Assicurazione contro gli infortuni non mortali, compensatio lucri cum damno e scopo pratico perseguito dal contratto

Luigi Regazzoni
07 Luglio 2023

Il Tribunale di Milano, con la sentenza n. 2894/2023, nega l'applicazione della compensatio sulla base di una qualificazione in termini previdenziali della polizza operante nella fattispecie oggetto di giudizio. Due, in particolare, sono gli indici cui si fa riferimento per sostenere una siffatta conclusione: in primo luogo, le modalità di liquidazione dell'indennità, calcolata in percentuale rispetto ad un capitale assicurato convenzionalmente stabilito dalle parti (e non in rapporto al «valore oggettivo» del «bene» leso dal sinistro); in secondo luogo, l'esclusione pattizia del diritto di «rivalsa» in favore dell'assicuratore ex art. 1916 c.c.
Introduzione

Con la sentenza in commento, il Tribunale di Milano (sent. n. 2894/2023, G.I. dott. D. Spera) interviene nell'articolato dibattito in tema di compensatio lucri cum damno, non certo concluso ma piuttosto rivitalizzato dalle note pronunce a Sezioni Unite del 2018 [Cass., sez. un., 22 maggio 2018, n. 12564, 12565, 12566, 12567, in Nuova g. civ. comm., 2018, 10, I, p. 1407], che hanno individuato, da un lato, taluni punti fermi in ordine all'inquadramento concettuale della questione, contribuendo, dall'altro lato, a delineare un quadro operativo sufficientemente definito, con limitato riguardo tuttavia alle tipologie di fattispecie ad esse devolute.

Nota e ormai consolidata – almeno nella riflessione giurisprudenziale – è la prospettiva adottata dalle Sezioni Unite, e suggerita in precedenza da taluni interventi dottrinali. La «dottrina» della compensatio lucri cum damno (tradizionalmente incentrata sulla valutazione del rapporto causale tra l'evento lesivo antigiuridico ed i vantaggi entrati successivamente nel patrimonio del danneggiato) viene ora in parte ricalibrata, per mettere meglio a fuoco le classi di casi più ricorrenti nell'esperienza applicativa: quelle in cui il «beneficio» (detto collaterale) concorrente con l'evento dannoso consiste nell'attribuzione di un credito di fonte assicurativa, previdenziale o comunque (in senso lato) indennitaria.

In ipotesi siffatte, il semplice criterio causale si rivela insufficiente a distinguere tra diverse tipologie di beneficio, dovendosi privilegiare invece – come rilevato dalle pronunce del 2018 – una valutazione di tipo funzionale dei benefici, diretta ad apprezzare la finalità dell'attribuzione collaterale. In questa logica, allora, il fatto che il danneggiato abbia percepito un determinato ammontare in virtù di un rapporto assicurativo o previdenziale determina la riduzione pro parte del credito risarcitorio nei confronti del responsabile (o persino la sua integrale estinzione) solamente se anche il beneficio collaterale rivela – in base alla propria fonte legale o convenzionale – la funzione di ristorare il medesimo pregiudizio preso in considerazione dalla regola di responsabilità [si rinvia sul punto a L. Regazzoni, La compensatio lucri cum damno tra causa e funzione del beneficio, in Riv. dir. civ., 2021, p. 279 ss.].

Perché operi lariduzione del risarcimento non è sufficiente, in altri termini, che il vantaggio (la percezione dell'indennizzo) sia stato causato dall'illecito; occorre altresì che la prestazione sia funzionale a rimuovere le conseguenze dell'illecito medesimo dalla sfera giuridica del danneggiato. E proprio per via di questa comune finalità, entrambe le prestazioni (strettamente risarcitoria e «collaterale») risultano allora soggette al c.d. principio indennitario, secondo il quale non è possibile attribuire al danneggiato un ristoro superiore all'entità del danno effettivamente subito [cfr. Cass., 11 giugno 2014, n. 13233, in Resp. civ. prev., 20014, 6, p. 1879, con nota di Locatelli].

La pronuncia in esame si inserisce proprio nell'orientamento appena evocato, accogliendone, a mio avviso correttamente, l'impostazione e preoccupandosi di precisarne la portata con riguardo ad una fattispecie di importanza pratica di primissimo piano, ma non presa in considerazione dalle sentenze del 2018 (per ragioni strettamente contingenti, in quanto non oggetto delle cause dalle quali era originata la remissione alle Sezioni Unite): quella in cui il pregiudizio conseguente ad un fatto illecito concorre con un «beneficio» consistente nella percezione di un indennizzo in virtù di una polizza di assicurazione contro gli infortuni non mortali.

