Nuova (e restrittiva) applicazione della business judgment rule in materia di bancarotta fraudolenta patrimoniale

07 Luglio 2023

Nella sentenza in commento la Cassazione Penale traccia i confini del profilo materiale del delitto di bancarotta fraudolenta patrimoniale, con particolare riferimento a quelle condotte degli amministratori che rientrano nella categoria della “distrazione”, e la cui rilevanza penale può incontrare il limite della business judgment rule.
Massima

La bancarotta dissipativa è connotata da un'originaria ed inequivocabile incoerenza della condotta rispetto alle esigenze dell'impresa, incoerenza che deve essere non solo tale da determinare quantomeno il pericolo di una effettiva diminuzione della garanzia patrimoniale, ma, nel contempo, non deve trovare alcuna giustificazione in una scelta gestionale che sia compatibile con la logica d'impresa, sì da rendere assolutamente inconfigurabile ogni richiamo alla regola del business judgment rule, la cui applicazione nel processo penale, peraltro, va operata con estrema cautela.

Il caso

In sede di appello, era confermata la condanna di due imprenditori, amministratori di società fallite. Fra le diverse accuse, alcune imputazioni concernevano scelte industriali di particolare complessità riguardanti la gestione di più società e che secondo l'impostazione accusatoria – accolta dal Tribunale prima e dalla Corte d'appello poi – avevano natura distrattiva o comunque dissipativa in ragione della loro portata devastante per il patrimonio aziendale. In particolare, in sede di merito si era escluso la possibilità di riqualificare l'addebito nel reato di cui all'art. 217 comma 1 n. 2) l. fall. segnalando – anche alla luce di indici di fraudolenza come l'evidente cointeressenza dell'imputato e l'estraneità delle operazioni ad una logica imprenditoriale proficua – come secondo la giurisprudenza di legittimità vi è distrazione rilevante ex art. 216 l.fall. laddove un'operazione sia totalmente inconciliabile con lo scopo sociale e del tutto scollegata dal soddisfacimento delle esigenze dell'impresa.

In sede di ricorso per cassazione, queste conclusioni erano contestate sottolineandosi da un lato come le condotte contestate erano al più censurabili per la loro imprudenza, sicche la loro rilevanza penale doveva esaurirsi all'interno della figura della bancarotta semplice e dall'altro come i giudici di merito avessero utilizzato una prospettiva ex post, a valle della mancata riuscita dell'operazione, ma ai giudici è preclusa la valutazione di opportunità aziendale, secondo la regola del cd. Business Judgment rule alla luce della quale deve essere escluso il potere del giudice di sindacare le scelte imprenditoriali rispetto ad operazioni che hanno avuto un esito negativo, dovendosi presumere che i manager delle società agiscano in maniera diligente e senza conflitto di interessi, salvo scelte macroscopicamente irrazionali e abnormi.

Le questioni giuridiche e le soluzioni

Da sempre il delitto di bancarotta fraudolenta patrimoniale presenta un profilo fortemente problematico, inerente alla selezione delle ipotesi che, fra i molteplici comportamenti che sotto un profilo materiale paiono rientrare nella descrizione del fatto vietato, debbono ritenersi rilevanti ai sensi dell'art. 216, comma 1 n. 1, R.D. n. 267 del 1942.

A prescindere da atteggiamenti delinquenziali - si pensi al caso di distruzione dei beni aziendali o alla conclusione di negozi simulatati intesi ad occultare beni della società -, i cui caratteri depongono in senso inequivocabile per l'intenzione del singolo di sottrarre illecitamente risorse all'azienda a lui facente capo, il problema si pone con riferimento alle molteplici condotte che possono farsi rientrare nella categoria della “distrazione”, formula linguistica che descrive atteggiamenti che di per sé non presentano alcun profilo di illiceità ed in cui vengono fatti rientrare atti con cui il singolo gestisce il proprio patrimonio (o il patrimonio dell'impresa a lui affidata) e la cui rilevanza penale è determinata non dai caratteri materiali della condotta assunta, ma dall'esito della stessa, essendone derivato, anche per ragioni indipendenti dalla volontà e dalla condotta del singolo, una diminuzione del patrimonio azienda con effetti negativi per la posizione dei creditori dell'impresa.

