Legittimo il licenziamento per giusta causa del lavoratore che rivolge apprezzamenti sui costumi sessuali di una collega

Maurizio Polato
28 Giugno 2023

L'articolo esamina le motivazioni sulle quali la sentenza della Cassazione fonda il giudizio di legittimità del licenziamento (destituzione) per giusta causa di un autoferrotranviere che, all'esterno del luogo di lavoro in ambiente pubblico dileggia una collega puerpera per il suo orientamento sessuale. I giudici, dopo avere ribadito che la giusta causa si sostanzia non solo sulle caratteristiche della relazione giuridica su cui si proiettano i principi dell'ordinamento, bensì ricorrendo anche a standard sociali extra giuridici, si soffermano sulle molestie sessuali quali vulnus al generale impianto di tutela che ha trovato puntuale specificazione nell'ordinamento attraverso la previsione di discipline antidiscriminatorie in vario modo intese ad impedire o a reprimere forme di discriminazione legate al sesso.
Massima

Per consolidata giurisprudenza di legittimità, la "giusta causa" di licenziamento ex art. 2119 c.c. - posta a fondamento del provvedimento di destituzione, unitamente alla previsione regolamentare - integra una clausola generale, che richiede di essere concretizzata dall'interprete tramite valorizzazione dei fattori esterni relativi alla coscienza generale e dei principi tacitamente richiamati dalla norma, quindi mediante specificazioni che hanno natura giuridica e la cui disapplicazione è deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, mentre l'accertamento della ricorrenza concreta degli elementi del parametro normativo si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito e incensurabile in cassazione se privo di errori logici e giuridici; la sussunzione della fattispecie concreta nella clausola elastica della giusta causa secondo "standards" conformi ai valori dell'ordinamento, che trovino conferma nella realtà sociale, è dunque sindacabile in sede di legittimità con riguardo alla pertinenza e non coerenza del giudizio operato, quali specificazioni del parametro normativo avente natura giuridica e del conseguente controllo nomofilattico affidato alla Corte di cassazione.

Il caso

Il caso affrontato dalla Corte di Cassazione riguarda un datore di lavoro, agente del cambiamento, impegnato nella difesa dei diritti fondamentali all'interno del contesto lavorativo.

Il Datore di lavoro è un'azienda operante nel servizio pubblico dei trasporti. È un'azienda che ha posto a fondamento, del corretto comportamento nelle interrelazioni verticali e orizzontali, l'etica, segnatamente in ottica di tutela della persona specificando, nel Codice Etico, che “[L'azienda] esige che nelle relazioni di lavoro non sia dia luogo a molestie di alcun genere” (1).

I fatti

Un lavoratore è stato licenziato per giusta causa, ex

art. 2119 c.c.

, posta a fondamento del provvedimento di destituzione.

I fatti oggetto di contestazione riguardano un episodio avvenuto in servizio, in un luogo pubblico, davanti all'utenza. Durante un cambio turno il dipendente in divisa dirigeva apprezzamenti irridenti sui costumi sessuali di una collega puerpera, mentre la stessa stava per prendere servizio. Sentendosi offesa per le domande “sconvenienti” pronunciate ad alta voce davanti all'utenza, la “vittima” aveva deciso di presentare una segnalazione all'azienda per il comportamento gravemente lesivo del Codice Etico aziendale adottato il 23 dicembre 2021 e delle regole di civile convivenza evidenziando il fastidio/disagio per tale conversazione e rivendicando il rispetto alla propria vita privata.

L'azienda provvedeva ad attivare la procedura interna che porta alla convocazione innanzi alla Commissione di Inchiesta. Tuttavia, il dipendente, lungi dall'addurre giustificazioni, si era reso altresì colpevole di intimidazioni a testimoni, nonché di espressioni offensive e minacciose nei confronti del Presidente della Commissione di Inchiesta.