Polizze contro gli infortuni non mortali e «tipi» assicurativi

Risulta invero controversa la risposta all'interrogativo se in fattispecie di questo genere ricorrano i presupposti operativi della regola della compensatio lucri cum damno (e dunque se l'importo del risarcimento debba risultare ridotto in misura pari a quella dell'indennizzo assicurativo «lucrato» dal danneggiato) oppure se di questa sia preclusa l'applicazione (in tal caso, il danneggiato potrebbe beneficiare sia del risarcimento «pieno» del danno accertato, sia dell'importo percepito dall'assicurazione).

La fattispecie dell'assicurazione contro gli infortuni non mortali presenta in prima battuta profili di vicinanza rispetto a due tra le figure considerate dalle Sezioni Unite del 2018: quella dell'assicurazione contro i danni al patrimonio e quella dell'assicurazione sulla vita. Fattispecie che tuttavia sono state ritenute meritevoli, sul piano dell'operatività della regola di compensatio, di trattamenti giuridici opposti: nel primo caso (quello di assicurazione del patrimonio) affermandosi l'applicazione della compensatio (e ritenendosi preclusa, quindi, la possibilità di «cumulare» la piena prestazione risarcitoria con quella indennitaria), nel secondo negandola, per consentire ai beneficiari dell'assicurazione sulla vita di richiedere interamente il risarcimento dei danni cagionati dall'illecito.

La ragione di siffatti esiti applicativi deriva proprio – in coerenza con le affermazioni di principio svolte dalle pronunce della Cassazione – da una differente valutazione dei profili funzionali propri, rispettivamente, dei tipi contrattuali dell'assicurazione contro i danni al patrimonio (art. 1904 ss. c.c.) e dell'assicurazione sulla vita (art. 1919 ss. c.c.). Nel primo caso, infatti, l'importo corrisposto al danneggiato-assicurato risulta avere lo scopo di «rimuovere» il pregiudizio conseguente alla lesione, sicché l'adempimento della prestazione assicurativa è destinato ad interferire con le vicende del credito risarcitorio; nel secondo, invece, si suole riconoscere al contratto assicurativo una funzione «previdenziale», ossia legata ad un'operazione di risparmio mediante pagamento dei premi al fine di «accumulare» una provvista finanziaria in favore degli eredi, ai quali l'assicuratore provvederà a liquidare un capitale secondo le previsioni contrattuali [P. Corrias, La causa del contratto di assicurazione: tipo assicurativo o tipi assicurativi?, in Riv. dir. civ., 2013, p. 60 ss.; M. Mazzola, Sul concetto di interesse nel contratto di assicurazione: inquadramento teorico e profili applicativi, in Riv. dir. civ., 2019, p. 1207].

Corretto pare dunque il percorso prescelto dalla pronuncia in commento: quello che prevede di individuare la funzione del beneficio nel caso specifico (ossia dell'indennizzo previsto dalla polizza infortuni), per trarne poi le conseguenze sul piano dell'operatività della regola di compensatio lucri cum damno. E tuttavia la risposta alla questione non si rivela immediata, poiché – a differenza di quanto si può osservare per l'assicurazione contro i danni e per l'assicurazione sulla vita – il «tipo» dell'assicurazione contro gli infortuni non mortali non è dotato di una compiuta disciplina legislativa, dalla quale trarre indicazioni «definitive» circa la ratio dell'attribuzione indennitaria. Nella tesi sostenuta dal Tribunale di Milano, è allora alla concretezza delle pattuizioni private che occorre direttamente rivolgersi – senza precomprensioni derivanti dall'astratta configurazione normativa dello schema contrattuale, ma piuttosto evocando le teoriche della «causa in concreto» – per ricostruire «lo scopo pratico perseguito dalle parti con la stipula del contratto assicurativo in esame».

Compensatio lucri cum damno e assicurazione di infortuni non mortali

In questa logica, la sentenza in commento giunge a negare l'applicazione della compensatio sulla base di una qualificazione in termini previdenziali della polizza operante nella fattispecie oggetto di giudizio. Due, in particolare, sono gli indici cui si fa riferimento per sostenere una siffatta conclusione: in primo luogo, le modalità di liquidazione dell'indennità, calcolata in percentuale rispetto ad un capitale assicurato convenzionalmente stabilito dalle parti (e non in rapporto al «valore oggettivo» del «bene» leso dal sinistro); in secondo luogo, l'esclusione pattizia del diritto di «rivalsa» in favore dell'assicuratore ex art. 1916 c.c.

