria ex art. 223, comma 2, n. 1 l. fall., in un caso in cui gli amministratori di una società, con le loro condotte, hanno cagionato l'aggravamento del dissesto.
Massima

Integra il reato di bancarotta impropria di cui all'art. 223, comma 2, n. 1), l. fall. la condotta dell'amministratore che, esponendo nel bilancio dati non corrispondenti al vero, al fine di occultare l'esistenza di perdite e consentire quindi la prosecuzione dell'attività di impresa in assenza di interventi di ricapitalizzazione o di liquidazione, eviti che si manifesti la necessità di procedere ad interventi di rifinanziamento o di liquidazione, in tal modo consentendo alla società poi fallita la prosecuzione dell'attività di impresa con accumulo di ulteriori perdite negli esercizi successivi; ciò in quanto l'evento tipico di quella fattispecie delittuosa comprende non solo la produzione, ma anche il semplice aggravamento del dissesto.



Il caso

La vicenda in commento prende le mosse dalla sentenza resa dalla Corte di Appello di Torino la quale, in parziale riforma della sentenza emessa dal GUP del Tribunale di Novara, riteneva responsabili diversi imputati del reato di bancarotta impropria per false comunicazioni sociali, di cui agli artt. 223, comma 2, n. 1, R.D. 267/1942, in relazione all'art. 2621 c.c..

Gli imputati, in particolare, erano ritenuti responsabili del reato in parola, per avere, in concorso tra loro, cagionato o concorso a cagionare il dissesto di una società di capitali - dichiarata fallita con sentenza del Tribunale di Novara - esponendo, nei bilanci dal 2007 al 2010, fatti materiali non rispondenti al vero ed omettendo informazioni, la cui comunicazione è imposta dalla legge, riguardanti la situazione economica, patrimoniale e finanziaria della fallita società.

Agli imputati era contestata la rilevante alterazione di informazioni sociali e ciò, al fine di consentire alla fallita persona giuridica, di proseguire illecitamente la propria attività.

In tal modo agli imputati era contestato un notevole aggravio del dissesto, in ragione di una variazione del risultato economico di esercizio superiore al 5% e di una variazione del patrimonio netto superiore al 1%.

In particolare, a partire dal bilancio dell'anno 2007 erano appostate rimanenze di magazzino appositamente sovrastimate, al solo fine di nascondere le perdite di esercizio e la situazione di decozione della fallita.

Soltanto con il bilancio dell'anno 2011 erano, altresì, appostate e rettificate fatture da emettere, ma invero mai emesse e contabilizzate per un complessivo importo pari ad Euro 107.000,00.

Come emerge dalla pronunzia in commento, agli imputati era rimproverata una evidente sopravvalutazione del magazzino, riguardante merci di un settore soggetto all'influenza delle mode, con un valore delle rimanenze indicato in misura decisamente eccessiva, se rapportato agli effettivi ricavi di esercizio.

Avverso la decisione di secondo grado gli imputati proponevano ricorso per cassazione affidandolo a tre differenti motivi.

Per ciò che è qui di interesse, gli imputati contestavano, alla Corte di appello, il vizio di violazione di legge, laddove la sentenza impugnata aveva ritenuto integrata la fattispecie criminosa contestata nonostante il mancato accertamento della verificazione dell'evento tipico, individuato dalla disposizione incriminatrice quale elemento essenziale della fattispecie.

Nelle specifico, è evento tipico del reato di cui all'art. 223, comma 2, n. 1 l. fall., il dissesto o l'aggravio del dissesto della società fallita, configurandosi la fattispecie in questione quale fattispecie di danno, a fronte di una condotta di mero pericolo prevista dall'art. 2621 c.c..

Nel caso dei ricorrenti, invero, l'omessa svalutazione del magazzino, in quanto volta ad occultare perdite già esistenti, non determinava il dissesto o il protrarsi del dissesto della compagine sociale, dovendosi pertanto concludere che la condotta attribuita agli imputati era punita dai giudici di merito in quanto mera condotta e non perché eziologicamente collegata all'evento tipico.

La censura non era condivisa dalla Suprema Corte, la quale rigettava il ricorsodichiarandocheintegra il reato di bancarotta impropria da reato societario (ex art. 223, comma 2, n. 1 l.fall.) la condotta dell'amministratore che – esponendo nel bilancio dati non corrispondenti al vero al fine di occultare l'esistenza di perdite e consentire la prosecuzione dell'attività di impresa – eviti che si manifesti la necessità di procedere a interventi di ricapitalizzazione o di liquidazione, consentendo la prosecuzione dell'attività d'impresa con accumulo di ulteriori perdite negli esercizi successivi, fino al fallimento (v. Cass. 9958/2023).



La questione

La questione giuridica sottesa al caso in esame verte nello stabilire se la condotta dell'amministratore (che esponga nel bilancio dati non corrispondenti al vero al fine di occultare l'esistenza di perdite e consentire la prosecuzione dell'attività di impresa in assenza di interventi di ricapitalizzazione o di liquidazione ed evitando che si manifesti la necessità di procedere ad interventi di rifinanziamento o di liquidazione), integri il reato di bancarotta impropria.