L'azienda, valutato l'episodio con la collega, la recidiva e il contegno tenuto innanzi alla Commissione di Inchiesta, adotta un provvedimento di destituzione in tronco per due addebiti.

Il primo addebito contestato riguarda l'episodio avvenuto in servizio con la collega, anche aggravato da recidiva specifica infrabiennale; il secondo addebito per le offese e minacce rivolte al Presidente della Commissione di disciplina. Entrambi gli addebiti, considerati sia separatamente sia nel loro complesso, risultano secondo l'azienda di gravità tale da giustificare il recesso sia in relazione alla normativa generale, sia a quella speciale che prevede la destituzione di “chi per azioni disonorevoli o immorali, ancorché non costituiscano reato o trattisi di cosa estranea al servizio, si renda indegno della pubblica stima” (art. 45 punto 6 All. A), R.d. n. 148/1931) (2).

Il Giudice di prime cure considera fondato e proporzionato il provvedimento espulsivo e ne conferma la legittimità.

La Corte di Appello di Bologna, con sentenza n. 211 del 7 luglio 2020, in riforma della sentenza di primo grado (quest'ultima confermativa dell'ordinanza sommaria), dopo aver del tutto svalutato l'addebito disciplinare avente ad oggetto le parole offensive, con apprezzamenti sessuali, pronunciate dall'autista nei confronti della sua collega, venendo in rilievo una condotta inurbana (in quanto concernente apprezzamenti sulla sfera sessuale di una collega), ma comunque meno grave di altra, concernente "il contegno inurbano o scorretto verso il pubblico", punita con sanzione conservativa dal Regolamento All. A) R.d. n. 148/1931 e, in relazione al secondo addebito, costituito dall'avere il dipendente rivolto espressioni offensive e minacciose nei confronti del Presidente della Commissione di disciplina, riteneva che la condotta non fosse connotata da particolare gravità. Di talché ha, quindi, dichiarato risolto il rapporto di lavoro tra M.M. e T. s.p.a. alla data di efficacia del recesso datoriale e condannato la reclamata società al pagamento di un importo pari a venti mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, oltre accessori.

Avverso la sentenza di appello, per la cassazione della decisione il lavoratore destituito ha proposto ricorso sulla base di un unico motivo, denunziando la mancata applicazione della tutela reintegratoria, sulla base della considerazione che, in relazione all'unico fatto ritenuto sussistente, rappresentato dal secondo addebito, il venir meno del carattere di gravità comportava l'applicazione della sanzione conservativa a mente dell'art. 43 comma 1 n. 3 del Regolamento Allegato A) R.d. n. 148-1931 e che, conseguentemente, alla declaratoria di illegittimità del licenziamento doveva conseguire l'applicazione della tutela reale ai sensi della L. n. 300/1970, art. 18, comma 4, nel testo modificato dalla L. n. 92/2012 (Così, la sentenza della Cass. in commento a pag. 2).

Le questioni e le soluzioni giuridiche

Per l'ennesima volta la Cassazione si ritrova a dover spiegare il concetto di “giusta causa” come “clausola generale” o norma “in bianco” (3).

Ond'è che sulla divisata distinzione vi è chi, come nella sentenza in commento, estende il campo delle argomentazioni dirette, nel completare la clausola, alla definizione della norma astratta non solo alle caratteristiche della relazione giuridica su cui si proiettano i principi dell'ordinamento, bensì ricorrendo anche a standard sociali extra giuridici.

Nel contesto valoriale espresso in termini normativi, gli Ermellini si soffermano su principi dell'ordinamento di rilevanza costituzionale, richiamando in primo luogo il diritto alla riservatezza in ambiti che coinvolgono la sfera intima della persona, come quello dell'orientamento sessuale, e concentrandosi sulla “centralità che nel disegno della Carta costituzionale assumono i diritti inviolabili dell'uomo (art. 2), il riconoscimento della pari dignità sociale, "senza distinzione di sesso", il pieno sviluppo della persona umana (art. 3), il lavoro come ambito di esplicazione della personalità dell'individuo (art. 4), oggetto di particolare tutela "in tutte le sue forme ed applicazioni" (art. 35) (V. pag. 5 della Sent.).