Detto altrimenti, con riferimento all'ipotesi della distrazione – di gran lunga la fattispecie cui fa maggior ricorso la giurisprudenza fra quelle descritte dall'art. 216, comma 1, n. 1, l.fall. - il giudizio circa la sussistenza dell'illecito non dipende dalle modalità con cui la consistenza delle disponibilità aziendali è aggredita (essendo in presenza di scelte apparentemente lecite ed espressione dell'esercizio di una facoltà spettante al singolo, senza ricorso ad atti simulati, mezzi fraudolenti, false rappresentazioni della vicenda, ecc.), ma dall'esito finale dell'esperienza imprenditoriale del singolo per cui possono assumere rilievo penale anche scelte del soggetto che non hanno rivestito alcuna valenza causale rispetto allo stato di dissesto o che, pur censurabili, sono state poste in essere in tempi assai lontani rispetto al momento in cui è emerso il finale stato di insolvenza dell'impresa o che hanno avuto un esito infausto per ragioni indipendenti dalla volontà e capacità dell'imprenditore, ecc. (il tema è tutt'altro che sconosciuto alla dottrina la quale si è più volte interrogata sui rapporti fra potere di disposizione dei propri beni da parte dell'imprenditore e violazione dell'art. 216, comma 1, n. 1, l.fall. In proposito, senza alcuna pretesa di completezza, si richiamano, fra gli interventi più recenti, ZANCHETTI, Incostituzionali le fattispecie di bancarotta? Vecchio quesiti e nuove risposte (o magari viceversa), alla luce della giurisprudenza di legittimità sul ruolo del fallimento della bancarotta fraudolenta prefallimentare, in Riv. Trim. Dir. Pen. Ec., 2014, 111; COCCO, Il ruolo delle procedure concorsuali e l'evento dannoso nel reato di bancarotta, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2014, 67; PERDONO', I reati fallimentari, in MANNA (a cura di), Corso di diritto penale dell'impresa, Padova 2010, 3619).

Il problema è per lungo tempo stato ignorato dalla giurisprudenza per la quale la distrazione era integrata in presenza di qualsiasi atto di distacco del bene dal patrimonio sociale senza un corrispettivo per la società e quindi con conseguente pregiudizio (quanto meno eventuale) per la soddisfazione dei creditori. Solo di recente è intervenuto un ripensamento di tale atteggiamento. Si continua a sostenere che “l'imprenditore non è il dominus assoluto ed incontrollato del patrimonio aziendale; egli non ha una sorta di jus utenti ed abutendi sui beni aziendali, i quali, viceversa, pur essendo strumentali al legittimo obiettivo del raggiungimento del profitto dell'imprenditore medesimo, sono finalisticamente vincolati, per così dire, “in negativo”, nel senso che degli stessi non può farsi un utilizzo che leda o metta in pericolo gli interessi costituzionalmente tutelati” (Cass., sez. V, 22 marzo 2017, n. 13910); al contempo, però, si è raggiunta la consapevolezza circa il fatto che tale conclusione non può condurre ad una qualificazione di penale rilevanze di molteplici scelte imprenditoriali, in particolare di tutte quelle condotte dell'amministratore della società che, pur conformi alla tipologia di comportamento richiamata dalla previsione incriminatrice, non presentano un'effettiva valenza delittuosa perché non lesive degli interessi giuridici tutelati dagli artt. 216 e ss.; si pensi alle ipotesi, non a caso frequentemente richiamate in dottrina, della distrazione di un bene posta in essere molto prima della dichiarazione di fallimento e quando nulla faceva pensare che l'attività di impresa avrebbe avuto un esito disastroso o ai casi in cui il valore economico sottratto dal patrimonio aziendale dall'imprenditore è stato poi da quest'ultimo reintegrato prima della pronuncia della sentenza d'insolvenza o all'ipotesi in cui il fallimento si chiuda senza alcun creditore insoddisfatto.