Ed invero l'evocato criterio di calcolo dell'indennità – svincolato da qualsiasi riferimento al danno subito – sembra effettivamente rendere la polizza più affine al modello dell'assicurazione sulla vita che a quello dell'assicurazione contro i danni, caratterizzandola dunque per una funzione previdenziale e di risparmio al fine di poter godere di una provvidenza futura, slegata tuttavia da un effettivo pregiudizio economicamente valutabile. Mentre per quanto riguarda il significato dell'esclusione della rivalsa nei confronti del responsabile – scelta che potrebbe apparire maggiormente compatibile, almeno a priva vista, con un modello previdenziale – sarà opportuna una riflessione più articolata a conclusione di questo commento.

Proprio nel ripensamento della qualificazione funzionale dell'assicurazione contro gli infortuni non mortali (condotta nella prospettiva della compensatio lucri cum damno) si individua il principale motivo di interesse e di rilevanza della sentenza del Tribunale di Milano, che propone all'interprete un criterio ermeneutico duttile ed attento – coerentemente con il modello della causa in concreto – agli scopi pratici perseguiti dalle parti nella singola operazione negoziale. Si sviluppa così uno spunto elaborato dalla riflessione dottrinale, che evidenziava l'«assetto causale variabile» della polizza infortuni: finalizzata alla compensazione di un danno per la quota di indennizzo compresa entro il «valore» della lesione, ed a realizzare invece «un beneficio previdenziale di risparmio» per quanto eccede tale limite [L. Locatelli, La polizza contro gli infortuni non mortali: un contratto a causa variabile?, in Resp. civ. prev., 2019, 1, p. 335 ss.; cfr. anche U. Izzo, Quando è «giusto» il beneficio non si scomputa dal risarcimento del danno, in Nuova giur. civ. comm., 2018, 10, II, p. 1520 s.; E. Bellisario, La compensatio lucri cum damno nell'assicurazione contro i danni: gli scenari dopo le Sezioni Unite, in Assicurazioni, 2017, 4, p. 469].

La pronuncia in commento compie però un passo ulteriore: qualora la misura della prestazione indennitaria sia determinata semplicemente in relazione al «capitale assicurato», denotando una sorta di indifferenza rispetto all'entità concreta della lesione e potendo (del tutto fisiologicamente) risultare anche superiore a quest'ultima, si ritiene ora possibile affermare il carattere previdenziale dell'intera prestazione, senza distinguere tra una componente «indennitario-risarcitoria» ed una puramente previdenziale.

Sensibili sono le ricadute proprio sul piano della compensatio lucri cum damno: se si riconosce funzione previdenziale all'intera prestazione collaterale, questa potrà interamente cumularsi con il risarcimento; mentre, se ad una parte di essa si attribuisse funzione risarcitoria (riconducendola all'ambito di operatività del principio indennitario), l'obbligazione risarcitoria nascente da responsabilità dovrebbe ridursi per l'ammontare corrispondente.

La portata innovativa della pronuncia è ancor più evidente se la si mette a confronto con l'approccio interpretativo proposto dall'orientamento sin qui prevalente, e sostenuto da autorevoli decisioni giurisprudenziali (Cass., Sez. Un., 10 aprile 2002, n. 5119, in Resp. civ. prev., 2002, p. 687, con nota di Bugiolacchi; Cass., 11 giugno 2014, n. 13233, cit.); un approccio che non tiene conto delle diverse funzioni perseguibili dall'autonomia privata nella concreta configurazione della polizza infortuni, optando per una qualificazione univocamente risarcitoria. In questa differente prospettiva, l'infortunio non mortale viene inteso infatti quale evento causativo di un danno (biologico e sovente anche patrimoniale) e la polizza assicurativa è considerata sempre come funzionale a reintegrare questo pregiudizio, modulandosi (in buona parte) analogamente all'assicurazione contro i danni al patrimonio. Con l'ovvia conseguenza di ritenere allora che l'indennizzo spettante in virtù di una polizza di questo genere sia destinato in ogni caso ad interferire con la vicenda risarcitoria, determinandosi – in applicazione della regola di compensatio – una riduzione dell'importo dovuto dal responsabile pari a quanto versato dall'impresa di assicurazioni.