Gli Ermellini, diversamente da quanto opinato dal Giudice del reclamo, non condividendone il ragionamento decisorio, hanno valorizzato anche il primo addebito, valutandone l'importanza ed il senso attraverso il cono di luce offerto dall'art. 2119 del c.c., rimarcando che “per consolidata giurisprudenza di questa Cortela "giusta causa" di licenziamento ex art. 2119 c.c. - posta a fondamento del provvedimento di destituzione, unitamente alla previsione regolamentare - integra una clausola generale, che richiede di essere concretizzata dall'interprete tramite valorizzazione dei fattori esterni relativi alla coscienza generale e dei principi tacitamente richiamati dalla norma, quindi mediante specificazioni che hanno natura giuridica e la cui disapplicazione è deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, mentre l'accertamento della ricorrenza concreta degli elementi del parametro normativo si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito e incensurabile in cassazione se privo di errori logici e giuridici; la sussunzione della fattispecie concreta nella clausola elastica della giusta causa secondo "standards" conformi ai valori dell'ordinamento, che trovino conferma nella realtà sociale, è dunque sindacabile in sede di legittimità con riguardo alla pertinenza e non coerenza del giudizio operato, quali specificazioni del parametro normativo avente natura giuridica e del conseguente controllo nomofilattico affidato alla Corte di cassazione” (v. tra le altre, Cass. n. 12789/2022, Cass. n. 7426/2018, Cass. n. 31155/2018, Cass. n. 25144/2010) (Pag. 4 della Sentenza).

Il concetto di “giusta causa” compendia elementi assiologici esterni, presenti nella società, e principi presenti nell'ordinamento giuridico.

Pertanto, la valutazione operata dal giudice di merito, nel ricondurre a mero comportamento "inurbano" la condotta de qua non è conforme né ai valori presenti nella realtà sociale, né ai principi dell'ordinamento, in quanto il contenuto delle espressioni usate e le circostanze di fatto in cui il comportamento del dipendente va contestualizzato, si pongono in contrasto con valori ben più pregnanti, ormai radicati nella coscienza generale, ed espressione di principi generali dell'ordinamento(4); nella società è stata acquisita la consapevolezza del rispetto che merita qualunque scelta di orientamento sessuale e del fatto che essa attiene ad una sfera intima e assolutamente riservata della persona; l'intrusione in tale sfera, effettuata peraltro con modalità di scherno e senza curarsi della presenza di terze persone, violando, altresì, la generale esigenza di riservatezza relativa a dati sensibili riferibili alla persona, tra i quali quello relativo all'orientamento sessuale, non può pertanto essere considerata secondo il "modesto" standard della violazione di regole formali di buona educazione utilizzato dal giudice del reclamo, ma deve essere valutata tenendo conto della centralità che, nel disegno della Carta costituzionale, assumono i diritti inviolabili dell'uomo in quanto persona e in quanto lavoratore.

Tale generale impianto di tutela ha trovato puntuale specificazione nell'ordinamento attraverso la previsione di discipline antidiscriminatorie in vario modo intese ad impedire o a reprimere forme di discriminazione legate al sesso.

Sulla base di tali considerazioni la S.C. cassa la decisione per il riesame della complessiva fattispecie al fine della verifica della sussistenza della giusta causa di licenziamento alla luce della corretta scala valoriale di riferimento come ricostruita in motivazione.

Osservazioni

Il rapporto di lavoro degli autoferrotranvieri è ancora oggi disciplinato prevalentemente dal R.d. 8 gennaio 1931, n. 148 e in particolare dai 59 articoli dell'allegato A, che, sebbene oggetto di numerosi interventi della Corte Costituzionale, sono rimasti sostanzialmente invariati.