Per evitare tale conclusione, si sostiene – sulla scorta della qualificazione del delitto di bancarotta fraudolenta patrimoniale come reato di pericolo concreto che, in quanto tale, sussiste se le condotte incriminate hanno posto effettivamente a rischio, al momento della loro adozione, gli interessi dei creditori (Cass., sez. V, 2 settembre 2019, n. 14366; Cass., sez. V, 2 gennaio 2019, n. 70) che sia necessario che il fatto di bancarotta abbia determinato un effettivo depauperamento dell'impresa e quindi sia idoneo ad incidere sulla garanzia dei creditori alla luce delle specifiche condizioni dell'azienda al momento dell'adozione del comportamento censurato (POGGI D'ANGELO, Il dolo di pericolo nella bancarotta fraudolenta, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2019, 2130). Ne consegue che fra le molteplici vicende imprenditoriali astrattamente riconducibili alla previsione normativa di cui all'art. 216 comma 1 n. 1 l.fall. va riconosciuto rilievo penale solo a quelle effettivamente dotate di un contenuto di offensività e meritevoli di sanzione in sede penale; il che impone che nel valutare la portata lesiva di un fatto di bancarotta non ci si deve limitare a considerare gli effetti che derivano al patrimonio del fallito dalla singola scelta che questi opera in ordine alla destinazione da dare ad una parte del suo patrimonio, dovendosi invece procedere ad un esame più complessivo, formulando un giudizio – circa la ragionevolezza economica della gestione dell'impresa - che abbia come termine di riferimento le conseguenze che dalla singola condotta sono derivate sulla consistenza dell'intero patrimonio aziendale.

In secondo luogo, la corretta ricostruzione della nozione di depauperazione del patrimonio aziendale consente di escludere la sussistenza della bancarotta ogni qualvolta l'atto di disposizione del bene – da cui apparentemente dovrebbe derivare un pregiudizio economico per l'impresa - sia stato di contro realizzato in vista dell'esigenze economiche della stessa o comunque in funzione di accrescimento del relativo patrimonio: è il caso, ad esempio, dell'imprenditore che distrugga parte delle proprie merci per far salire i prezzi di quelle rimanenti, ovvero occulti beni per sfuggire a sanzioni da parte dell'erario, o, ancora che faccia regalie a politici o sponsorizzi manifestazioni per creare un clima di favore intorno alla propria attività commerciale o ancora proponga piani concordatari poi non andati a buon fine ma comunque intesi a garantire il superamento della crisi economica, ecc.. In sostanza, occorre considerare come il più delle volte il pregiudizio economico sopportato dal patrimonio dell'impresa non è l'evento di una condotta definita ed esaurentesi in uno spazio temporale ben definito ma l'esito finale di complessa serie di scelte che l'imprenditore pone in essere nel corso della vita dell'azienda e si deve evitare di qualificare come illecite tali scelte solo in ragione della circostanza che le stessa abbiano prodotto risultati negativi per l'impresa, portando ad un depauperamento del relativo patrimonio; piuttosto, nella gran parte dei casi – quando cioè non vi è un immediato contenuto di fraudolenza e rimproverabilità penale nel comportamento contestato all'imprenditore (si pensi, ad esempio, alla sottrazione di denaro dalle casse sociali) - nella valutazione circa la illiceità della gestione dell'ente commerciale bisogna prescindere dall'esito nefasto dell'impresa e collocare il giudizio circa le scelte dell'imprenditore al momento in cui le stesse sono state assunte, per verificare se le stesse in allora erano e potevano qualificarsi come pericolose per gli interessi dei creditori.

Osservazioni

La Cassazione ha rigettato il ricorso, facendo leva, nella sua motivazione, essenzialmente alla cd. business judgmente rule, ovvero a quella sfera di discrezionalità che – secondo quanto detto sopra – va riconosciuta all'amministratore e che, secondo le tesi difensive, nel caso di specie i giudici di merito non avrebbe applicato, perché sarebbe stata censurata una scelta imprenditoriale.

