Addizionale Ires su profitti del settore finanziario

29 Giugno 2023

La Cassazione si pronuncia in materia di sovraimposte su settori specifici, quali quello finanziario, applicabili a società di gestione del risparmio.
Massima

L'aliquota Ires maggiorata per le SGR più che un'addizionale è una sovraimposta, che si giustificava in ragione di un contesto temporale caratterizzato da una pesante crisi che aveva colpito tutti i settori economici, non essendo censurabile la scelta di assumere come presupposto dell'imposizione l'appartenenza dei soggetti passivi al mercato finanziario, ravvisando in tale appartenenza uno specifico indice di capacità contributiva.

Il caso

La Corte di Cassazione, con la sentenza in commento, ha riconosciuto la fondatezza di sovraimposte su specifici settori (nel caso in esame, quello finanziario), quando non arbitrarie.

Nel caso di specie, la contribuente censurava la sentenza impugnata per avere questa ritenuto legittimo il silenzio-rifiuto opposto dall'Ufficio all'istanza di rimborso dell'addizionale Ires (all'8,5%) corrisposta in virtù del d.l. n. 133/2013, dopo aver ritenuto i giudici manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale della disposizione istitutiva della stessa misura.

Osservava la ricorrente che nel corso dei lavori preparatori era emerso che l'addizionale era stata introdotta per reperire in breve le risorse necessarie per procedere all'abolizione della seconda rata dell'Imu per l'anno di imposta 2013; e che, tuttavia, il reperimento di risorse per attuare il programma di governo non legittimava la decretazione d'urgenza.

L'introduzione dell'addizionale a carico delle sole imprese creditizie e finanziarie, secondo la società, non poteva del resto giustificarsi in ragione del principio solidaristico, come ritenuto nella sentenza impugnata, in quanto tale finalità non era menzionata nel preambolo del decreto legge ed anche considerato che non vi era alcuna distinzione delle abitazioni principali non di lusso sottratte all'imposizione in ragione del loro valore catastale o della superficie.

Con un secondo motivo la ricorrente censurava poi la sentenza per aver ritenuto manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale della disposizione, sebbene la medesima violasse i principi di uguaglianza e capacità contributiva, osservando che l'addizionale determinava un'irragionevole disparità di trattamento nei confronti delle imprese finanziarie e creditizie, non rispondente ad alcuna giustificazione obiettiva, essendo la stessa previsione incoerente con il suo presupposto economico, ovvero la particolare forza economica e finanziaria delle imprese da colpire, soprattutto in riferimento alle S.G.R. e S.I.M.

Le questioni

In sostanza, la ricorrente sosteneva di avere diritto al rimborso di quanto corrisposto in ragione dell'art. 2, comma 2, d.l. n. 133/2013, assumendo che la lettura costituzionalmente orientata della norma doveva indurre ad escludere dal novero dei destinatari della sovrimposta i soggetti che esercitavano attività finanziaria di natura non speculativa. Sosteneva, ancora, la società che mancava un presupposto d'imposta specifico cui agganciare la maggiore tassazione, con lesione della libertà di iniziativa economica e della tutela del risparmio.

Nelle more del giudizio, era comunque intervenuta la sentenza della Consulta n. 288 del 2019, che dichiarava la legittimità costituzionale della - così qualificata - sovraimposta, rispondendo a censure di legittimità costituzionale analoghe a quelle sollevate con il ricorso in esame.

E sulla stessa questione, poi, la Consulta si era nuovamente espressa con l'ordinanza n. 165 del 2021, escludendo ancora ogni violazione costituzionale ed evidenziando che la disposizione censurata, nonostante l'espressa qualifica come "addizionale", era comunque piuttosto riconducibile al novero delle "sovraimposte", dal momento che, a fronte dell'identità del parametro (il reddito), il prelievo era a carico solo di determinati soggetti passivi e su una base imponibile in parte differenziata.

La diversificazione del regime tributario per tipologia di contribuenti posta dalla misura in esame, che, in via straordinaria e temporanea, aveva incrementato il prelievo fiscale a carico di un'unica, ristretta, cerchia di soggetti, secondo i giudici costituzionali, era dunque supportata da adeguate giustificazioni, laddove lo spostamento della fiscalità dall'imposizione immobiliare sulle persone fisiche a quella reddituale su determinate persone giuridiche non aveva determinato un'irragionevole discriminazione qualitativa dei redditi, ma un innegabile, per quanto parziale, effetto redistributivo e solidaristico, non essendo “implausibile” desumere dall'appartenenza del contribuente al mercato finanziario uno specifico ed autonomo indice di capacità contributiva, rilevante ai fini di un temporaneo intervento anticongiunturale.

