Il fideiussore escusso non può chiedere il fallimento del debitore principale se non ha provveduto al pagamento

22 Giugno 2023

Viene commentata una recente decisione della Corte di legittimità pronunciatasi sul tema delle modalità di notificazione dell'istanza di fallimento allorché il debitore principale risulti cancellato dal registro delle imprese, nonché su quello della legittimazione attiva a richiedere il fallimento del debitore principale da parte del fideiussore escusso che non abbia provveduto al pagamento di quanto dovuto a favore del creditore garantito.
Massima

È valida la notifica effettuata ai sensi dell'art. 145 c.p.c. al liquidatore di una società cancellata dal registro delle imprese, ancorché tale modalità non sia prevista dall'art. 15 l. fall., dovendosi ritenere ammissibili modalità di notifica differenti laddove assicurino una più ampia tutela e l'effettività del diritto di difesa.

È legittimato a richiedere il fallimento ex art. 6 l. fall. qualunque soggetto titolare di una pretesa (anche non monetaria) astrattamente ammissibile al passivo.

Il fideiussore escusso che non abbia già pagato il dovuto non è, pertanto, a ciò legittimato, giacché il proprio credito sorge solo al momento dell'effettivo pagamento, non potendosi neppure qualificare quale credito condizionale.

Ove siano necessari accertamenti di merito, spetta alla corte d'appello in sede di rinvio revocare la dichiarazione di fallimento e provvedere sull'addebito delle spese di procedura e del compenso del curatore medio tempore maturati ex art. 147 d.p.r. 115/2002 (TU Spese di giustizia).



Il caso

La vicenda può essere così riassunta.

Un soggetto rilascia una fideiussione a favore di un ente pubblico a garanzia delle obbligazioni rivenienti da un contratto di appalto. L'ente pubblico creditore aziona in giudizio la fideiussione, chiedendo la condanna del garante al pagamento e, venendo rigettata la domanda, propone appello.

In tale contesto, il fideiussore insta per la dichiarazione di fallimento dell'obbligato principale e il ricorso – nonostante la società sia già stata cancellata dal Registro delle Imprese – viene notificato personalmente al domicilio del liquidatore.

Il Tribunale, in accoglimento della domanda del fideiussore, dichiara il fallimento della debitrice principale, confermato in sede di reclamo ex art. 18 l. fall., ove la Corte d'appello ha ritenuto valida la notifica e “creditore legittimato” il fideiussore escusso, potendo tale credito essere, oltre a non certo, liquido ed esigibile, anche non ancora scaduto e condizionale.

La debitrice ha proposto, pertanto, ricorso per cassazione sulla base di tre motivi (di cui uno assorbito): 1) pretesa nullità del procedimento notificatorio; 2) difetto di legittimazione ex art. 6 l. fall. del fideiussore che, pur formalmente escusso, non abbia ancora provveduto al pagamento.

La Corte di cassazione, da un lato, dichiara inammissibile il primo motivo e, dall'altro lato, accoglie il secondo, cassando la decisione della Corte d'Appello, rimettendo ad essa di provvedere alla formale revoca della dichiarazione di fallimento e alle statuizioni sull'addebito delle spese e compensi di procedura maturati.



Le questioni giuridiche

Con il provvedimento in oggetto la Corte di cassazione si occupa di due profili, di carattere preliminare, inerenti al procedimento per la dichiarazione di fallimento.

Da un lato, il tema delle modalità di notificazione dell'istanza di fallimento ex art. 15 l. fall. allorché il debitore principale risulti cancellato dal registro delle imprese. In particolare, se possa considerarsi valida una notifica effettuata al legale rappresentante ex art. 145 c.p.c., ancorché essa non sia prevista dall'art. 15 l. fall., il quale – come modalità residuale di notificazione – prescrive esclusivamente il deposito presso la Casa Comunale.

Dall'altro lato, sempre in via preliminare, affronta il tema della legittimazione attiva del fideiussore escusso a richiedere il fallimento del debitore principale prima di aver provveduto al pagamento di quanto dovuto a favore del creditore garantito. Nello specifico, il quesito attiene alla qualifica di “creditore” (ancorché, in ipotesi, condizionale) ai sensi dell'art. 6 l. fall.

Infine, come si è visto, la Corte di cassazione – a fronte della revoca della pronuncia della Corte d'appello resa in sede di reclamo ex art. 18 l. fall. – delinea i criteri per individuare il Giudice (Cassazione o Corte d'appello in sede di rinvio) che deve procedere alla formale revoca della dichiarazione di fallimento e determinare il soggetto (debitore o creditore) cui sia imputabile l'apertura della (revocanda) procedura, sul quale dovranno gravare le spese e il compenso del curatore fino a qual momento maturati, ex art. 147 d.p.r. 115/2002 (“TU Spese Giustizia”, novellato dall'art. 366 CCII).