Nella sua originaria formulazione, il regio decreto si applicava soltanto al personale delle ferrovie, tranvie e linee di navigazione interna in regime di concessione ma, a seguito di una serie di interventi legislativi, è divenuta la normativa di riferimento per tutto il trasporto pubblico locale.

Va precisato, altresì, che il rapporto di lavoro degli autoferrotranvieri - ivi inclusa la procedura di irrogazione delle sanzioni disciplinari - è regolato da una normativa speciale costituente un "corpus" compiuto ed organico, non derogato dalle leggi generali successive relative al lavoro privato, onde il ricorso alla normativa generale è possibile soltanto ove si riscontrino in essa lacune tali che non siano superabili neanche attraverso l'interpretazione estensiva o analogica di altre disposizioni appartenenti allo stesso "corpus" o relative a materie analoghe o secondo i principi generali dell'ordinamento (Cass. civ., sez. lav., 6 marzo 2013, n. 5551).

Sulla base di tale principio è stato ritenuto necessario applicare l'intero contenuto dell'art. 7 Stat. lav. ai procedimenti disciplinari nei confronti degli autoferrotranvieri, anche in considerazione della circostanza che le stesse Sezioni Unite (Cass. civ., sez. un.,13 gennaio 2005, n. 460), nel demandare al giudice ordinario la sindacabilità delle sanzioni disciplinari, hanno espressamente fatto riferimento in motivazione all'art. 7.

Dopo l'introduzione della reintegrazione nel nostro ordinamento, dottrina e giurisprudenza hanno unanimemente ritenuto che essa si applicasse anche agli autoferrotranvieri, in ragione della cd. vis espansiva dell'art. 18 Stat. lav., con particolare riferimento alle tutele accordate in caso di illegittimità del recesso datoriale, nonostante la disciplina limitatrice dei licenziamenti individuali non trovasse invece applicazione per altri aspetti, sul presupposto che il regio decreto contenga una disciplina compiuta ed organica della materia [Cass. 5 ottobre 2016, n. 19932; Cass. 2 settembre 2015, n. 17436; Cass. 10 luglio 2012, n. 11547].

Sebbene il regio decreto contenga una compiuta disciplina delle fattispecie per le quali il lavoratore può essere licenziato (rectius destituito), anche ulteriori vicende, eventualmente extralavorative, potrebbero minare l'elemento fiduciario, analogamente a quanto accade nel settore privato (5).

Con riguardo all'applicabilità agli autoferrotramvieri della disciplina di cui al D.lgs. n. 23/2015, con particolare riferimento alle tutele accordate in caso di illegittimità del recesso datoriale, il Ministero del lavoro, nella risposta ad un interpello dell'ANAV e dell'Associazione Trasporti (ASSTRA), dopo avere premesso che il rapporto di lavoro della categoria degli autoferrotranvieri trova la propria regolamentazione nel R.d. n. 148/1931, nonché nelle disposizioni della contrattazione collettiva di settore del 23 luglio 1976, che peraltro possono derogare, ai sensi della L. n. 270/1988, ai principi contenuti nel medesimo Decreto, e ricordato che la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto che la regolamentazione in questione, specie con riferimento alla materia dei procedimenti disciplinari di cui all'allegato A del Regio Decreto, costituisse un corpus normativo unico avente i caratteri della specialità e come tale passibile di modifiche solo mediante specifici interventi legislativi, salva la possibile integrazione con le norme generali in relazione a specifiche lacune, non superabili neanche mediante una lettura "analogico-estensiva" di altre disposizioni del Regio Decreto afferenti a materie analoghe ovvero ai principi generali dell'ordinamento (cfr. Cass. n. 5551/2013 che richiama Cass. n. 11929/2009), osserva che il Regio Decreto contempla esclusivamente alcune fattispecie di recesso (la cessione di linee, la riduzione dei posti, l'inabilità al servizio, lo scarso rendimento, nonché la destituzione) mentre, anche in esito all'abrogazione dell'art. 58 Allegato A, nulla dispone in relazione alle tutele accordate al lavoratore nelle ipotesi di licenziamento illegittimo.

