Licenziamento ritorsivo: dichiarazione di nullità nonostante l'errore nella scelta del rito

Giovanni Guarini
Laura Manunta
12 Luglio 2023

Il principio di conservazione degli atti processuali prevale sull'errore nella scelta del rito licenziamenti. Le registrazioni di conversazioni assunte sui luoghi di lavoro sono utilizzabili per esigenza difensive del lavoratore. La valutazione del carattere ritorsivo del licenziamento presuppone la insussistenza della causa di recesso formalmente addotta; l'onere della prova incombe sul lavoratore che si può avvalere di presunzioni gravi, precise e concordanti.
Massime

In tema di rito applicabile ai licenziamenti, il lavoratore licenziato dopo il 12 luglio 2012 che chiede l'applicazione della tutela reale di cui all'art. 18 L. n. 300/1970 non può rinunziare al procedimento obbligatorio introdotto dalla L. n. 92/2012 in virtù del principio di indisponibilità del rito; il lavoratore assunto dopo il 7 marzo 2015, invece, può ottenere solo le forme di tutela previste dal contratto a tutele crescenti (tra cui anche la reintegrazione nei casi di licenziamenti discriminatori/ritorsivi ovvero intimati verbalmente che prevedono la reintegrazione) e deve agire in giudizio nelle forme ordinarie.

Nell'ambito dei rapporti di lavoro, la registrazione di conversazioni tra un dipendente e i suoi colleghi presenti, all'insaputa dei conversanti, configura una grave violazione del diritto alla riservatezza a meno che la registrazione della conversazione (alla quale colui che registra deve assistere personalmente) sia finalizzata a precostituirsi un mezzo di prova contro il datore di lavoro in una causa futura o imminente, costituendo essa l'esercizio del diritto di difesa, così da bilanciare le contrapposte istanze della riservatezza da una parte e della tutela giurisdizionale del diritto di difesa dall'altra.

La prova del carattere ritorsivo del licenziamento grava sul lavoratore, ex art. 2697 c.c., ben potendo, tuttavia, il giudice di merito valorizzare, a tal fine, tutto il complesso degli elementi acquisiti al giudizio, compresi quelli già considerati per escludere in concreto il giustificato motivo oggettivo e/o la giusta causa, nel caso in cui questi elementi da soli, o posti in correlazione con altri, secondo la valutazione unitaria e globale dell'"id quod pletumque accidit", consentano di ritenere raggiunta, anche in via presuntiva, la prova del carattere ritorsivo del recesso.

Il caso

La sentenza in commento nasce da un caso che vede come protagonista una lavoratrice che svolgeva la mansione di cassiera presso un supermercato, licenziata per giusta causa a seguito di due contestazioni disciplinari. Tale licenziamento veniva impugnato in quanto “nullo, poiché ritorsivo oltre che comminato in assenza della giusta causa” avanti al Tribunale di Velletri, con ricorso proposto ai sensi dell'art. 1 commi 47 e ss. della L. n. 92/2012 (introduttiva del cd. Rito Fornero). Tuttavia, la ricorrente era stata assunta in data 1° febbraio 2019 e pertanto soggetta al regime dei licenziamenti nulli o illegittimi previsto dal D.lgs. n. 23/2015 c.d. Jobs Act, il quale prescrive “ai licenziamenti di cui al presente decreto torna ad applicarsi li rito ordinario disciplinato dagli artt. 414 e ss. c.p.c.”.

Il Tribunale di Velletri, nonostante l'errore nella scelta del rito, ammetteva il mutamento da “rito Fornero” a rito ordinario e dichiarava la nullità del licenziamento intimato in quanto ritorsivo, da un lato ritenendo non soddisfatto l'onere probatorio gravante sul datore di lavoro della giusta causa del licenziamento, dall'altro lato e al contrario considerando sufficientemente dimostrato da parte della lavoratrice il carattere ritorsivo del licenziamento, dimostrazione che può essere fornita anche tramite presunzioni semplici.

Le questioni

La sentenza in oggetto affronta le seguenti fondamentali questioni in materia di licenziamento:

1. L'errata scelta del rito (“Fornero” o 414 c.p.c.)

2. L'utilizzabilità probatoria delle registrazioni di conversazioni tra il dipendente e i suoi colleghi

3. Sull'onere della prova in materia di licenziamento per giusta causa

4. Lo standard probatorio richiesto in materia di licenziamento ritorsivo

L'errata scelta del rito (“Fornero” o 414 c.p.c.). Quanto all'errata scelta del rito Fornero, nel caso affrontato dal Tribunale di Velletri la ricorrente aveva impugnato il licenziamento intimatole per giusta causa con ricorso proposto ai sensi dell'art. 1 commi 47 e ss. della L. 28 giugno 2012, n. 92. Trattasi della legge che ha introdotto in Italia il ben noto e altrettanto criticato “Rito Fornero”, un rito speciale finalizzato a risolvere quelle controversie aventi ad oggetto l'impugnativa di licenziamenti soggetti alla disciplina dell'art. 18 Statuto dei Lavoratori, anche laddove le stesse richiedano la risoluzione di questioni inerenti alla qualificazione del rapporto di lavoro.

Il principale intento che spinse il Legislatore del 2012 a creare un nuovo rito in materia di lavoro, estraneo e distinto rispetto a quello ordinario disciplinato dagli artt. 409 e ss. del c.p.c., è stato quello di garantire alle cause di licenziamento particolarmente spinose una decisione caratterizzata da celerità e speditezza, capace di intervenire nel più breve tempo possibile, nonché, come previsto dalla prima norma della Legge, quello di predisporre misure e interventi volti a realizzare un mercato inclusivo e dinamico in grado di contribuire alla creazione di occupazione e allo stesso tempo combattere e ridurre il tasso di disoccupazione.

