Le SU sul valore probatorio del verbale della Commissione Medica nel giudizio risarcitorio
18 Luglio 2023
Le Sezioni Unite si sono pronunziate su una questione centrale, risolvendo il contrasto giurisprudenziale sull'efficacia probatoria, nel giudizio avente ad oggetto l'azione di risarcimento del danno, della valutazione espressa dalla Commissione Medica Ospedaliera di cui all'art. 4 della legge n. 210 del 1992, con specifico riferimento alla prova del nesso causale fra emotrasfusione e insorgenza della patologia. Il caso trae origine da una causa di risarcimento danni in conseguenza di danni da emotrasfusione, avvenuta nel 1998, scoperti nel 2004 e dopo che la C.M.O. aveva riconosciuto il nesso di causa tra l'emotrasfusione e l'infezione da virus dell'HIV. I Giudici di merito avevano applicato il principio di diritto enunciato da Cass. 15 giugno 2018 n. 15734, secondo cui l'accertamento della riconducibilità del contagio all'emotrasfusione, compiuto dalla Commissione medica ex art. 4 della legge n. 210 del 1992, non può essere messo in discussione dal Ministero nel giudizio di risarcimento del danno, perché proveniente da un organo dello Stato ed imputabile allo stesso Ministero.
Il contrasto giurisprudenziale riguarda il valore di prova o di mero indizio da assegnare, nel giudizio civile di risarcimento del danno, al verbale della Commissione medica di cui all'art. 4 della legge n. 210 del 1992, che abbia riconosciuto la sussistenza del nesso causale fra l'emotrasfusione e la malattia insorta ai fini della liquidazione delle prestazioni assistenziali disciplinate dalla legge richiamata. Punto di partenza è rappresentato dalla pronunzia delle Sezioni Unite del 2008 (Cass. Civ. S.U. 11 gennaio 2008 n. 577), secondo cui il verbale redatto ai sensi della disposizione sopra richiamata, al di fuori del procedimento amministrativo per la concessione dell'indennizzo, costituisce prova legale ex art. 2700 c.c. solo limitatamente ai fatti che la commissione attesta essere avvenuti in sua presenza o dalla stessa compiuti, mentre le valutazioni, le diagnosi o comunque le manifestazioni di scienza o di opinione espresse forniscono unicamente materiale indiziario, soggetto al libero apprezzamento del giudice, il quale può valutarne l'importanza ai fini della prova, ma non può attribuire alle stesse il valore di vero e proprio accertamento. Tale orientamento, seguito per un decennio, ha iniziato a incrinarsi nel 2018. Cass. Civ., 15 giugno 2018 n. 15734 ha ritenuto inapplicabile tale principio nel caso in cui l'azione risarcitoria venga proposta nei confronti del Ministero della Salute, perché in detta fattispecie, nella quale le parti del giudizio coincidono con quelle del procedimento amministrativo, l'accertamento è imputabile allo stesso Ministero, che lo ha espresso per il tramite di un suo organo, e, pertanto, nel giudizio di risarcimento del danno il giudice deve ritenere «fatto indiscutibile e non bisognoso di prova» la riconducibilità del contagio alla trasfusione. Successivamente altre sentenze della Cassazione hanno ribadito il valore di prova legale dell'accertamento amministrativo, valorizzando anche non il verbale della commissione, bensì il provvedimento di riconoscimento dell'indennizzo.
Ritengono le Sezioni Unite, a definizione del denunciato contrasto, che debba essere disatteso l'orientamento espresso più di recente e che, invece, vada ribadito il principio di diritto già enunciato da Cass. S.U. 11 gennaio 2008 n. 577, applicabile sia alle controversie promosse nei confronti delle sole strutture sanitarie sia ai giudizi nei quali venga convenuto anche il Ministero.
I passaggi logici sono, in estrema sintesi, i seguenti:
Poi si inserisce la questione dell'eventuale valore confessorio del giudizio medico. Qui le Sez. Un. vanno oltre, ritenendo che non si può giungere a ravvisare nell'accertamento della C.M.O. una confessione, sia per quanto già espresso, sia «per l'assorbente ragione che il nesso causale non è un fatto obiettivo , ma una relazione che lega un'azione o un'omissione ad una data conseguenza, che non si sarebbe verificata ove la condotta non fosse stata tenuta o l'azione doverosa non fosse stata omessa». L'affermazione delle S.U. fa trasecolare nella sua assolutezza. Ora, al di là delle regole sull'accertamento del nesso di causa in materia medica in talune evenienze (cfr. “il più probabile che non”), le S.U. specificano l'affermazione.