Principio indennitario e pregiudizi non patrimoniali

Accantonando per un momento le questioni relative all'individuazione della finalità dell'attribuzione assicurativa, occorre accennare ad un possibile ostacolo che accomuna gli orientamenti favorevoli a riconoscere natura risarcitoria alle polizze contro gli infortuni, assoggettandole all'operatività del principio indennitario.

Tale principio – per cui l'indennizzo attribuito all'assicurato non può superare il valore della perdita determinata dal sinistro – trova infatti applicazione in modo (tendenzialmente) agevole rispetto all'assicurazione di beni dotati di un valore «oggettivo» (ad esempio, un prezzo di mercato); mentre incontra ovviamente maggiori difficoltà rispetto a beni non direttamente valutabili sul piano economico [R. Pardolesi-P. Santoro, Sul nuovo corso della compensatio, in Danno resp., 2018, 4, p. 428]. Proprio quest'ultimo è il caso – come ben si può intendere – delle polizze contro gli infortuni, funzionali alla tutela di un bene eminentemente non patrimoniale, quale l'integrità fisica della persona.

Si osserva in questa logica che, non essendo possibile stimare in termini stringenti il «valore» della perdita (non patrimoniale) causata da un infortunio, non sarebbe neppure possibile individuare l'importo massimo dell'indennizzo (e del risarcimento); e di riflesso, nella prospettiva della compensatio lucri cum damno, non si potrebbe nemmeno valutare se la prestazione assicurativa abbia già per intero ristorato il pregiudizio, o se invece vi sia ancora uno «spazio» perché possa operare anche la prestazione risarcitoria.

La portata di questo argomento – che a rigore dovrebbe condurre ad escludere in radice l'applicazione della compensatio lucri cum damno in caso di pregiudizi non patrimoniali – deve essere però relativizzata. L'ostacolo viene infatti pragmaticamente superato dalla giurisprudenza facendo anche in questo caso applicazione al danno non patrimoniale di criteri convenzionali di quantificazione, come le tabelle in uso per la liquidazione del danno biologico. Così opera, ad esempio, il cospicuo e ormai consolidato orientamento in tema di concorso tra risarcimento dei danni da vaccinazioni o emotrasfusioni e indennità prevista dalla l. n. 210/1992, che su questa base ammette l'operatività della compensatio [cfr. L. Regazzoni, Alcune questioni aperte su presupposti e modalità dell'eccezione di compensatio lucri cum damno in un caso di danno da emotrasfusioni, in Resp. civ. prev., 2023, 1, p. 161 ss.].

Ciò comporta, evidentemente, che l'applicazione del principio indennitario debba in questi casi tollerare un margine di approssimazione, poiché la valutazione del danno (quale limite all'operare dei meccanismi compensativi) viene condotta secondo criteri stipulativi e quindi, almeno in una certa misura, astratti; criteri che non garantiscono in assoluto la corrispondenza tra il pregiudizio «concreto» e l'indennizzo (o il risarcimento), che potrebbe talora risultare più elevato.

Ma un siffatto (ed inevitabile) «alleggerimento» del principio indennitario non dovrebbe destare eccessive preoccupazioni nell'ambito dell'assicurazione infortuni. Com'è noto, il principio indennitario si giustifica infatti, sul piano sostanziale, per l'esigenza di impedire che l'assicurato maturi un interesse al verificarsi dell'evento: il che determinerebbe il pericolo che questi dia volontariamente causa al sinistro o riduca le misure precauzionali destinate a prevenirne l'accadimento, a pregiudizio dell'assicuratore e della possibilità di gestire correttamente in termini statistici l'equilibrio tra importo complessivo dei premi e «valore atteso» degli indennizzi in relazione ad un certo gruppo di assicurati.

Ebbene, quando il rischio assicurato si correla alla lesione di un bene come l'integrità fisica dell'assicurato, è ragionevole ritenere che la possibilità di ricevere un indennizzo – anche, in una certa misura, superiore al pregiudizio – non dovrebbe essere tale da neutralizzare il (naturale e fisiologico!) interesse contrario al verificarsi del sinistro.