Come è noto, la business judgment rule discende dall'elaborazione della dottrina statunitense del diciannovesimo secolo. Essa consiste in una presunzione secondo cui gli amministratori agiscono su base informata, in buona fede e nell'interesse della società, con la conseguenza di esonerare da responsabilità il board of directors purché abbia assunto decisioni corrette. In base a tale impostazione, nei casi in cui gli amministratori abbiano assunto una decisione qualificabile come ragionevole o razionale, al verificarsi di risultati negativi, essi saranno affrancati da eventuali responsabilità, poiché titolari di una certa discrezionalità nel decidere sull'opportunità di un progetto, ciò in quanto la gestione dell'attività di impresa comporta dei rischi, per cui estendere la cognizione del giudice anche al merito della decisione deprimerebbe l'attività di gestione, rallentando e compromettendo il processo decisionale, anche in riferimento a scelte corrette a livello procedurale - per qualità e quantità di informazioni acquisite - e sostanziale - in riferimento alla ragionevolezza al momento della deliberazione -, che verrebbero compromesse pur di evitare risultati negativi.

Un tale argomento è stato oggetto di esame in una precedente decisione della Cassazione relativa al crack di Alitalia (Cass., sez. V, 15 ottobre 2020, n. 7437), che ha esaminato i rapporti fra la business judgment rule e la bancarotta per dissipazione. Secondo la Corte, la bancarotta dissipativa è connotata da un'originaria ed inequivocabile incoerenza della condotta rispetto alle esigenze dell'impresa, incoerenza che deve essere non solo tale da determinare quantomeno il pericolo di una effettiva diminuzione della garanzia patrimoniale, ma, nel contempo, non deve trovare alcuna giustificazione in una scelta gestionale che sia compatibile con la logica d'impresa.

Ciò posto, la valutazione probatoria circa la natura dissipativa della bancarotta passa attraverso l'accertamento inerente la scelta imprenditoriale, in un'ottica, però, assolutamente delimitata: alla luce delle più o meno complesse situazioni aziendali, infatti, il giudice dovrà considerare, caso per caso, se la condotta si fondi o meno su una ponderazione di tutte le circostanze e le variabili specificamente determinanti; la valutazione ex ante, in altri termini, richiede di verificare se il soggetto agente abbia ponderato tutte le possibili conseguenze che l'opzione adottata, in uno specifico contesto economico ed imprenditoriale, avrebbe potuto determinare, nella prospettiva di accertare se fosse, quindi, prevedibile che la soluzione adottata potesse effettivamente mettere a repentaglio la conservazione della garanzia patrimoniale dell'impresa poi fallita. Tale incoerenza con le esigenze dell'impresa può essere anche "relativa", quando, cioè, l'operazione appaia distonica rispetto alle condizioni economiche della specifica realtà imprenditoriale cui si riferisce oppure quando non sia in linea con le dimensioni e la complessità dell'impresa. Questi profili rilevano precipuamente a delineare il coefficiente soggettivo ed il grado di divaricazione delle scelte imprenditoriali da quelle fisiologiche di un'attività economico-commerciale che il legislatore penale esige, al di l del rischio consentito.

I suddetti parametri - solo indicativi - utili per orientare l'interprete circa la sussistenza della prova della dissipazione e del relativo coefficiente soggettivo possono essere rappresentato dalla realizzazione di condotte seriali scaturenti da scelte imprenditoriali complessivamente confliggenti con la tutela del ceto creditorio, dalla volontà di privilegiare finalità estranee alla gestione dell'impresa o concretamente configgenti con la stessa. dall'estremo livello di rischio di determinate operazioni in riferimento alle condizioni patrimoniali dell'impresa, che si ponga, quindi, al di là del rischio fisiologico, dimostrabile attraverso la presenza di elementi anomali di natura oggettiva, dall'adozione di dette scelte in fasi in cui lo stato di crisi si era o meno manifestato ed era o meno conosciuto dall'agente.