Che alla fine il Legislatore non sia riuscito nel suo ambizioso, forse troppo, intento è assodato; si dirà di più, parte della dottrina crede fermamente che il Rito Fornero si sia avvicinato ad un obiettivo del tutto opposto rispetto a quello prefissatosi: in concreto ha finito per circoscrivere eccessivamente l'ambito di operatività della cd. tutela reale “forte”, ovvero la reintegrazione sul posto di lavoro precedentemente occupato, invece sostituita per numerose tipologie di licenziamento illegittimo dalla tutela risarcitoria.

Come già anticipato, nella sfera operativa del Rito Fornero rientrano quei licenziamenti disciplinati dall'art. 18 commi dal 4 al 7 dello Statuto dei Lavoratori, Legge n. 300/1970, purché siano soddisfatti i requisiti dimensionali richiesti dalla stessa norma: il datore di lavoro deve “in ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo nel quale ha avuto luogo il licenziamento occupare alle sue dipendenze più di quindici prestatori di lavoro o più di cinque se trattasi di imprenditore agricolo”.

A tale caratteristica dimensionale, che rappresenta il presupposto di applicabilità del rito speciale, fa eccezione il licenziamento discriminatorio o illecito, al quale si applica la tutela prevista dall'art. 18 commi 1, 2 e 3, Stat. Lav., a prescindere dal numero di lavoratori impiegati. Più precisamente, laddove ci si trovi dinnanzi ad un licenziamento discriminatorio o illecito, come nel caso trattato, la tutela offerta al lavoratore è la seguente: il giudice dichiara la nullità del licenziamento, condanna il datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e al pagamento di un'indennità risarcitoria commisurata all'ultima retribuzione di fatto maturata dal giorno del licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegrazione, la quale ad ogni modo non può essere inferiore a cinque mensilità e dalla quale va detratto l'aliunde perceptum”, derivante dallo svolgimento di eventuali ulteriori attività lavorative; infine condanna il datore a versare i contributi previdenziali e assistenziali.

Nel 2015 la terra dei licenziamenti e delle relative tutele ha avvertito un nuovo sisma con l'entrata in vigore di un'ulteriore fonte regolatrice della materia, il D.lgs. 4 marzo 2015, n. 23 introduttivo del famoso “Jobs Act: contratto di lavoro a tutele crescenti”, figlio del Governo Renzi. In verità il Jobs Act non ha inciso né sull'art. 18 Stat. Lav., né sulla disciplina introdotta con il Rito Fornero; invece, ne ha elaborata una differente parallela e collaterale, poiché dedicata ai licenziamenti intervenuti in quei rapporti di lavoro instaurati solo dopo l'entrata in vigore dello stesso D.lgs. del 2015.

Pertanto, ai rapporti di lavoro già in atto continuerà ad applicarsi il Rito Fornero; di riflesso, l'elemento di discrimine e che permetterà al lavoratore di conoscere quale sarà la tutela applicabile al suo licenziamento sarà semplicemente il criterio cronologico: se assunto prima del marzo 2015 allora il suo licenziamento sarà disciplinato dal Rito Fornero, se assunto dopo la suddetta data e purché rivesta la qualifica di “operaio, impiegato o quadro con contratto a tempo indeterminato” si ritroverà all'interno della sfera operativa del Jobs Act.

Ciò è espressamente evidenziato all'art. 11 del D.lgs. del 2015, rubricato “Rito applicabile”, il quale prevede che: “Ai licenziamenti di cui al presente decreto non si applicano le disposizioni dei commi da 48 a 68 dell'articolo 1 della legge 28 giugno 2012, n. 92” ai quali torna ad applicarsi il rito ordinario disciplinato dagli artt. 414 e ss. c.p.c.. Neppure la disciplina del Jobs Act è scevra da critiche, prima fra tutte quella di aver determinato una situazione differenziata quanto alle tutele sul lavoro in base al mero dato cronologico dell'assunzione.

Ora, quanto al licenziamento ritorsivo la novella legislativa non ha modificato gli strumenti di tutela già previsti dallo Statuto dei Lavoratori, infatti, l'art. 2 co. 2 del D.lgs. n. 23/2015, prevede sempre la reintegrazione del lavoratore, con condanna del datore di lavoro a corrispondere in suo favore un'indennità risarcitoria commisurata all'ultima retribuzione utile per il calcolo del TFR corrispondente al periodo dal giorno del licenziamento alla reintegra, oltre accessori di legge e regolarizzazione contributiva per il periodo illegittimamente non lavorato.

Tanto premesso ci si accinge a ripercorrere la vicenda, per alcuni versi insidiosa, dell'erronea scelta del rito.

L'impugnazione avverso il licenziamento nel caso affrontato dal Tribunale di Velletri era stata proposta con “rito Fornero”; tuttavia, la ricorrente era stata assunta in data 1° febbraio 2019; dunque la S.r.l. resistente, costituendosi in giudizio, eccepiva in via preliminare l'inammissibilità del ricorso, poiché avrebbe dovuto essere presentato ai sensi dell'art. 414 c.p.c., considerato che la lavoratrice era stata assunta successivamente all'entrata in vigore del D.lgs. n. 23/2015 e che dunque, avrebbe dovuto trovare applicazione l'art. 11 dello stesso Decreto.

L'erronea scelta del rito è stata a lungo una questione posta al centro del dibattito giurisprudenziale e solo recentemente le decisioni sembrano essersi allineate verso un orientamento condiviso.

In un primo momento la giurisprudenza, di fronte al problema, appariva suddivisa in due principali indirizzi: un primo indirizzo, il più intransigente, riteneva che nel caso di errata scelta del rito il Tribunale avrebbe dovuto dichiarare il ricorso inammissibile, oppure, le domande improcedibili o improponibili (Tribunale di Milano, ord. 4 febbraio 2014).