A fronte dell'indicato contesto normativo, la Corte di Cassazione (cfr. sent. n. 11547/2012), superata la giurisdizione esclusiva di cui al richiamato art. 58 con conseguente devoluzione alla giurisdizione ordinaria delle controversie afferenti il rapporto di lavoro degli autoferrotranvieri, ha ritenuto che debba trovare applicazione per tutte le fattispecie di licenziamento aventi titolo nel Regio Decreto la disciplina generale ex art. 18, L. n. 300/1970.

Tanto in ragione della forza espansiva dell'art. 18 "che lo rende riferibile ed applicabile anche a casi diversi da quelli in esso contemplati e tuttavia ad essi però assimilabili sotto il profilo dell'identità di ratio (cfr. Corte Cost. n. 338/1988; Corte Cost. n. 17/1987) e quindi a tutte le ipotesi di invalidità del recesso del datore di lavoro, qualora non assoggettate ad una diversa, specifica disciplina", come avviene nel caso in esame.

Tale soluzione interpretativa, come asserito dalla giurisprudenza, si ispira alla necessità di garantire in materia la certezza del diritto, nonché la parità di trattamento sul piano delle tutele tra tutti i lavoratori dipendenti.

A tale ricostruzione va ulteriormente aggiunto che il Legislatore è intervenuto con il D.lgs. n. 23/2015 sulla disciplina delle tutele accordate in caso di licenziamento "per i lavoratori che rivestono la qualifica di operai impiegati o quadri, assunti con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato (...)" decorrente dall'entrata in vigore del Decreto.

In definitiva, stante l'orientamento giurisprudenziale innanzi indicato e le esigenze di certezza del diritto e parità di trattamento cui è ispirato, si ritiene che le tutele accordate in caso di licenziamento illegittimo dei lavoratori autoferrotranvieri debbano seguire la disciplina di carattere generale contenuta nell'art. 18 della L. n. 300/1970 e nel D.lgs. n. 23/2015 secondo il rispettivo ambito applicativo e di decorrenza(Ministero del lavoro e delle politiche sociali - Interpello 24 settembre 2015, n. 37/0015442).

Non è revocabile in dubbio che la clausola generale della “giusta causa”, in questa come in altre pronunzie, non può prescindere, anche nel settore degli autoferrotranvieri, destinatario di una specifica normativa in materia disciplinare, da una verifica in concreto della lesione dell'elemento fiduciario, operata prendendo in considerazione gli aspetti concreti afferenti alla peculiarità del singolo rapporto, alla natura ed oggetto della prestazione, al grado di affidamento richiesto dalle specifiche mansioni, nonché alla portata soggettiva della condotta (6).

Pertanto, le previsioni del R.d. n. 148/1931, e del contratto collettivo, sono state infatti utilizzate [dal giudicante] quale parametro integrativo della clausola generale di cui all'art. 2119 c.c., per verificare la sussistenza o meno della giusta causa di licenziamento (Cass., sez. lav., 9 marzo 2021,n. 6495).

Non vi è chi non abbia sottoposto all'analisi strutturale del presupposto della giusta causa di licenziamento l'elemento fiduciario del rapporto di lavoro, atteso che dottrina e giurisprudenza hanno riconosciuto grande centralità a tale elemento (7), attribuendogli il valore di presupposto fondamentale del contratto di lavoro e configurando il suo venir meno quale fattore integrante l'elastico canone di “causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto”.