‘Quanto alla distinzione tra bancarotta fraudolenta distrattiva e dissipativa, anche in quest'ultima l'evento storico naturalistico va ravvisato nella diminuzione patrimoniale, eziologicamente connessa alla condotta, mentre l'evento normativo è rappresentato dalla lesione degli interessi della massa dei creditori. Tuttavia, ciò che rileva - nella bancarotta dissipativa - non è il distacco di beni dalla struttura patrimoniale dell'impresa, bensì il loro impiego in maniera distorta e fortemente eccentrica rispetto alla funzione di garanzia patrimoniale per effetto di consapevoli scelte imprenditoriali. Si legge nella citata sentenza n. 7437 del 2020 che «[....] la bancarotta dissipativa pone al centro del fuoco ricostruttivo del giudice penale non solo e non tanto il bene - come nella bancarotta per distrazione - ma, soprattutto, la scelta dell'imprenditore, sotto il profilo della ponderata prospettazione di tutte le possibili conseguenze e ricadute, sebbene sempre nell'ottica della garanzia patrimoniale, come sin qui specificato».

Sulla base di questa ricostruzione della giurisprudenza, la sentenza in esame ha concluso che la decisione impugnata ha posto in luce alcuni dei citati indicatori eloquenti di un atteggiamento, ex ante, ampiamente eccentrico rispetto al novero di possibili, corrette e fruttuose iniziative economiche nell'interesse della società fallita, come la marcata svantaggiosità per la stessa dell'operazione contestata e la circostanza che la medesima operazione era stata attuata ad esclusivo vantaggio di una realtà economica estranea al gruppo e riconducibile agli stessi amministratori imputati. Proprio la lontananza delle operazioni da qualsiasi logica imprenditoriale, sì da non potersi qualificare come connotate da mera imprudenza rende implausibile una loro qualificazione in termini di bancarotta semplice, posto che «non può che esulare da ogni valutazione di discrezionalità ed opportunità quella condotta che, con giudizio ex ante, si ponga in drastico ed irrimediabile conflitto con la funzione di garanzia patrimoniale dei beni dell'impresa, unica ottica rispetto alla quale il giudice penale può e deve valutare la coerenza delle scelte imprenditoriali con le finalità dell'impresa».

Conclusioni

Come è noto, i principi ed i limiti ricavabili dalla cd. business judgment rule sono stati elaborati principalmente dalla giurisprudenza civile (Cass. Civ., sez. I, Sentenza n. 15470 del 22 giugno 2017), secondo cui, alla luce di quanto prevede l'art. 2392 c.c. - all'amministratore di una società non può essere imputato a titolo di responsabilità contrattuale di aver compiuto scelte inopportune dal punto di vista economico, poiché tale valutazione attiene alla discrezionalità imprenditoriale e può, eventualmente, rilevare come giusta causa di revoca dell'amministratore, non come fonte di responsabilità contrattuale nei confronti della società; rilevano tuttavia - nell'ottica del giudizio di responsabilità nei confronti della società - l'omissione di quelle cautele, verifiche e informazioni preventive, normalmente richieste per una scelta di quel tipo, operata in quelle circostanze e con quelle modalità, il che implica la valutazione della diligenza mostrata nell'apprezzare preventivamente i margini di rischio connessi all'operazione da intraprendere (BENEDETTI, L'applicabilità della business judgment rule alle decisioni organizzative degli amministratori, in Soc., 2019, 413; G. FERRI, Ristrutturazioni societarie e competenze organizzative, idibem, 234; ANGELICI, Diligentia quam in suis e business judgment rule, in Riv. Dir. Comm., 2006, I, 675; PISCITELLO, La responsabilità degli amministratori di società fra discrezionalità del giudice e business judgment rule, in Soc., 2012, 1116; AMATUCCI, Adeguatezza degli assetti, responsabilità degli amministratori e business judgment rule, in Giur. Comm., 2016, I, 643; CALANDRA BONAURA, Amministratori e gestione dell'impresa nel Codice della crisi, ivi, 2020, 12; IRRERA, La business judgment rule e gli adeguati assetti, in Soc. Contratti, 6/2020, 8; ID. La collocazione degli assetti organizzativi e l'intestazione del relativo obbligo, in Nuovo Dir. Soc., 2020, 115; SPOLIDORO, Note critiche sulla gestione dell'impresa nel nuovo art. 2086 (con una postilla sul ruolo dei soci), in Riv. Soc., 2019, 259; DI CATALDO – ROSSI, Nuove regole generali per l'impresa nel nuovo Codice della crisi e dell'insolvenza, ibidem, 759).