Le soluzioni della Corte

I due temi preliminari oggetto di dibattito e soluzioni non univoche nella giurisprudenza, erano già stati affrontati (separatamente) dalla Corte di cassazione. Tuttavia, la sentenza in commento riveste indubbio interesse dal momento che li affronta unitariamente, cassando parzialmente – con persuasiva motivazione - le decisioni del giudice di primo e secondo grado, e, per la prima volta, affrontando il profilo delle modalità applicative dell'art. 147 TU Spese Giustizia (nella versione aggiornata dall'art. 366 CCII) nel caso in cui la Suprema Corte cassi il rigetto del reclamo ex art. 18 l. fall.

La Corte dichiara inammissibile (sembrerebbe, per difetto di interesse) il primo motivo. Deve, infatti, ritenersi valida la notifica effettuata al liquidatore sociale ex art. 145 c.p.c. di una società cancellata dal Registro delle Imprese, ancorché l'art. 15 l. fall. preveda – per le ipotesi di impossibilità di perfezionamento della notifica a mezzo p.e.c. ovvero presso la sede sociale – la sola notifica mediante deposito presso la Casa Comunale. Ed invero, continua la Corte, le previsioni di cui all'art. 15 l. fall. (miranti a garantire la celerità del procedimento prefallimentare) non escludono (in linea di principio) la legittimità di ogni altra forma di notificazione scelta dal creditore istante, ove questa si riveli (come nel caso di specie) addirittura più garantista nei confronti del debitore, consentendogli di esercitare pienamente il diritto di difesa che, nel caso di deposito del plico presso la Casa Comunale, sarebbe stato pregiudicato.

La Corte accoglie, invece, il secondo motivo di ricorso ribandendo i seguenti principi:

  • è legittimato a proporre istanza di fallimento, ex art. 6 l. fall., qualunque “creditore”, ossia qualsiasi soggetto munito di una pretesa astrattamente idonea (una volta aperto il concorso) ad essere ammessa al passivo, a prescindere, dunque, dal contenuto della pretesa di credito e dal tipo di azione in altra sede giudiziale intrapresa a sua tutela;
  • il fideiussore, ancorché escusso dal creditore garantito, non è, però, legittimato a proporre istanza di fallimento contro il debitore principale finché non abbia provveduto all'effettivo pagamento, non sorgendo, prima dell'adempimento dell'obbligazione garantita, alcun credito da regresso/surroga (neppure condizionale ex art. 61, comma 2, l. fall.).

Riguardo, infine, al terzo profilo, la Corte - alla luce del disposto di cui all'art. 147 TU Spese Giustizia, nella versione novellata dall'art. 366 CCII (ritenuto applicabile ai giudizi ex art. 18 l. fall. instaurati dopo la sua entrata in vigore, come quello di specie) – afferma che la formale revoca della dichiarazione di fallimento e la decisione sull'addebito dei costi di procedura (incluso il compenso del curatore) medio tempore maturati non può essere effettuata direttamente dalla Corte di Cassazione tutte le volte in cui (come nel caso di specie) sia necessario svolgere ulteriori accertamenti in fatto.



Osservazioni

La decisione della Corte si pone nel solco del precedente di Cass. civ., sez. VI, 6 novembre 2017, n. 26276 (e solo parzialmente in contrasto con Cass. civ., sez. VI, 8 febbraio 2022, n. 4030, giacché in quell'ipotesi non vi era impossibilità di procedere con le modalità ordinarie né vi era prova che ciò fosse avvenuto), pervenendo ad un ragionevole e condivisibile bilanciamento, in fase applicativa, tra l'esigenza di assicurare la conoscenza del procedimento (quale fondamento di un pieno ed effettivo esplicarsi del diritto di difesa), precipuamente sottesa alla disciplina generale delle notificazioni, e l'esigenza di celerità cui il procedimento notificatorio (definito “semplificato”) è improntato in sede concorsuale.