La ricorrente sosteneva tuttavia che, pur considerando quanto espresso dalla Consulta, l'illegittimità costituzionale della norma persisteva comunque nei confronti delle S.G.R., non esercitando queste ultime l'attività di erogazione del credito ai propri clienti ed essendo esposte in misura irrisoria al rischio di credito.

L'evoluzione normativa in materia testimoniava inoltre, secondo la società, che anche il legislatore (con riferimento ad una successiva, omologa, addizionale introdotta nel 2015) aveva poi preso consapevolezza della sperequazione che si era creata nei confronti di detti soggetti ed aveva esplicitamente escluso dall'ambito soggettivo di applicazione dell'imposta proprio le S.G.R.

Le soluzioni giuridiche

Secondo la Suprema Corte le censure erano infondate.

Evidenziano i giudici di legittimità che gli argomenti spesi non erano idonei a corroborare un nuovo vaglio di costituzionalità, in quanto involgevano profili già esaminati dalla Consulta.

In primo luogo, rilevava la Corte, andava evidenziato che la sentenza n. 288 del 2019 era stata resa in un contenzioso in cui era parte una S.I.M., ovvero soggetti giuridico analoghi, per caratteristiche di mercato, alle S.G.R.

Inoltre, i profili che la ricorrente evidenziava come caratteristici delle S.G.R. nel complesso del settore bancario e finanziario, lungi dal porla in una posizione di maggior sfavore, sottolineavano anzi il minor impatto subito da questi soggetti dalla crisi economica e confermavano la sussistenza dei parametri di non arbitrarietà e proporzionalità della misura.

Afferma a tal proposito la Cassazione che i soggetti del mercato finanziario (di cui fanno parte anche le S.G.R.) esprimono infatti uno specifico indice di capacità contributiva, appartenendo ad un mercato che, in forza di "barriere strutturali" per l'ingresso, assume connotati di tipo oligopolistico, con la conseguenza che le imprese in esso operanti dispongono di un significativo potere di mercato, derivante anche da un certo grado (variabile in relazione ai servizi e ai settori) di anelasticità della domanda, laddove il concetto di capacità contributiva non necessariamente deve rimanere legato solo ad indici tradizionali come il patrimonio e il reddito, potendo rilevare anche altre e più evolute forme di capacità, che ben possono denotare una forza o una potenzialità economica.

Ugualmente non determinante era, secondo la Corte, l'ulteriore argomento speso dalla ricorrente secondo cui l'evoluzione normativa, e in particolare l'adozione di una successiva addizionale introdotta nel 2015 a carico degli entri creditizi ei finanziari, ma con esclusione delle S.G.R, avrebbe testimoniato la sperequazione che si era creata nei confronti di detti soggetti.

L'art. 1, comma 65, L. 28 dicembre 2015, n. 208, che ha introdotto un'addizionale dell'IRES del 3,5 per cento per gli enti creditizi e finanziari di cui al d.lgs. 27 gennaio 1992, n. 87, inizialmente prevista anche a carico della S.G.R., successivamente escluse, nasceva infatti in un contesto diverso da quello del 2013.

Le norme di cui ai commi 65-68 dell'art. 1 L. n. 208 del 2015, intendevano evitare la svalutazione delle attività per imposte anticipate (Deferred Tax Asset - DTA) iscritte in bilancio, che in base ai principi contabili avrebbe dovuto effettuarsi per effetto della riduzione dell'aliquota Ires dal 27,5 per cento al 24 per cento operata con la stessa legge a decorrere dal 2017, con effetti positivi ai fini della determinazione del patrimonio di vigilanza computato in base alle regole di Basilea

Come emergeva anche dalla relazione governativa, per le S.G.R. tale addizionale non produceva però alcun effetto positivo, in quanto, non costituendo i crediti verso la clientela una voce rilevante nel bilancio di tali società, le stesse non avevano quella massa di DTA che aveva appunto giustificato l'introduzione dell'addizionale.