Un secondo indirizzo, sosteneva che, nel caso di errore nella scelta del rito, doveva essere richiesto al Giudice di convertirlo, assegnando alle parti un termine per regolarizzare gli atti. Così, il Tribunale di Roma, che, con sentenza 23 marzo 2016, statuiva: “Nel caso di impugnativa del licenziamento proposto con ricorso ex art. 1 comma 47 e ss. L. n. 92/2012 (cd. rito Fornero) in fattispecie soggetta al regime sostanziale del d.lgs. n. 23/2015 (cd. Jobs Act), che comporta la proposizione dell'impugnativa con il rito del lavoro ex artt. 414 e ss. c.p.c., occorre fare applicazione analogica della disposizione processuale di cui all'art. 4 d.lgs. n. 150/2011, e dei principi generali che prevedono che l'erronea scelta del rito non dia luogo a pronuncia di inammissibilità o improponibilità della domanda, dovendosi garantire la prosecuzione del giudizio nelle forme processuali corrette, attraverso un provvedimento di mutamento del rito”.

Esempio peculiare del principio di conservazione degli atti processuali, fondamento del menzionato secondo orientamento, è rappresentato dalla pronuncia dell'8 gennaio 2019, n. 1897 della Corte d'Appello di Milano, la quale ha esaminato un caso, similare rispetto a quello in commento, di una lavoratrice licenziata che nei 60 giorni successivi al licenziamento per giusta causa lo impugnava e, tempestivamente, ovvero entro i 180 giorni, depositava il ricorso ai sensi, però, del Rito Fornero. Il Giudice di prime cure lo dichiarava dunque inammissibile per errata elezione del rito, essendo stata la lavoratrice assunta nel dicembre del 2016. La lavoratrice non si dava per vinta e, il giorno successivo all'intervenuta sentenza, depositava il ricorso ex art. 414 c.p.c., nonostante fosse spirato il termine di 180 giorni dall'impugnazione stragiudiziale del licenziamento.

A fronte dell'intempestività del secondo ricorso, l'appellante eccepiva la decadenza della lavoratrice dal diritto di impugnazione del licenziamento, poiché intervenuto a seguito della scadenza del termine previsto dall'art. 6, 2° co. L. n. 604/1966. Tuttavia, con sorpresa così si espresse la Corte d'Appello di Milano: “Il ricorso per l'impugnazione del licenziamento depositato tempestivamente ma dichiarato inammissibile per ragioni connesse al rito prescelto è idoneo ad impedire la decadenza prevista dall'art. 6, comma 2, L. n. 604/1966 ed il lavoratore potrà, pertanto, riproporre il ricorso con il rito appropriato, anche dopo lo spirare del termine. Inoltre, qualora una causa sia introdotta erroneamente con il «Rito Fornero» o con il ricorso ex art. 414 Cod. proc. civ., il Giudice deve disporre il mutamento del rito e non dichiarare l'inammissibilità del ricorso”.

Il Collegio ha ritenuto applicabili gli artt. 426 e 427 c.p.c., in particolare quest'ultimo tratta del passaggio dal rito speciale al rito ordinario e, al suo comma 1, dispone che: “Il giudice, quando rileva che una causa promossa nelle forme stabilite dal presente capo riguarda un rapporto diverso da quelli previsti dall'articolo 409, se la causa stessa rientra nella sua competenza dispone che gli atti siano messi in regola con le disposizioni tributarie; altrimenti la rimette con ordinanza al giudice competente, fissando un termine perentorio non superiore a trenta giorni per la riassunzione con il rito ordinario”.

La Suprema Corte, con la recente sentenza 26 gennaio 2022, n. 2312, ha messo un punto definitivo all'orientamento più restrittivo, pronunciandosi in tal senso: “In tema di licenziamento individuale, costituisce atto idoneo ad impedire il decorso del termine decadenziale ex art. 6 comma 2, della L. n. 604/1966 il ricorso dichiarato inammissibile dal giudice per erronea scelta del rito, in quanto lo stesso, diversamente dalla statuizione di estinzione per rinuncia, implicante l'abdicazione al diritto di ottenere una decisione di merito nel processo intrapreso, è comunque significativo della non dismessa volontà del ricorrente di ottenere una pronuncia giudiziale, cui si riconnette, quale atto di esercizio giudiziale del diritto fatto valere, l'instaurazione di un rapporto processuale diretto a ottenere l'intervento del giudice, produttivo di conseguenze processuali e sostanziali, e, come tale, idoneo ad impedire la predetta decadenza”.

In tal caso la Suprema Corte ha accolto il ricorso della lavoratrice e ha cassato con rinvio la sentenza impugnata della Corte d'Appello di Firenze, con la quale la stessa aveva confermato in sede di gravame la decisione del giudice di prime cure, il quale aveva dichiarato inammissibile, ai sensi dell'art. 6 della L. n. 604/1966, il ricorso proposto dalla lavoratrice per l'impugnazione del licenziamento intimatole, ritenuto ormai tardivo, poiché proposto oltre i 180 giorni dall'impugnazione stragiudiziale.