In conclusione, su questo punto, dunque, si può ritenere che l'evocata possibile quantificazione del danno non patrimoniale mediante tecniche convenzionali consenta di riconoscere una finalità autenticamente risarcitoria all'attribuzione di importi in favore del danneggiato, ed apra così la strada per un'applicazione del principio indennitario anche alle polizze contro gli infortuni non mortali, qualora se ne ravvisasse appunto la funzione risarcitoria. Di conseguenza, qualora ne ricorrano gli ulteriori presupposti (specie sul piano della coincidenza delle finalità delle diverse attribuzioni patrimoniali), anche prestazioni assicurative correlate a lesioni di beni non patrimoniali ben possono, almeno in astratto, rientrare in un meccanismo di compensatio lucri cum damno.

Centralità della funzione del beneficio collaterale ed interpretazione del «titolo»

Confermata dunque la possibilità di procedere – pur con le precisazioni appena svolte – ad applicare la compensatio lucri cum damno anche alle polizze infortuni, torniamo a considerare invece il profilo davvero decisivo: quello della qualificazione funzionale della prestazione «collaterale» spettante al danneggiato-assicurato, il cui carattere cruciale è pienamente messa in luce dalla pronuncia in commento, che si cura altresì di evidenziare il ruolo dell'interprete nel ricostruire le finalità sottese al regolamento contrattuale che costituisce in concreto il «titolo» dell'attribuzione.

Abbiamo dato conto di come l'individuazione di una ratio previdenziale nella polizza operante nella fattispecie oggetto di giudizio sia stata guidata dalla constatazione delle modalità di quantificazione dell'indennità, parametrata non alle perdite o ai mancati guadagni, e neppure all'entità della lesione fisica, bensì ad un capitale liberamente stabilito dalle parti; ed abbiamo pure visto come un tale esito sia guadagnato, nella pronuncia in esame, facendo leva altresì sulla previsione della rinuncia, da parte dell'assicuratore, alla surrogazione (o «rivalsa») nei confronti del responsabile ex art. 1916 c.c.

Come stiamo per vedere più in dettaglio, è probabilmente il primo argomento a risultare determinante nella fattispecie esaminata.

Invero, nell'aderire alla polizza, più che garantirsi l'automaticità della «copertura» degli eventuali danni derivanti dagli infortuni, «l'assicurato ha convenzionalmente individuato una somma su cui aver la certezza di poter contare nel malaugurato caso in cui si troverà a dover sopportare eventi traumatici invalidanti». Poiché quindi l'operazione contrattuale pare connotarsi per una funzione autenticamente previdenziale, sarebbe errato fare rientrare il beneficio spettante all'assicurato in un meccanismo di compensatio lucri cum damno.

Tale finalità, peraltro, non sarebbe potuta adeguatamente emergere sulla base dell'orientamento che meccanicamente equipara l'assicurazione contro gli infortuni non mortali a quella contro i danni al patrimonio, pregiudicando eccessivamente le ragioni della vittima.

Compensatio lucri cum damno e surrogazione ex art. 1916 c.c.: un appunto critico alle tesi delle Sezioni Unite

Qualche precisazione in più potrebbe svolgersi invece con riguardo al secondo profilo (quello che fa leva sull'esclusione della surrogazione ex art. 1916 c.c.), ritenuto cruciale dalla sentenza in commento.

Ribadita la validità della clausola di rinuncia alla rivalsa da parte dell'assicuratore, la pronuncia afferma che «le parti, prevedendo la preventiva rinuncia dell'assicuratore alla surroga, hanno inteso pattuire che, in caso di infortunio imputabile a responsabilità del terzo, l'assicurato potesse cumulare il risarcimento del danno con l'indennizzo assicurativo» (essendosi voluta escludere, quindi, l'operatività della compensatio).

Ed invero, secondo l'orientamento inaugurato dalle pronunce a Sezioni Unite del 2018, la previsione di una «surroga» in favore dell'assicuratore sarebbe da considerarsi un presupposto necessario perché possa effettuarsi la compensatio. Se, infatti, in esito al pagamento della prestazione collaterale si verificasse la pura e semplice estinzione (o riduzione) del debito risarcitorio, l'operare della compensatio avvantaggerebbe in definitiva il responsabile del danno, che vedrebbe «alleggerita» la propria posizione. Al fine di mantenere intatta la portata sanzionatoria e deterrente delle regole di responsabilità, allora, le Sezioni Unite affermano che l'elisione del credito risarcitorio in capo al danneggiato (per una quota corrispondente al valore dell'indennizzo) può aver luogo soltanto se un meccanismo di rivalsa consente di trasferire contemporaneamente tale credito nella sfera di chi ha erogato la prestazione collaterale. Qualora non operi la rivalsa, invece, il credito spetterebbe integralmente al danneggiato.