Il giudice può ritenere la sussistenza della giusta causa per un grave inadempimento o per un grave comportamento del lavoratore contrario alle norme della comune etica o del comune vivere civile ove tale grave inadempimento o tale grave comportamento, secondo un apprezzamento di fatto non sindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato, abbia fatto venire meno il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore (Cass., sez. lav., 1° dicembre 2014, n. 25380).

Altro aspetto d'interesse, oggetto della parte estesa della sentenza in commento, è quello del diritto antidiscriminatorio.

È notevole e di rilievo il percorso logico seguito dal giudice di legittimità laddove afferma che l'impianto di tutela disegnato da talune norme costituzionali abbia «trovato puntuale specificazione nell'ordinamento attraverso la previsione di discipline antidiscriminatorie in vario modo intese ad impedire o a reprimere forme di discriminazione legate al sesso; tra queste assume particolare rilievo il D.lgs. n. 198/2006, (Codice delle pari opportunità tra uomo e donna) il cui art. 26, comma 1 statuisce che "Sono considerate come discriminazioni anche le molestie, ovvero quei comportamenti indesiderati, posti in essere per ragioni connesse al sesso, aventi lo scopo o l'effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo."» (pag. 5 della sentenza) (8).

La nozione di molestie sfugge alla struttura espressamente relazionale propria delle discriminazioni.

In tutte le definizioni di “molestia” il richiamo alla parità di trattamento è sostituito dall'indicazione del comportamento vietato descritto ex se, nella sua materialità e segnatamente nella sua idoneità a ledere i diritti fondamentali delle persone offese, una ricostruzione che porta ad un esito estremo la profonda modificazione del modello relazionale indotta, più generalmente in tutta la materia delle discriminazioni, dalle direttive di seconda generazione e dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia (9).

In linea con tale assunto si colloca l'assunto della Corte d'Appello fiorentina per la quale “Integrano "giusta causa" di licenziamento le molestie sessuali realizzate da un dipendente ai danni di una collega. Ai sensi dell'art. 26, D.lgs. 11 aprile 2006, n. 198, che parifica le molestie sessuali alle discriminazioni, è sufficiente che il comportamento del molestatore, indesiderato dalla persona che lo subisce, sia oggettivamente idoneo a ledere la sua dignità ("effetto"); mentre non rileva l'intenzione soggettiva dell'autore della condotta stessa ("scopo"). (Corte d'Appello, Firenze, sez. lav., 14 gennaio 2020).

Note

(1) C. Ogriseg, È giusta causa di licenziamento l'irridente dileggio di una collega con ostilità di genere, in Guida dir., 31 marzo 2023, n. 14.

(2) Non disponendo delle sentenze di primo grado e del gravame, la ricostruzione in fatto è tratta da C. Ogriseg, op. cit.

(3) Sulla distinzione v. Il licenziamento individuale, in Oronzo Mazzotta e Giulio Ponzanelli, Il Codice Civile, Commentario, Milano, 2023.

(4) Bosco, Espressioni omofobe verso una collega e licenziamento per giusta causa, in Dossier e monografie, Top24 Lavoro, 21 marzo 2023.

(5) Cfr. M. Mocella, commento all'art. 59, R.d. 8 gennaio 1931, n. 148, in Codice del lavoro commentato, onelegale.wolterskluwer.it.

(6) Tribunale Trento, 10 giugno 2014, in Riv. Dir. lav., 2014, 4, II, 780, con nota di Dagnino.

(7) Per una posizione critica rispetto all'impostazione maggioritaria cfr. G. Pisani, Licenziamento e fiducia, Milano, 2004; Il licenziamento individuale, in Oronzo Mazzotta e Giulio Ponzanelli, Il Codice Civile, cit.

(8) V. amplius, H. Ege, D. Tambasco, Il Lavoro Molesto, Milano, 2021.

(9) Cfr. E. Tarquini, Le discriminazioni sul lavoro e la tutela giudiziale, Milano, 2015.

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