Il Giudice di legittimità così statuiva: “Le conclusioni di cui sopra sono conformi ai principi enunciati nella decisione Corte Cost. n. 212/2020, con la quale è stato evidenziato che la ratio della formulazione della L. n. 604/966, art. 6, comma 2, va individuata nell'esigenza, ritenuta dai legislatore meritevole di tutela, di far emergere in tempi brevi il contenzioso sull'atto datoriale, al contempo ponendo in rilievo la natura eccezionale - ex art. 14 preleggi, in quanto derogatorie della disciplina generale delle impugnative negoziali e, quindi, di stretta interpretazione - delle norme contenute nella L. n. 604/1966, art. 6, commi 1 e 2 atte a condizionare l'azione alla previa proposizione di una tempestiva impugnativa stragiudiziale, poi coltivata nella sede giudiziaria (o analoga) entro un termine di decadenza; in via conclusiva, essendo emersa tempestivamente, a mezzo del ricorso dichiarato inammissibile, la volontà della lavoratrice di impugnare in via contenziosa il licenziamento e in ragione del non consentito ampliamento in via interpretativa delle ipotesi di decadenza L. n. 604/1966, ex art. 6 non può ritenersi verificato l'effetto preclusivo dell'azione; conseguentemente la sentenza impugnata deve essere cassata, con rinvio alla Corte d'appello di Firenze, in diversa composizione, che provvederà alla trattazione della causa uniformandosi ai principi di diritto di cui sopra, provvedendo anche alle spese del giudizio di legittimità”.

Le ulteriori questioni affrontate. Quanto alle ulteriori questioni affrontate, la ricorrente del caso in commento impugnava il licenziamento a lei intimatole per giusta causa in quanto: “nullo e/o illegittimo e/o inefficace, per essere viziato sotto plurimi profili, in particolare in quanto discriminatorio/ritorsivo, oltre che comminato in assenza della giusta causa”.

In particolare, la lavoratrice sosteneva che sin dall'instaurazione del rapporto di lavoro, veniva sottoposta a turni di lavoro massacranti e discriminatori diversi da quelli assegnati agli altri colleghi, ed inoltre che il responsabile del supermercato l'aveva demansionata assegnandole i compiti di magazziniera e scaffalista, da ultimo anche per averla messa in turno nella giornata di Ferragosto 2020, ricadente di sabato e la domenica successiva senza mancata previa concertazione. Si trovava pertanto costretta ad avanzare legittime dimostranze per il tramite del proprio avvocato di fiducia; le stesse, tuttavia, non sortivano alcun effetto, ed anzi sfociavano in due contestazioni disciplinari rispettivamente sanzionate con la sospensione dal lavoro e con il licenziamento. La ricorrente di tali fatti forniva prove documentali e per testi.

Tre sono i punti sui quali il Tribunale ha ritenuto di doversi soffermare:

a) Se potesse essere acquisito, come da richiesta della ricorrente nell'atto introduttivo del ricorso, un CD audio nel quale erano contenute delle registrazioni intercorse tra lavoratrici;

b) se potesse dirsi assolto l'onere probatorio gravante sul datore di lavoro della giusta causa del recesso;

c) se potesse dirsi assolto l'onere probatorio gravante sulla lavoratrice del carattere ritorsivo del licenziamento tramite mere presunzioni.

Le soluzioni giuridiche

L'errata scelta del rito (“Fornero” o 414 c.p.c.). Ora, nel caso in commento, per quanto riguarda la prima questione, ovvero l'errata scelta del rito, il Tribunale di Velletri ha aderito all'orientamento favorevole alla conservazione degli atti processuali che, d'altronde confermato dalla stessa Suprema Corte del 2022, argomentando la decisione in modo cristallino.

In prima battuta ha precisato quale sia il criterio da seguire nella scelta del rito, risultante dal seguente coordinamento tra norme: l'art. 1 comma 1, del D.lgs. n. 23/2015 prevede testualmente che: "Per i lavoratori che rivestono la qualifica di operai, impiegati o quadri, assunti con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato a decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto, il regime di tutela nel caso di licenziamento illegittimo è disciplinato dalle disposizioni di cui al presente decreto". A detta disposizione si aggiunga l'art. 11, sempre del D.lgs. n. 23/2015, che così statuisce: “le disposizioni dell'articolo 1, commi da 48 a 68, della L. n. 92/2012 non si applicano ai "licenziamenti di cui al presente decreto", al quale dunque torna ad applicarsi li rito ordinario disciplinato dagli artt. 414 e s. c.p.c.

Ne deriva che, il lavoratore assunto dopo il 7 marzo 2015 può ottenere solo le forme di tutela previste dal contratto a tutele crescenti, tra le quali anche la reintegrazione nei casi di licenziamenti discriminatori/ritorsivi oppure intimati verbalmente che prevedono la reintegrazione, e dovrà agire in giudizio secondo il rito ordinario.

Diversamente, “il lavoratore licenziato dopo li 12 luglio 2012 che chiede l'applicazione della tutela reale di cui all'art. 18 non può rinunziare al procedimento obbligatorio introdotto dalla L. n. 92/2012 in virtù del principio di indisponibilità del rito”.

Sulla base della lettura delle norme così come sopra esposta, il Tribunale di Velletri ha riconosciuto che il ricorso introduttivo del giudizio del quale è stato investito andava proposto nelle forme ordinarie ai sensi dell'art. 414 c.p.c. Tuttavia, ha considerato applicabili gli artt. 426 e 427 c.p.c. in tema di conversione del rito, dando prevalenza alle esigenze di garanzia della tutela dei diritti e all'economia processuale.

Gli artt. 426 e 427 c.p.c. esplicano le modalità affinché si possa addivenire al passaggio dal rito ordinario a quello del lavoro e viceversa; al contempo in modo implicito escludono che il processo debba chiudersi senza decisione nel merito per il solo fatto di essere stato instaurato su di un rito errato, ossia che l'esattezza del rito costituisca un presupposto processuale.

Pertanto, il Giudice ha disposto il mutamento del rito e la prosecuzione del giudizio secondo le forme ordinarie ai sensi dell'art. 414 c.p.c., tramite l'applicazione in via analogica dell'art. 4, comma 3 del D.lgs. n. 150/2011 a mente del quale: "quando la controversia rientra tra quelle per le quali il presente decreto prevede l'applicazione del rito del lavoro, il giudice fissa l'udienza di cui all'articolo 420 c.p.c. e il termine perentorio entro il quale le parti devono provvedere all'eventuale integrazione degli atti introduttivi mediante deposito di memorie e documenti in cancelleria".