Ecco che allora in questa medesima logica – disposta a rinunciare ad una rigorosa applicazione del principio indennitario, preferendo preservare le istanze sanzionatorie connesse alla responsabilità civile – l'esclusione pattizia della surrogazione in favore dell'assicuratore impedirebbe effettivamente l'applicazione della compensatio lucri cum damno, consentendo così all'assicurato di «cumulare» entrambe le prestazioni.

Si può tuttavia porre in dubbio che, qualora sia esclusa la surrogazione in favore dell'assicuratore (o, in generale, del soggetto che ha effettuato la prestazione collaterale), il danneggiato possa effettivamente beneficiare di importi superiori all'entità del danno. Ed infatti il principio espresso dalle Sezioni Unite è stato sottoposto a critica, nella parte in cui ammette che, in difetto dell'operare della rivalsa, possano cumularsi risarcimento ed indennizzo in favore dello stesso soggetto. Un diverso orientamento ritiene infatti che l'efficacia deterrente della responsabilità possa svolgersi soltanto in quanto compatibile con la funzione riparatoria (ritenuta prevalente), senza in ogni caso poter attingere ad esiti «ultracompensativi»; sicché, qualora il danno risulti già compensato da un indennizzo, l'obbligazione risarcitoria dovrebbe estinguersi anche in assenza della previsione di una rivalsa [E. Bellisario, Compensatio lucri cum damno: punti fermi e persistenti questioni aperte, in Danno resp., 2019, 732 ss.; Izzo, op. cit., p. 1519 s.; Regazzoni, La compensatio lucri cum damno tra causa e funzione del beneficio, cit., p. 305 ss.].

In questa prospettiva (che mi sembra meriti condivisione), il «cumulo» tra risarcimento e prestazione collaterale potrebbe ammettersi solamente nei casi in cui quest'ultima si giustifichi per una finalità diversa da quella risarcitoria: ad esempio, in virtù di intenti solidaristici da parte dello Stato (come nel caso delle prestazioni in favore delle vittime di attentati o di catastrofi naturali), oppure per scopi previdenziali (nel quadro di un'operazione di risparmio, mediante l'accumulo dei premi).

Qualora invece la prestazione collaterale abbia anch'essa – come l'obbligazione risarcitoria – la funzione di compensare il danno, essa potrà essere pretesa dal danneggiato soltanto entro i limiti dettati dal principio indennitario o di integralità del risarcimento (di carattere inderogabile). Qualora il danno sia già stato almeno in parte neutralizzato (ad esempio, in virtù dell'operare della polizza infortuni), una ulteriore prestazione «compensativa» non avrebbe ragione di porsi, e non potrà quindi aversi il cumulo (verificandosi invece l'estinzione pro parte del credito risarcitorio); e ciò indipendentemente dal fatto che sia previsto o meno un meccanismo di rivalsa che consenta di far gravare in definitiva sul responsabile il peso economico «pieno» della riparazione del danno.

Gli effetti (variabili) dell'esclusione della surrogazione in favore dell'assicuratore

Accedendo a quest'ultimo orientamento – che diversamente da quello accolto dalle Sezioni Unite ritiene possibile «sacrificare» le istanze sanzionatorie, relativizzando quindi l'importanza della rivalsa nell'ambito del meccanismo di compensatio lucri cum damno – occorre riconsiderare, in conclusione, anche le funzioni della clausola di esclusione della surrogazione in favore dell'assicuratore. Non è infatti detto, in questa logica, che essa consenta all'assicurato di beneficiare di entrambe le prestazioni (quella prevista dalla polizza e quella dovuta in base all'obbligazione ex delicto).

Anzi, come appena visto, un tale esito sarà senz'altro precluso ogni volta in cui anche alla prestazione collaterale si possa riconoscere una finalità strettamente risarcitoria. Se questa finalità risulta già assolta (almeno in parte) dall'indennizzo assicurativo, non si potrà esigere in aggiunta (per lo meno, per l'intero ammontare dal danno) l'adempimento dell'obbligazione da fatto illecito; e questo anche qualora sia espressamente esclusa la facoltà di surrogazione per l'assicuratore, oppure questa non venga in concreto esercitata.