Ed invero, la soluzione cui accede la Corte, laddove ritiene legittima la notifica effettuata con modalità diverse da quelle previste dall'art. 15 l. fall., allorché più tutelanti per il debitore, consente di salvaguardare gli effetti della notificazione ove la stessa risulti essere stata idonea ad assicurare l'effettiva - non solo giuridica - conoscenza della pendenza del procedimento e il conseguente pieno diritto di difesa, senza nel contempo introdurre oneri ulteriori nell'ambito del procedimento notificatorio in sede concorsuale. In altri termini, la Corte non interviene sull'interpretazione del dato normativo di cui all'art. 15 l. fall., il cui perimetro non viene esteso a modalità diverse o ulteriori di notifica, ma salvaguarda l'effetto utile dell'atto notificatorio concretamente avvenuto (pur sempre secondo forme tipicamente previste dall'ordinamento), in ossequio ai principi generali di conservazione dell'atto e di raggiungimento dello scopo, così pervenendo – come sopra anticipato – ad una soluzione del caso concreto capace di delineare una efficace sintesi tra le due esigenze astrattamente sottese al procedimento notificatorio. Del resto, il c.d. “raggiungimento dello scopoex art. 156 c.p.c. è applicato dalla Suprema Corte, come noto, anche in tema di notifica (cfr. ex multis Cass. civ., sez I, 24 ottobre 2022, n. 31353 e Cass. civ., sez. I, 22 novembre 2021, n. 35842). Ovviamente, sarà rimessa al giudice di merito la valutazione circa tale maggiore o equivalente tutela.

Da ultimo, merita un cenno, sul piano processuale, il principio dell'interesse ad agire, non essendo configurabile un concreto ed attuale interesse a contestare l'illegittimità di una notifica avvenuta secondo modalità più tutelanti per il debitore (e comunque ammesse dalla disciplina generale delle notificazioni), né in capo a quest'ultimo (essendo stato salvaguardato il proprio diritto di partecipazione al processo e di difesa nella maniera più ampia), né in capo agli altri soggetti coinvolti nella procedura concorsuale, posto che l'avvenuta notifica con modalità idonee ad assicurare la conoscenza non incide sull'esigenza di celerità, né pregiudica sul piano giuridico altrui posizioni.

Aderente ai principi già espressi dalla Suprema Corte è, altresì, la decisione (in contrasto con le pronunce del giudice di prime e seconde cure) di non ritenere legittimato all'istanza di fallimento il fideiussore che non abbia già provveduto al pagamento di quanto dovuto quale garante. Ed invero, la pretesa del fideiussore, in tale peculiare ipotesi, non è qualificabile (secondo l'orientamento consolidatosi a partire da Cass. civ., sez. I, 1 gennaio 2013, n. 613, in tema di amministrazione straordinaria, seguita da Cass. civ., sez. I, 4 agosto 2017, n.19609; Cass. civ., sez. VI, 5 settembre 2019, n. 22308 e Cass. civ., sez. I, 15 giugno 2020, n.11521 nonché da Cass. civ. sez. I, 6 settembre 2019, n. 22382, in tema di concordato preventivo e diritto di voto, e in contrasto con talune pronunce di merito; cfr. Trib. Monza, 16 novembre 2017, n.3322 e Trib. Latina 24 ottobre 2012, tutte in Dejure.it) quale credito condizionale ma, semmai quale credito meramente eventuale. Coerentemente con quanto ritenuto dalla Corte (anche sulla scorta di Cass. civ., sez. I, 11 novembre 2020, n. 25317, con nota di V. Papagni in Diritto & Giustizia), si è affermato che il fideiussore, prima di aver pagato, non può insinuarsi al passivo neppure in via condizionata, ma può presentare istanza di ammissione al passivo solo dopo aver effettuato il pagamento. Peraltro, nel caso di pagamento effettuato successivamente all'apertura del fallimento (e, quindi, ancorché non si applichino le disposizioni di cui all'art. 101 l.fall.) l'insinuazione deve avvenire nel termine “congruo” di un anno dal medesimo (in adesione alle statuizioni di Cass. civ., sez. VI, 2 febbraio 2021, n. 2308).

In effetti, da un punto di vista tecnico-giuridico, è ragionevole ritenere che il pagamento da parte del fideiussore non integri una circostanza esterna, cui l'efficacia del titolo alla base del credito sia condizionato, bensì rappresenti un elemento costitutivo della pretesa creditoria in via di regresso, senza il quale la stessa non può dirsi sorta, sul piano genetico (prima che effettuale). Il mancato pagamento, dunque, non sospende l'efficacia del credito di regresso, ma lo rende soltanto eventuale.