Tale sentenza fa propri due fondamentali principi: quello del “mutamento del rito”, che permette al giudice di rimediare all'errore commesso da una parte nell'individuazione del rito applicabile al rapporto dedotto in giudizio, tenendo conto della situazione sostanziale controversa per come prospettata nella domanda e non per l'effettivo modo di essere della stessa, come potrebbe emergere al momento della decisione di merito (Cass. civ., n. 5544/96); nonché il principio secondo il quale “il rito non è requisito di validità della domanda giudiziale”, così che l'errore sul rito non determina la conclusione del processo con un provvedimento di rigetto per motivi di mera forma, ma richiede solo l'adozione, d'ufficio, di un provvedimento ordinatorio di mutamento del rito, che permette al processo di giungere ad una decisione di merito secondo il rito prescritto dalla legge.

L'utilizzabilità probatoria delle registrazioni di conversazioni tra il dipendente e i suoi colleghi. Per quanto riguarda la seconda questione affrontata dal Tribunale di Velletri, il primo interessante tema evidenziato in sentenza riguarda la possibilità per la ricorrente di depositare un CD audio contenente registrazioni intercorse tra colleghe, ignare di essere registrate, rilevanti ai fini della dimostrazione del trattamento discriminatorio riservato alla lavoratrice da parte del datore di lavoro.

La richiesta di autorizzazione al deposito del CD audio perveniva tempestivamente, già con ricorso introduttivo del giudizio. Da parte sua, il difensore della resistente si opponeva in quanto mezzo istruttorio inammissibile.

Il giudicante richiamava l'art. 13 delle Specifiche Tecniche PCT DM n. 44/2011, il quale individua i formati dei documenti informatici di cui è ammesso il deposito telematico; gli stessi sono così elencati: .pdf .rtf .txt .jpg .gif .tif .xml. Nel comma successivo vengono individuati altri formati utilizzabili, quali il .zip, il .rar ed il .arj; la norma prevede inoltre che l'utilizzo dei seguenti formati compressi è consentito purché contenenti file nei formati previsi al comma precedente.

In tale elenco non è ricompreso il file audio, pertanto l'unico strumento per poterlo depositare è il deposito non telematico, riproducendolo su un supporto CD, DVD e/o PEN DRIVE USB.

Sulla base dell'art. 16-bis co. 9 del D.l. n. 179/2012 "Il giudice può ordinare il deposito di copia cartacea di singoli atti e documenti per ragioni specifiche...". Per tali ragioni e poiché la difesa della ricorrente nel ricorso introduttivo del giudizio ha tempestivamente chiesto l'autorizzazione al deposito del CD audio, il Tribunale non ammetteva li file audio depositato con il ricorso in formato zip, ma ammetteva la produzione del CD (con onere a carico del procuratore della ricorrente di duplicazione del supporto così da metterlo a disposizione della controparte).

Sull'ammissibilità del mezzo istruttorio costituito da registrazioni di conversazioni intercorse tra colleghi di lavoro a loro insaputa, il Tribunale cita l'insegnamento della Suprema Corte, la quale: “nell'ambito dei rapporti di lavoro, la registrazione di conversazioni tra un dipendente e i suoi colleghi presenti, all'insaputa dei conversanti, configura una grave violazione del diritto alla riservatezza a meno che la registrazione della conversazione (alla quale colui che registra deve assistere personalmente) sia finalizzata a precostituirsi un mezzo di prova contro il datore di lavoro in una causa futura o imminente, costituendo essa l'esercizio del diritto di difesa, così da bilanciare le contrapposte istanze della riservatezza da una parte e della tutela giurisdizionale del diritto di difesa dall'altra” (Cfr. Cass., sez. lav., 2 novembre 2021, n. 31204).

Inoltre, l'art. 24 del D.lgs. n. 196/2003 stabilisce che può prescindersi dal consenso dell'interessato quando il trattamento dei dati, pur non riguardanti una parte del giudizio in cui la produzione venga eseguita, sia necessario per far valere o difendere un diritto, a condizione che essi siano pertinenti alla tesi difensiva e non eccedenti le sue finalità, trattati esclusivamente per tali finalità e per il periodo strettamente necessario al loro perseguimento (Cfr. Cass. n. 21612/2013).

Nella sentenza in commento il Tribunale valutava pertinenti alla tesi difensiva le registrazioni e ne ammetteva il relativo deposito tramite CD audio.

Sull'onere della prova in materia di licenziamento per giusta causa

La sentenza in commento è poi passata ad analizzare il merito della causa, a tal fine antecedente logico per la dimostrazione della natura ritorsiva del licenziamento è la valutazione circa l'insussistenza del motivo formalmente addotto a giustificazione dell'atto espulsivo, nella fattispecie concreta la giusta causa.

Sul significato da attribuire al concetto di “giusta causa” si è più volte pronunciata la giurisprudenza di legittima, sempre sostenendo che per tale doveva intendersi “un inadempimento talmente grave che qualsiasi altra sanzione diversa dal licenziamento risulti insufficiente a tutelare l'interesse del datore di lavoro (Cass. 24 luglio 2003, n. 11516), al quale non può dunque essere imposto, differentemente da quanto invece avviene per il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, l'utilizzo del lavoratore in un'altra diversa posizione (Cass. 19 gennaio 1989, n. 244).

È ormai pacifico che la giusta causa non debba essere circoscritta ai soli comportamenti integranti notevoli inadempienze contrattuali, ma può configurarsi anche laddove il lavoratore realizzi comportamenti estranei alla sfera del contratto e dell'inadempimento, purché gli stessi siano idonei a far venire meno il rapporto di fiducia tra datore e lavoratore nell'ambiente di lavoro.