Come stiamo per vedere, l'eventuale «rinuncia» convenzionale alla rivalsa non pare determinante in vista dell'applicazione della compensatio lucri cum damno. A tal fine, l'interprete dovrà invece individuare la funzione del beneficio collaterale sulla base di altri elementi (nel nostro caso, ad esempio, le modalità di liquidazione dell'indennizzo), e solo in seguito rivolgersi a considerare tale clausola per apprezzarne la finalità; potendo essa comunque dispiegare efficacia soltanto su un piano diverso rispetto a quello della compensatio.

Ed infatti, se il beneficio appare dotato di una funzione distinta dalla riparazione del danno – ad esempio un fine solidaristico o previdenziale, che ne consente il cumulo con la prestazione risarcitoria – la sua erogazione non inciderà sulla sorte del credito verso il responsabile, che rimarrà in ogni caso e per l'intero in capo al danneggiato. In tale ipotesi, l'eventuale clausola di «rinuncia» alla rivalsa risulta per certi versi superflua, non dispiegando un'efficacia autonoma, ma limitandosi a ribadire ed esplicitare un effetto (l'esclusione della surrogazione) che deriva già dai principi generali.

Ma l'esclusione convenzionale della rivalsa non pare decisiva, in vista della compensatio, neppure nelle fattispecie in cui, al contrario, appare indubbia la ratio di riparazione del danno: in questi casi, il pagamento dell'indennizzo impedirà al danneggiato di esercitare altresì il proprio credito risarcitorio, senza che tale esito risulti disponibile per le parti (per via della natura inderogabile del principio indennitario). La rinuncia convenzionale alla surrogazione – o, prima ancora, la sia mancata previsione ad opera della legge – opererebbe quindi su un piano diverso: determinando la definitiva estinzione (almeno per la parte già «coperta» dall'indennizzo) dell'obbligazione risarcitoria, che non si trasferirebbe in capo a colui che ha eseguito la prestazione collaterale (nel nostro caso, l'assicuratore).

Chiaro risulta dunque, in questa prospettiva, il ruolo della previsione (o dell'esclusione) della rivalsa: individuare il soggetto al quale l'onere economico della riparazione del danno deve risultare addebitato in via definitiva. Ammettendo la surrogazione, tale costo sarà fatto ricadere sul responsabile; escludendola (per via legale o convenzionale) sarà destinato a rimanere nella sfera di chi ha eseguito la prestazione «collaterale» (ad esempio l'assicuratore, che rinunciando preventivamente a svolgere l'azione «recuperatoria» esigerà un premio più elevato per l'assunzione del rischio).

È certo vero che, così facendo, potrebbe risultare in concreto avvantaggiato il responsabile del danno; ma non è detto – al contrario di quanto sembrano sostenere le Sezioni Unite – che un tale esito sia da scongiurare ad ogni costo, onde evitare «una sostanziale impunità del danneggiante». Anzi, sovente l'alleggerimento della posizione del responsabile appare proprio tra gli obiettivi dell'istituzione di un sistema «alternativo» di riparazione del danno, di carattere pubblicistico (ad esempio, l'indennità di cui alla l. n. 210/1992) [G. Ponzanelli, Alcuni profili del risarcimento del danno nel contenzioso di massa, in Riv. dir. civ., 2006, II,331 ss.] oppure privatistico: come nei casi in cui l'attivazione, da parte del cliente, di un'assicurazione contro i danni con esclusione della rivalsa è richiesta dal professionista quale condizione per l'assunzione di un incarico, dal cui inadempimento i danni potrebbero derivare (e proprio al fine di beneficiare di una sostanziale limitazione di responsabilità).

Ecco che allora, in queste ultime ipotesi, l'esclusione della rivalsa completa la previsione di una prestazione collaterale risarcitoria, realizzando nell'insieme una scelta di allocazione del costo del danno diversa da quella compiuta dal sistema della responsabilità contrattuale ed extracontrattuale. Si tratta tutt'al più allora – nei casi in cui tale scelta è compiuta dai contraenti e non dalla legge – di valutare la legittimità di una siffatta riallocazione, alla luce delle norme che segnano il grado di derogabilità delle regole di responsabilità; prima tra tutte quella espressa dall'art. 1229 c.c., in virtù della quale si potrebbe ipotizzare l'«obbligatorietà» della rivalsa nei casi in cui il terzo abbia cagionato il danno con dolo (e forse altresì nei casi di colpa grave).

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