Si può condividere (ai limiti del lapalissiano) che «all'affermazione o alla negazione del nesso causale si può giungere solo all'esito di un complesso procedimento valutativo nel quale rilevano, oltre allo stato delle conoscenze scientifiche da apprezzare ai fini della cosiddetta causalità generale, gli elementi individualizzanti necessari per far ritenere concretizzata nel singolo caso all'esame del giudice la legge causale generale». Tale concetto viene usato per escludere che si possa trattare di confessione: se non si è in presenza di un «fatto obiettivo», opera il principio secondo cui la confessione non può avere ad oggetto giudizi, opinioni o assunzioni di responsabilità, e riguarda solo «fatti», la cui qualificazione giuridica è comunque riservata al giudice. Il ragionamento prova troppo. Non è questa sede per approfondire il tema, ma il nesso di causa è un elemento obiettivo dell'art. 2043 c.c. Dal punto di vista formale e processuale, si è d'accordo che la confessione ha ad oggetto fatti e non giudizi. Ma una cosa è dire che il verbale della C.M.O. esprime una valutazione (sul nesso eziologico), altra cosa è dire che il nesso di causa non sia un fatto obiettivo. Il riconoscimento del nesso eziologico avviene tramite un giudizio, che può implicare una valutazione medico-scientifica. È evidente, allora, che l'odierna pronunzia rischia di porre in discussione l'unitarietà di un accertamento scientifico-medico. Se anche proviene da una Commissione afferente ad un diverso Ministero, è la legge (forse al pio scopo di ricercare una terzietà della Commissione?) che vincola il Ministero della Salute a tale valutazione, in quanto proviene da un organo dello Stato ed imputabile allo stesso Ministero per disposizione di legge, a prescindere dall'afferenza. Non a caso, le S.U. cercano di correggere il tiro. « Ciò, peraltro, non significa che nel giudizio promosso nei confronti del Ministero della Salute per il risarcimento del danno derivato dall'emotrasfusione l'accertamento effettuato in sede amministrativa del nesso causale fra quest'ultima e l'insorgenza della patologia non possa essere utilizzato ai fini della prova del nesso medesimo, che deve essere offerta dalla parte che agisce in giudizio ». È ancora una volta lapalissiano che risarcimento ed indennizzo «presuppongono entrambi un medesimo fatto lesivo, ossia l'insorgenza della patologia, derivato dalla medesima attività». L'azione di danno si differenzia da quella finalizzata al riconoscimento della prestazione assistenziale essenzialmente perché richiede anche che l'attività trasfusionale o la produzione di emoderivati siano state compiute senza l'adozione di tutte le cautele ed i controlli esigibili a tutela della salute pubblica. Come detto, però, è fermo che il nesso di causa è un elemento oggettivo della fattispecie risarcitoria aquiliana, cui si aggiungono gli altri ulteriori e diversi elementi, tra cui quello della colpevolezza, per giungere alla declaratoria di responsabilità. Ma questo non toglie che il nesso eziologico è un dato obiettivo. Indubbiamente, però, la questione è complessa, perché processualmente si pone il problema della rilevanza probatoria di un atto proveniente da una Commissione terza, che esprime una valutazione medico-scientifica sul nesso di causa, rilevante anche nel giudizio civile risarcitorio.