Il licenziamento per giusta causa figura quale licenziamento disciplinare per eccellenza, idoneo ad interrompere il rapporto di lavoro in tronco, senza nemmeno necessità di preavviso. A tal fine deve però essere necessariamente preceduto dall'apertura di un procedimento disciplinare, consistente in immediate contestazioni disciplinari che il datore di lavoro ha l'obbligo di muovere tempestivamente contro il lavoratore per permettere che egli possa adeguatamente difendersi.

Ciò detto, la prova della sussistenza della giusta causa del licenziamento grava sul datore di lavoro ai sensi dell'art. 5, L. n. 604/1966.

Nella sentenza in commento due sono state le contestazioni disciplinari ricevute dalla ricorrente: la prima “per assenza ingiustificata il giorno 15 agosto 2020”. la seconda “per avere, durante il turno di lavoro del 17 agosto 2020, esortato i colleghi a contattare li proprio avvocato nel caso di mancata corrispondenza tra il loro inquadramento contrattuale e le mansioni loro assegnate, e più in generale per scarso rendimento, scortesia nei confronti della clientela, carenza di diligenza nell'esecuzione delle mansioni, il tutto a danno della società”.

Il Tribunale ha ritenuto che parte resistente non avesse fatto fronte all'onere probatorio su di lei gravante, non avendo fornito prove sufficienti inerenti alla responsabilità della lavoratrice dei fatti oggetto delle contestazioni disciplinari.

In particolare quanto alla contestazione di assenza ingiustificata in un giorno festivo, il Tribunale di Velletri ha risolto prontamente la questione giuridica prospettata, citando la pronuncia della Suprema Corte n. 18887/2009, che insegna: “Nessun dipendente può essere obbligato a lavorare in un giorno festivo legato a ricorrenze civili o religiose, per cui anche se nel contratto collettivo applicato al rapporto di lavoro è prevista la possibilità che il dipendente presti servizio in un giorno di festa, non rappresenta mai un obbligo per quest'ultimo. Di conseguenza le clausole del C.C.N.L. che prevedono l'obbligo di svolgere il lavoro in tali periodi -per le particolari caratteristiche del settore- sono nulle, e la rinuncia a tale diritto richiede li consenso del lavoratore, in quanto: "in nessun caso una norma di un contratto collettivo può comportare il venir meno di un diritto già acquisito dal singolo lavoratore (come il diritto di astenersi dal lavoro nelle festività infrasettimanali), non trattandosi di diritto disponibile per le organizzazioni sindacali" (Cass. n. 9176/1997; n. 16592/2015)”.

La lavoratrice, nel caso in questione, aveva espressamente, tramite PEC prodotta in giudizio, negato il suo consenso a prestare la propria attività lavorativa nel giorno festivo di Ferragosto, pertanto, calzante è il principio secondo il quale “in difetto di un consenso del lavoratore a prestare la propria attività nelle festività infrasettimanali questi non potrà essere considerato assente ingiustificato, ed il provvedimento del datore di lavoro deve ritenersi nullo, quindi improduttivo di effetti, ed integrante un inadempimento parziale del contratto di lavoro (Cass. n. 26920/2008 e n. 1809/2002).

Sull'asserita clausola pattizia di settore tramite la quale il datore di lavoro avrebbe acquisito il consenso preventivo della lavoratrice a prestare la propria attività lavorativa nei giorni festivi purché con un preavviso di almeno due giorni, la resistente nulla provava al riguardo (in un primo momento dichiarando di aver smarrito tale documentazione, in un secondo momento allegandola, ma subito dopo dichiarando di non volersene avvalere a seguito del disconoscimento della sottoscrizione posta in calce al documento da parte della lavoratrice).

Il Tribunale di Velletri ha convenuto che, anche laddove fosse esistita una clausola pattizia di settore valida, valevole come eccezione alla regola legale, e che quindi prevedesse che l'attività lavorativa potesse essere svolta anche nei giorni festivi infrasettimanali, subordinando, quindi, la fruizione della festività alle esigenze aziendali, sarebbe stato comunque onere del datore di lavoro provare tali esigenze.

Quindi, nel caso in commento la società resistente non ha provato, né tantomeno allegato, la sussistenza di particolari esigenze organizzative per le quali la ricorrente avrebbe dovuto lavorare per due giorni festivi consecutivi.

Lo standard probatorio richiesto in materia di licenziamento ritorsivo. Quanto all'onere probatorio del carattere ritorsivo del licenziamento, la sentenza introduce il merito rispolverando la definizione, negli anni elaborata dalla giurisprudenza della Suprema Corte, di licenziamento ritorsivo. Per quest'ultimo deve intendersi quel licenziamento “intimato come ingiusta e arbitraria reazione a un comportamento legittimo del lavoratore, che attribuisce al licenziamento li connotato dell'"ingiustificata vendetta".

La sua nullità deriva dalla lettura in combinato disposto degli artt. 1418 e 1345 c.c., poiché la ritorsione è motivo illecito determinate, dunque nullo. La tutela riservata al lavoratore ove vittima di licenziamento discriminatorio/ritorsivo consiste nella reintegrazione, a prescindere dalle caratteristiche dimensionali del datore di lavoro.

Per quanto riguarda la distribuzione dell'onere probatorio tra le parti: la sussistenza della giusta causa del licenziamento grava sul datore di lavoro ai sensi dell'art. 5 L. n. 604/1966, come già premesso; dall'altro lato sul lavoratore graverà la prova del carattere ritorsivo del licenziamento ai sensi dell'art. 2697 c.c.