La soluzione della Corte

A mente dell'art. 2621 c.c. (“False comunicazioni sociali”) sono puniti con la pena della reclusione da uno a cinque anni gli amministratori, i direttori generali, i dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, i sindaci e i liquidatori, i quali, al fine di conseguire per sé o per altri un ingiusto profitto, nei bilanci, nelle relazioni o nelle altre comunicazioni sociali dirette ai soci o al pubblico, previste dalla legge, consapevolmente espongono fatti materiali rilevanti non rispondenti al vero ovvero omettono fatti materiali rilevanti la cui comunicazione è imposta dalla legge sulla situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società o del gruppo al quale la stessa appartiene, in modo concretamente idoneo ad indurre altri in errore.

La fattispecie di cui all'art. 2621 c.c. è posta a tutela della veridicità e della compiutezza dell'informazione societaria ed è riferita solo alle società non quotate.

La norma prevede la punibilità sia della condotta di esposizione consapevole di fatti materiali rilevanti non rispondenti al vero, sia di omissione (altrettanto consapevole) di fatti materiali rilevanti la cui comunicazione è imposta dalla legge.

Si tratta di un reato proprio, in quanto può essere realizzato solo da soggetti qualificati.

Essi sono: gli amministratori, i direttori generali, i dirigenti preposti alla redazione dei documenti contabili societari, i componenti del collegio sindacale, i liquidatori.

A questi soggetti vanno aggiunti coloro che, ex art. 2639, co. 2, c.c., sono legalmente incaricati dall'autorità giudiziaria o dall'autorità pubblica di vigilanza di amministrare la società o i beni dalla stessa posseduti o gestiti per conto di terzi; chi svolge funzioni di amministrazione, direzione e controllo presso banche, anche se non costituite in forma societaria (art. 135 del D. Lgs. 385/93); le persone che hanno la direzione del consorzio con attività esterna (art. 2615-bis c.c.); gli amministratori ed i liquidatori del GEIE (art. 13 del D. Lgs. 240/1991).

Ai sensi dell'art. 2639, co. 1, c.c. a tali soggetti è equiparato sia chi è tenuto a svolgere la stessa funzione, diversamente qualificata, sia chi esercita in modo continuativo e significativo i poteri tipici inerenti alla qualifica o alla funzione (c.d. amministratori di fatto).

Vanno, invece, esclusi dai soggetti attivi del reato i revisori legali, poiché - per la notevole divergenza dei compiti di costoro rispetto a quelli affidati ai sindaci - non è possibile utilizzare la predetta equiparazione di cui all'art. 2639, co. 1, c.c.

La condotta attiva (di esposizione) si riferisce a fatti materiali falsi, i quali possono anche essere oggetto di valutazioni, per le quali ultime è prevista una soglia di rilevanza.

Quanto alla condotta omissiva, deve avere ad oggetto le informazioni la cui comunicazione è imposta dalla legge.

L'esposizione e l'omissione devono inerire alla situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società o del gruppo al quale essa appartiene, ed essere concretamente idonee a indurre altri in errore.

Il reato, infine, può realizzarsi anche tramite “altre comunicazioni sociali”, a condizione che siano previste dalla legge (tipiche) e rivolte ai soci o al pubblico.

La punibilità è esclusa nel momento in cui la falsità o le omissioni non alterano in modo sensibile la rappresentazione della situazione della società o del gruppo.

A questo proposito sono previste soglie quantitative precise, al di sotto delle quali il falso non è punibile.

Tale previsione caratterizza in modo inequivocabile la nuova norma, non essendovi nessuna analoga previsione nel precedente reato di falso in bilancio.

Per ciò che attiene l'elemento soggettivo della contravvenzione in parola, vengono introdotti i seguenti elementi: con l'intenzione di ingannare i soci o il pubblico e al fine di conseguire per sé o per altri un ingiusto profitto.

Quanto all'intenzione di ingannare i soci e il pubblico (si tratta, è chiaro, di un dolo intenzionale), più che sul concetto di inganno, sicuramente insito, come si è visto in precedenza, nel concetto di falso, nel caso di specie sembra che il legislatore abbia voluto intervenire a porre l'accento sui soggetti passibili di essere ingannati, vale a dire, per l'appunto, i soci ed il pubblico.

La condotta deve, inoltre, essere rivolta a conseguire un ingiusto profitto: il profitto, dunque, uscito dalle nebbie dell'avverbio fraudolentemente, viene indicato come oggetto del dolo o, più precisamente, del dolo specifico, in maniera chiara ed esplicita.



Le conclusioni della S.C.

Secondo la Corte di cassazione l'evento tipico della fattispecie delittuosa in parola comprende non solo la produzione, ma anche il semplice aggravamento del dissesto (v. anche Cass. 1754/2021, Cass. 42272/2014, Cass. 42811/2014 e Cass. 28508/2013).

A maggior ragione l'intento di evitare interventi di ricapitalizzazione o di liquidazione, in quanto diretto a favorire indebitamente la compagine sociale, integra il fine di ingiusto profitto richiesto dagli artt. 2621 e 2622 c.c., in tema di false comunicazioni sociali.

Il reato in questione, peraltro, è integrato anche a voler considerare il dissesto della società già presente, in quanto conseguente anche ad altre cause al momento delle condotte di falso.

Ciò in quanto rilevano anche condotte che non abbiano da sole determinato il dissesto, ma che abbiano, come del resto testualmente previsto dall'art. 223, comma 2, n. 1 del RD 267/42, “concorso a cagionarlo”, aggravando l'effetto di cause preesistenti.



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