Questo in tutti i casi (esito positivo o negativo per il danneggiato), al di là che il giudizio possa vincolare il Ministero della Salute. Non è solo una questione di prova contro il Ministero, ma più generale. In questo senso, tolta l'affermazione secondo cui il nesso di causa non è un elemento obiettivo, la motivazione delle Sez. Un. appare condivisibile in parte. I verbali delle commissioni mediche, al pari di ogni altro atto redatto da pubblico ufficiale, fanno prova ex art. 2700 c.c. dei fatti che la commissione attesta essere avvenuti in sua presenza o essere stati dalla stessa compiuti, mentre le diagnosi, le manifestazioni di scienza o di opinione costituiscono materiale indiziario soggetto al libero apprezzamento del giudice che, pertanto, può valutarne l'importanza ai fini della prova, ma non può mai attribuire a loro il valore di prova legale, né ritenere che la valutazione espressa dalla Commissione medica circa la sussistenza del nesso causale fra emotrasfusione e malattia, escluda il nesso medesimo dal thema probandum del giudizio risarcitorio intentato nei confronti del Ministero. Le Sezioni Unite fanno anche una distinzione tra il giudizio della C.M.O. e il provvedimento di liquazione dell'indennità, che non convince del tutto, perché è centrale la valutazione medico-scientifica sul nesso di causa e non il provvedimento amministrativo di liquidazione. Una diversa valenza viene, così, riconosciuta al provvedimento che, sulla base dell'istruttoria svolta e del parere tecnico acquisito, disponga la liquidazione dell'indennizzo in favore del richiedente, sul presupposto dell'avvenuto accertamento in sede amministrativa dei requisiti tutti che integrano gli elementi costitutivi del diritto alla prestazione assistenziale. Fra detti elementi costitutivi rientra, appunto, il nesso causale che lega emotrasfusione e patologia indennizzata, sicché l'atto con il quale l'amministrazione si riconosce debitrice della provvidenza assistenziale, presuppone la valutazione positiva della derivazione eziologica, valutazione che se da un lato, in quanto tale, non può integrare una confessione, dall'altro costituisce un elemento grave e preciso da solo sufficiente a giustificare il ricorso alla prova presuntiva e a far ritenere provato, per tale via, il nesso causale: questo presuppone, come si desume dalle regole fissate per il procedimento dagli artt. 3 e 4 della legge n. 210 del 1992, un giudizio espresso da organi tecnici qualificati, sulla base di puntuali dati fattuali, allegati e documentati dal richiedente.
Quell'accertamento, dunque, è sufficiente a far ritenere integrata una valida prova presuntiva ex art. 2729 c.c. e, pertanto, l'amministrazione, nel giudizio di danno, non si può limitare alla generica contestazione del nesso causale ed all'altrettanto generica invocazione della regola di riparto dell'onere probatorio fissata dall'art. 2697 c.c., poichè la presunzione «forte» che dal riconoscimento amministrativo discende, seppure semplice e non legale, richiede, per essere superata, che vengano allegati specifici elementi fattuali non potuti apprezzare in sede di liquidazione dell'indennizzo o sopravvenute acquisizioni della scienza medica, idonei a privare la prova presuntiva offerta dei requisiti di gravità, precisione e concordanza che la caratterizzano. Rimane, poi, la questione inerente all'efficacia nel giudizio civile di risarcimento del danno del giudicato formatosi fra le stesse parti sul diritto all'indennizzo ex lege n. 210/1992. «Qualora due giudizi tra le stesse parti abbiano riferimento al medesimo rapporto giuridico ed uno di essi sia stato definito con sentenza passata in giudicato, l'accertamento così compiuto in ordine alla situazione giuridica ovvero alla soluzione di questioni di fatto e di diritto relative ad un punto fondamentale comune ad entrambe le cause, formando la premessa logica indispensabile della statuizione contenuta nel dispositivo della sentenza, preclude il riesame dello stesso punto di diritto accertato e risolto, anche se il successivo giudizio abbia finalità diverse da quelle che hanno costituito lo scopo ed il petitum del primo». Condizione imprescindibile è che il giudizio civile sia stato instaurato nei confronti del Ministero, legittimato passivo nella controversia assistenziale, e non della sola struttura sanitaria. Il giudice del merito è tenuto a rilevare anche d'ufficio la formazione del giudicato, a condizione che lo stesso risulti dagli atti di causa
In via conclusiva, deve essere accolto il primo motivo di ricorso, con conseguente assorbimento del secondo e del terzo motivo, con rinvio alla Corte d'Appello indicata in dispositivo che procederà ad un nuovo esame, da condurre nel rispetto dei principi di diritto che, sulla base delle considerazioni sopra esposte, di seguito si enunciano:
In conclusione, la sentenza delle Sez. Un. dovrà essere necessariamente oggetto di approfondimenti, in quanto alcuni passaggi motivazionali sono delicati e vanno inquadrati con maggiore attenzione.
(Fonte: Diritto e Giustizia) |