Fino a pochi anni fa, sul lavoratore pendeva una vera e propria spada di Damocle, difatti, era gravato da un onere probatorio eccessivamente stringente: “non era sufficiente la mera deduzione di situazioni potenzialmente idonee a generare acredine da parte del datore di lavoro, ma veniva richiesta in quanto necessaria la prova della sussistenza di un rapporto di causalità tra tali circostanze e l'asserito intento di rappresaglia, dovendo, in mancanza, escludersi la finalità ritorsiva del licenziamento (Cass., sez. lav., 14 luglio 2005, n. 14816).

Tuttavia, negli ultimi anni si è assistito ad un graduale ribaltamento del suddetto orientamento, tanto che oggi il trattamento riservato al lavoratore appare di gran lunga più favorevole e adeguato. Il principio evidenziato dal Tribunale di Velletri e ormai consolidato in giurisprudenza è quello secondo cui l'onere della prova che grava sul lavoratore del carattere ritorsivo del licenziamento ben può essere assolto tramite semplici presunzioni.

La sentenza in commento ha sposato tale principio, accompagnato ad un altro altrettanto incisivo: “Il giudice di merito può valorizzare tutto il complesso degli elementi acquisiti al giudizio, compresi quelli già considerati per escludere in concreto il giustificato motivo oggettivo e/o la giusta causa, nel caso in cui questi elementi da soli, o posti in correlazione con altri, secondo la valutazione unitaria e globale dell'id quod plerumque accidit", consentano di ritenere raggiunta, anche in via presuntiva, la prova del carattere ritorsivo del recesso (Cfr. Cass., 23 settembre 2019, n. 23583).

Lo stesso principio è stato riaffermato dalla Suprema Corte con la più recente sentenza del 7 marzo 2023 n. 6838, la quale anche accertava la nullità del licenziamento intimato per giusta causa in quanto ritorsivo. In tal caso il Giudice di legittimità ha anzitutto ribadito che, ai fini dell'accoglimento della domanda di accertamento della nullità del licenziamento in quanto ritorsivo: “occorre che l'intento ritorsivo datoriale abbia avuto efficacia determinativa esclusiva della volontà di recedere dal rapporto di lavoro, anche rispetto ad altri fatti rilevanti ai fini della configurazione di una giusta causa o di un giustificato motivo di recesso (Cass. n. 14816/2005; Cass. n. 3986/2015; Cass. n. 9468/2019), dovendosi escludere la necessità di procedere ad un giudizio di comparazione fra le diverse ragioni causative del recesso, ossia quelle riconducibili ad una ritorsione e quelle connesse, oggettivamente, ad altri fattori idonei a giustificare il licenziamento (Cass. n. 5555/2011)”.

Continuava poi “tale onere può essere assolto dal lavoratore anche mediante presunzioni (Cass. n. 20742/2018; Cass. n. 18283/2010), potendo il giudice del merito “valorizzare a tal fine tutto il complesso degli elementi acquisiti al giudizio, compresi quelli già considerati per escludere il giustificato motivo di recesso, nel caso in cui questi elementi, da soli o nel concorso con altri, nella loro valutazione unitaria e globale consentano di ritenere raggiunta, anche in via presuntiva, la prova del carattere ritorsivo del recesso (Cass., 23 settembre 2019, n. 23583)”. Anche qui il Collegio riteneva non esaustivamente provata la giusta causa del recesso da parte del datore di lavoro e, al contrario, dimostrato il carattere ritorsivo del licenziamento tramite semplici presunzioni.

Nello stesso senso anche Cass., 17 giugno 2020, n. 11705, investita del caso di un dirigente licenziato per giusta causa, che impugnava il licenziamento in quanto nullo, poiché ritorsivo. La Suprema Corte confermava la pronuncia del Giudice di appello che, una volta rilevata l'insussistenza delle condotte contestate, riteneva provato il motivo illecito per presunzioni.

Tra le presunzioni, il giudice di appello aveva conferito “un ruolo non secondario” all'inesistenza dei fatti così come contestati negli addebiti. A rilevare, comunque, erano anche altre circostanze, quali ad esempio un contenzioso in corso tra le parti per questioni retributive e una graduale e crescente privazione del dirigente dalle proprie funzioni di autorità poco prima che intervenisse il licenziamento.

Il datore di lavoro ricorreva in Cassazione lamentando che il Giudice di merito avesse errato nel trarre la prova del carattere ritorsivo del licenziamento in via principale dall'insussistenza dei fatti così come contestati negli addebiti disciplinari; tale circostanza, infatti, avrebbe potuto comportare al massimo la sola assenza di giustificazione del recesso, con conseguente diritto alla sola indennità supplementare prevista dal contratto collettivo.

La Corte di legittimità rigettava il ricorso confermando che l'onere della prova del carattere meramente vendicativo del recesso è a carico del lavoratore il quale, a tal fine, può servirsi di presunzioni.

Secondo il costante orientamento giurisprudenziale, lo schema logico al quale occorre attenersi ai fini della valutazione degli elementi a disposizione del giudice si articola in due fasi: una prima detta “valutazione atomistica”, riservata alla valutazione dei singoli elementi indiziari, al fine di escludere quelli privi di rilevanza e invece mantenere quelli caratterizzati da una potenziale valenza probatoria. Una seconda fase detta “valutazione della concordanza indiziaria”, consistente nella valutazione globale di tutti i singoli elementi indiziari precedentemente selezionati e, successivamente nel domandarsi se, incastrati tra loro, possano fornire un univoco quadro indiziario.