Resta ad ogni modo fermo che il fideiussore escusso che non abbia ancora pagato (perché, come nel caso di specie, ritiene insussistente un suo obbligo in tal senso) corre, tuttavia, il rischio di vedere pregiudicati i propri diritti verso il debitore principale allorché questi venga cancellato dal registro delle imprese e il fideiussore medesimo si trovi a dover effettuare il pagamento una volta decorso più di un anno da tale cancellazione. In tal caso, non potendo più agire per la declaratoria di fallimento e la conseguente insinuazione al passivo del proprio credito da regresso, non gli resterebbe che tentare di esperire i rimedi (non particolarmente pregnanti) di cui all'art. 2495, ultimo comma, c.c., ovvero rimedi risarcitori nei confronti degli amministratori/liquidatori.

Con riguardo all'ultimo profilo (oggetto, rispetto alla norma previgente, della nota di G. Lazoppina, inquesto portale, 29 dicembre 2022) sono a nostro avviso condivisibili: (i) la decisione di ritenere applicabile alla fattispecie in esame l'art. 147 d.p.r. 115/2002(TU Spese di giustizia) come modificato dall'art. 366 CCII (alla luce di quanto previsto dagli artt.366 e 389, comma 2, CCII); (ii) l'applicazione estensiva di quest'ultima norma (che ora parla di “liquidazione giudiziale”) ad un'ipotesi di revoca della sentenza dichiarativa di fallimento, stante l'identità di ratio. Peraltro, considerando che nel caso di specie il soggetto dichiarato fallito era una persona giuridica, si potrebbe forse leggere nella decisione della Corte un (implicito) riconoscimento dell'applicabilità dell' art. 147 TU Spese di giustizia non solo al “debitore persona fisica”, come letteralmente previsto dalla norma, ma altresì (come ritenuto - con interpretazione costituzionalmente orientata - dalla giurisprudenza di merito commentata e richiamata nella nota di G. Lazoppina di cui sopra) anche alle persone giuridiche? Il rinvio disposto dalla Cassazione non è univoco in questo senso. Sarà, quindi, interessante capire,

  • quali saranno gli elementi di fatto che la Corte d'appello (in sede di rinvio) valorizzerà al fine di addebitare le spese di procedura medio tempore maturate al creditore (per “colpa”) ovvero al debitore (“per aver dato causa, con il suo comportamento, alla dichiarazione di apertura della liquidazione giudiziale”); verosimilmente giocheranno un ruolo, da un lato, i precedenti sul difetto di legittimazione attiva del fideiussore e, dall'altro lato, la decisione del debitore principale di cancellarsi dal registro delle imprese, che potrebbe aver indotto il fideiussore ad attivarsi anzitempo (anche al fine di evitare i pregiudizi di cui si è detto sopra);
  • laddove la Corte d'Appello ritenesse “imputabile” il fallimento al fatto del debitore, se la medesima riterrà applicabile anche ad una società la disposizione di cui all'art. 147 TU Spese Giustizia;
  • su chi verranno allocate le spese nell'ipotesi in cui la Corte d'appello non individui la “colpa” del creditore o il concorso colposo del debitore.

Ad ogni modo va, poi, osservato che se – da un lato - il novellato art. 147 d.p.r. 115/2002ha senz'altro il pregio di dissuadere i creditori dal proporre istanze di fallimento (in analogia all'art. 96 c.p.c. e 1284, comma 4, c.c.), dall'altro lato, non sarà sempre agevole configurare un comportamento “colposo” del creditore, soprattutto (come nel caso di specie) laddove la sua iniziativa sia stata vagliata positivamente da ben due giudici; inoltre, fermo restando che ora non è più previsto che la condanna del creditore al pagamento delle spese avvenga solo “se condannato ai danni per aver chiesto la dichiarazione di fallimento”, non pare del tutto equo (oltre che in contrasto con i principi di prevedibilità del danno risarcibile e/o di causalità) che possano gravare sul creditore spese e compensi che, in ipotesi, sono maturati – anche per anni – solo a causa dei tempi lunghi necessari per ottenere una pronuncia del giudice di appello e, ancora di più, della Cassazione. Si pone qui l'esigenza, certamente meritevole di approfondimento in chiave giurisprudenziale (se non anche de iure condendo) di accedere ad una interpretazione del requisito della “colpa” che, anche in materia di spese, lo restituisca ad un'accezione più propriamente soggettiva (più che di mera allocazione del “rischio” connesso all'esito del contenzioso), che faccia salve le ipotesi in cui la condotta risulti ragionevole, alla luce di tutte le circostanze del caso, o quantomeno non implichi profili di colpa grave (o dolo). Si tratterebbe, in definitiva, di una lettura del requisito della “colpa” maggiormente coerente con la nozione di “colpevolezza”, avuto riguardo ai principi di equità, proporzionalità e prevedibilità.



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