La decisione in commento ritiene che tale regola non possa essere traslata in ambito penalistico, essendo maturata in un contesto risarcitorio, tipicamente civilistico; quello che segna la differenza tra le valutazioni del giudice civile e quelle del giudice penale è che l'interprete deve sia valutare la prospettiva che si stagliava agli occhi dell'agente ex ante, ma anche il danno che la sua scelta ha poi determinato sul patrimonio sociale una volta intervenuto il fallimento (o la dichiarazione di stato di insolvenza). In altri termini, ciò che in sede penale va accertato è se l'agente abbia previsto come possibili determinati esiti e conseguenze della propria scelta e della propria conseguente condotta, accettando la loro verificazione, anche nella consapevolezza del danno che gli stessi potevano arrecare alla garanzia dei creditori e abbia, ciò nondimeno, agito. Rilevano penalmente, quindi, non le scelte semplicemente irragionevoli o inopportune sotto il profilo tecnico (opportunità la cui valutazione non è appannaggio del giudice penale), ma quelle integralmente e manifestamente configgenti ed incoerenti con la tutela del ceto creditorio e con la logica di impresa, tenuto conto del concreto contesto di riferimento sottoposto al giudicante, anche in relazione alle condizioni economico-finanziarie dell'impresa, e, quindi, la conseguente capacità predittiva circa l'incidenza delle sue scelte sulla tenuta del patrimonio aziendale in funzione di garanzia.

Questa conclusione, tuttavia, pare eccessivamente dirompente.

Indubbiamente, i fondamenti di una possibile responsabilità penale dei vertici aziendali sono diversi (o quantomeno solo parzialmente coincidenti) dai presupposti della mala gestio fondante la responsabilità degli amministratori ex art. 2392 c.c., né rilevano le conclusioni cui la giurisprudenza è giunta con riferimento al giudizio di responsabilità per le omissioni dei sindaci di cui all'art. 2407 c.c.. Al contempo, però, non ci pare si possa negare che le scelte aziendali potranno assumere rilievo penale solo se “risulterà superata la soglia del rischio consentito, desunta dalla possibilità di affermare che le omissioni in tal modo riscontrate sono riconducibili nella sfera di applicabilità delle specifiche ipotesi di reato previste dal diritto penale” e tale valutazione circa la corretta o meno gestione del rischio andrà formulata assumendo come “parametro di giudizio non già la correttezza/attendibilità/efficacia, ex post, delle singole valutazioni contenute nel business plan, o dei singoli indici di emersione della crisi o delle singole azioni contemplate nel piano di risanamento, bensì la ragionevolezza ex ante dell'impostazione adottata per la redazione e l'adozione degli uni e degli altri” (RIVERDITI, La responsabilità penale degli organi societari”, in Riv. Diritto Economia Impresa, 1-2019, 83).

In sostanza, riconoscere o meno l'applicazione del principio della business judgment rule anche in relazione alla bancarotta fraudolenta patrimoniale dipende dalla ritenuta necessità di conferire la giusta rilevanza all'incertezza e complessità della funzione amministrativa e nel connesso rischio di insuccesso, del quale non devono farsi carico i gestori bensì i soci, con conseguente esigenza di circoscrivere la revisione giudiziaria sulle decisioni gestorie per non disincentivare l'assunzione dei rischi necessario a valorizzare il patrimonio sociale, non avendo peraltro i giudici, di regola, le competenze per poter sindacare il merito delle complesse decisioni degli amministratori. Ciò posto, non si può non ritenere che si deve formulare con estrema prudenza un rimprovero agli amministratori di società in relazione all'assunzione di decisioni imprenditoriali che in seguito si siano rivelate errate, confinando il controllo giudiziale (specie se di carattere penale) su tali scelte al processo decisionale, piuttosto che sulla valutazione sostanziale del merito della decisione [per cui,] assente un conflitto d'interessi o un'infedeltà degli amministratori la business judgment rule previene il giudice dal valutare, con il senno di poi, quelle decisioni che siano state il prodotto di un procedimento razionale e per le quali gli stessi amministratori si siano avvalsi di tutte le informazioni materiali ragionevolmente disponibili.

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