Fra gli indizi utilizzati il Giudice di Legittimità tiene in considerazione il dato cronologico, così Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., (ud. 5 marzo 2020) 2 ottobre 2020, n. 21194, ha confermato la sentenza della Corte d'Appello di Milano che aveva ritenuto il carattere ritorsivo del licenziamento avuto riguardo alla successione cronologica degli eventi costituiti dalla missiva del 16 febbraio 2017, con la quale il M. aveva rivendicato i propri diritti retributivi e previdenziali di lavoratore subordinato, ed il rifiuto della società con la conseguente lettera, del 20 marzo 2017, che gli aveva comunicato di non avere più necessità della sua collaborazione professionale.

In modo coerente a tale evoluzione giurisprudenziale il Tribunale di Velletri ha adottato il suddetto schema logico nella valutazione di tutti gli elementi a sua disposizione è lampante in ogni passaggio della sentenza. Non solo parte resistente non ha provato che la lavoratrice fosse responsabile delle contestazioni disciplinari, ma ciò non è emerso nemmeno dalle testimonianze dei colleghi di lavoro; ancora, altre circostanze rilevanti possono essere rinvenute di certo nel fatto che i rapporti tra ricorrente e resistente erano già tesi da tempo, e ciò emergeva dalle PEC inviate alla società dall'avvocato di fiducia della lavoratrice, in cui veniva rivendicata la mancata retribuzione degli straordinari e della 14esima mensilità, la mancata concessione dei riposi obbligatori, e quindi l'esistenza di condizioni di lavoro faticose e stressanti per le quali la ricorrente era stata costretta a ricorrere a cure mediche. La lavoratrice sosteneva, infatti, che osservava sistematicamente un orario settimanale di 49,50 ore con tutte le domeniche lavorative, superiore al limite massimo delle 48 ore previsto dal C.C.N.L. del Settore senza che vi fossero particolari necessità aziendali. Circostanza quest'ultima nemmeno smentita da parte resistente. Anche dalle registrazioni prodotte contenenti le conversazioni tra colleghe erano chiare le lamentele della lavoratrice sulle condizioni di lavoro e sul trattamento deteriore a lei sola riservato dal datore di lavoro.

Sulla base di una valutazione unitaria e globale del complesso degli elementi acquisiti al giudizio come sopra esposti, compresi quelli che escludono il giustificato motivo di recesso, il Tribunale di Velletri ha considerato raggiunta, anche in via presuntiva, la prova del carattere ritorsivo del recesso.

Così, infatti, si legge in sentenza: “La società, dopo l'intervento del legale di fiducia della ricorrente e dopo li rifiuto della lavoratrice di lavorare il 15 agosto, le ha elevato due contestazioni disciplinari risultate infondate e quindi l'ha licenziata. Si è, dunque, in presenza di un licenziamento nullo ai sensi degli artt. 1418, 1345 e 1324 c.c., che non sarebbe stato intimato in assenza della motivazione ritorsiva, essendo stata raggiunta la prova di un rapporto di causalità tra le situazioni idonee a creare acredine e l'intento di rappresaglia”.

Pertanto, veniva riconosciuta alla ricorrente la tutela prevista dall'art. art. 2 co. 2 del D.lgs. n. 23/2015 (si precisa, in virtù del mutamento del rito) a norma del quale deve disporsi la reintegrazione della ricorrente nel posto di lavoro precedentemente occupato, con condanna della società datrice di lavoro a corrispondere in suo favore un'indennità risarcitoria commisurata all'ultima retribuzione utile per il calcolo del TFR, corrispondente al periodo dal giorno del licenziamento alla reintegra, oltre accessori di legge, nonché a regolarizzare la sua posizione contributiva per li periodo di illegittima estromissione dall'azienda.

Osservazioni

Il Tribunale di Velletri, nonostante l'errore nella scelta del rito (proposto nelle forme del Fornero anziché in quelle ordinarie), ha ritenuto il ricorso ugualmente ammissibile, essendo sufficiente da parte sua l'applicazione d'ufficio dello strumento processuale del mutamento del rito.

Una tale decisione risultava doverosa, sia per ragioni di conformità ai precedenti giurisprudenziali, sia per motivi inerenti all'economia processuale e soprattutto all'esigenza che il processo giungesse ad una decisione sul merito; sarebbe stato del tutto privo di logica interrompere il giudizio con un rigetto per ragioni di mera forma, non essendo il rito presupposto di validità della domanda giudiziale.

Ed ancora, la sentenza inserisce un nuovo tassello quanto ai criteri di accertamento del licenziamento ritorsivo. C'è da dire che la delicatezza della materia è inversamente proporzionale alla chiarezza della normativa. Se si chiudono gli occhi la questione sembra assumere la forma di un intreccio ingarbugliato di norme difficile da sciogliere. Nel caso analizzato a lavoratrice, illegittimamente licenziata, oggetto di rappresaglia da parte del datore di lavoro, costretta a subire condizioni di lavoro faticose e stressanti tanto da ricorrere a cure mediche, fa affidamento alla Legge e, ignorando una sola delle altre infinite disposizioni inserite nel macchinoso e rigido processo del lavoro, si viene a trovare di fronte al rischio di un rigetto in rito per inammissibilità del ricorso.

L'erronea scelta nell'utilizzo del rito Fornero non poteva che essere posta nel nulla tramite il semplice mutamento del rito in quello corretto, non potendosi pregiudicare fino a tal punto il lavoratore per un errore di mera forma.

Lo stesso dicasi per l'onere probatorio “agevolato” gravante sul lavoratore, il quale può servirsi, ai fini della prova del carattere ritorsivo del licenziamento, di semplici presunzioni.

Tale regola di matrice giurisprudenziale risulta del tutto coerente con la posizione “debole” per definizione del lavoratore di fronte al potere datoriale; rappresenta, infatti, un'importante ciambella di salvataggio nei confronti di coloro ai quali viene intimato un licenziamento, che disvela un intento, la prova del quale è molto spesso ardua e complessa, fino a tramutarsi, alle volte, in una vera e propria probatio diabolica.