Al contrario, l'addizionale Ires poneva le società di gestione dei fondi comuni d'investimento in una posizione di forte svantaggio competitivo, non solo rispetto agli altri settori produttivi, ivi compreso quello assicurativo, ma anche rispetto alle banche e agli altri intermediari finanziari che potevano beneficiare della integrale deducibilità degli interessi passivi ai fini Ires ed Irap, ai sensi dei commi 67 e 68 dell'articolo in commento.

Osservazioni

Tanto premesso in ordine allo specifico caso processuale, in termini più generali e venendo all'oggi, come noto, una tassazione addizionale sugli extraprofitti è stata recentemente applicata anche al settore dell'energia, laddove, dal giugno del 2021 le compagnie energetiche hanno iniziato ad approfittare del rialzo di petrolio e gas.

Il Legislatore, nella ultima manovra di bilancio, ha deciso poi di introdurre una nuova tipologia di contributo di solidarietà per il 2023 (non intervenendo però su quello già in vigore per il 2022, con la conseguenza di trovarci così di fronte a due contributi di solidarietà diversi per struttura ed impostazione).

La norma è diventata quindi un “contributo di solidarietà temporaneo” per il 2023 e la base imponibile è stata sensibilmente ridotta.

La legge di Bilancio ha corretto, tra le altre, anche la formazione della base imponibile, principale problematica della tassazione secondo la legge originariamente formulata: con le nuove modifiche, non concorrono infatti a formare base imponibile le operazioni di cessione e acquisto di titoli non rappresentativi di merci e quote sociali che intercorrono tra le imprese energetiche soggetti allo specifico contributo, o le operazioni attive non soggette a Iva.

In sostanza, il contributo del 2022 sembra ormai “abbandonato” alla sua sorte giudiziale, essendosi peraltro dimostrato inadatto ad assicurare il gettito stimato e il puntuale adempimento (anche per come era stato previsto il blando impianto sanzionatorio), e visti anche i suoi dubbi profili di incostituzionalità (in uno scenario dove il precedente della Robin Hood Tax non è incoraggiante).

Le regole previste per il 2023 si ispirano invece alla proposta di Regolamento comunitario n. 2022/1854 in tema di tassazione degli extraprofitti per il settore energetico.

Con la disciplina introdotta con la Legge di bilancio 2023, abbandonati criteri privi di qualsiasi riscontro in termini di capacità contributiva (le liquidazioni periodiche dell'Iva), si è tornati quindi ad una base imponibile calcolata sull'incremento della media del reddito complessivo di esercizio, purché eccedente almeno il 10% la media dei redditi complessivi Ires del quadriennio 2018-2021.

Il versamento dovrà essere effettuato in un'unica soluzione entro fine giugno 2023 nella stragrande maggioranza dei casi (con una “coda” nel mese successivo di luglio). Il pagamento dovrà infatti avvenire entro il sesto mese successivo a quello di chiusura dell'esercizio antecedente a quello in corso al 1° gennaio 2023, ovvero, per i soggetti che approvano il bilancio oltre il termine di quattro mesi dalla chiusura dell'esercizio, entro il mese successivo a quello di approvazione del bilancio.

Il problema, in sostanza, in questi casi (quelli passati e quello odierno) è riuscire ad individuare esattamente chi e quanto deve pagare, soprattutto al fine di individuare la corretta base imponibile.

Dall'esperienza della famosa “Robin tax”, tuttavia, possiamo trarre del resto qualche insegnamento, laddove la sentenza della Corte Costituzionale n. 10 del 2015 ne ha dichiarato l'illegittimità, poiché:

- la maggiorazione di aliquota era destinata ad applicarsi sull'intero reddito di impresa, anziché sui soli “sovraprofitti”;

- la norma, introdotta per fronteggiare una congiuntura economica eccezionale, risultava invece destinata ad applicarsi senza limiti di tempo;

- i meccanismi di accertamento volti a garantire il divieto di traslazione dell'imposta erano giudicati inidonei.

La stessa Corte costituzionale, ieri come oggi, ha però reputato legittima, in sé e per sé, la finalità di discriminazione intersettoriale dei redditi societari.

Se dunque sono ammissibili o addirittura auspicabili, nel giudizio della Corte, forme di discriminazione qualitativa dei redditi, nel progettarle il legislatore deve comunque rispettare i consueti canoni della razionalità e coerenza delle misure adottate.

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