Agevolazione tariffaria: natura non retributiva e legittimità del recesso della società datrice di lavoro dalla regolamentazione collettiva
19 Luglio 2023
Il caso
Con la lineare ed approfondita sentenza in epigrafe, la Suprema Corte di Cassazione ha dichiarato, con soluzione che appare condivisibile, che l'agevolazione tariffaria sull'energia elettrica concessa dalla società datrice di lavoro ai propri ex dipendenti posti in quiescenza non ha natura retributiva, trovando fondamento unicamente nelle disposizioni del CCNL di riferimento. Di conseguenza, stante l'impossibilità di configurare il predetto beneficio quale diritto quesito, gli Ermellini hanno confermato la sentenza impugnata, ritenendo legittimo il recesso della Società dalla regolamentazione collettiva sulle agevolazioni tariffarie, atteso che l'efficacia della stessa non aveva natura indeterminata. Con riferimento al caso sottoposto al vaglio della giurisprudenza di legittimità, alcuni ex dipendenti – posti in quiescenza – di una Società operante nel settore della vendita dell'energia elettrica presentavano ricorso avverso la sentenza della Corte di Appello di Genova del 2019 che confermava la pronuncia di primo grado, con cui era stato respinto il ricorso presentato dagli stessi pensionati, volto all'ottenimento nei confronti della Società del mantenimento del proprio diritto di fruire delle riduzioni tariffarie sulla fornitura di energia elettrica, sulla scorta della disciplina collettiva vigente in costanza di rapporto di lavoro.
Ciò in quanto, secondo i predetti ricorrenti, entrambe le pronunce di merito, erroneamente interpretando le disposizioni di legge e del contratto collettivo applicato dalla Società nel corso dello svolgimento dell'attività lavorativa, avrebbero considerato legittima la revoca dell'agevolazione tariffaria, senza considerare l'inopponibilità a soggetti pensionati sia del recesso del datore di lavoro dal contratto collettivo con cui era stato previsto il beneficio, sia del successivo accordo, stipulato ai fini della concessione del beneficio una tantum, in sostituzione dell'agevolazione tariffaria.
Più nello specifico, a dire dei ricorrenti, le argomentazioni sviluppate in primo grado e confermate in grado di appello avrebbero errato nel non riconoscere la natura retributiva dell'agevolazione tariffaria, nonostante la dedotta rilevanza della stessa ai fini fiscali, previdenziali e pensionistici, nonché ai fini del calcolo del TFR, con violazione del principio di irriducibilità della retribuzione.
Un'interpretazione, quest'ultima, completamente disattesa anche dalla sentenza di legittimità in commento, che ha confermato l'efficacia del recesso datoriale.
In estrema sintesi, a sostegno della dedotta non corretta statuizione della pronuncia di appello impugnata, i ricorrenti insistevano su: (i) l'esistenza di un collegamento indissolubile tra la predetta agevolazione tariffaria e il rapporto di lavoro con i soggetti pensionati, già dipendenti della Società; (ii) l'illegittimità e l'inefficacia del recesso, stante la natura retributiva del beneficio - tesi motivate, altresì, dal fatto che il recesso datoriale veniva comunicato alle Organizzazioni Sindacali non più rappresentative degli ex dipendenti e, pertanto, non aventi i requisiti di legge per ricevere la comunicazione di disdetta da parte dello stesso datore di lavoro.
Dalla ricostruzione della disciplina collettiva in materia di agevolazione tariffaria, la Suprema Corte, a ben vedere, conferma i propri recenti orientamenti che considerano superato l'istituto del beneficio in esame, in relazione tanto alla mutuata natura della Società (da Ente pubblico economico a Società per Azioni per effetto dell'art. 15, d.l. n. 333/1992, come convertito in Legge), tanto al processo di liberalizzazione del mercato elettrico disposto con d.lgs. n. 79/1992, in attuazione della direttiva 96/92/CE, recante norme comuni per il mercato interno dell'energia elettrica, il cui processo è stato poi ultimato solamente nel 2007 (d.l. n. 73/2007, convertito nella l. n. 125/2007).
Posizione questa che mal si concilia con la tesi avversaria secondo la quale l'agevolazione tariffaria consisterebbe in un diritto quesito in via permanente – a beneficio dei pensionati (già dipendenti della Società) – assumendo la forma di retribuzione “differita” e, pertanto, insuscettibile di subire modifiche successivamente alla conclusione del rapporto di lavoro.
Secondo quest'ultimo orientamento, inoltre, diversamente da quanto statuito dalla sentenza che si annota, risulterebbe privo di rappresentatività sindacale l'accordo in cui è stato trasfuso il recesso datoriale e, pertanto, inefficace per gli ex dipendenti.
Trattasi di una tesi che non è stata condivisa dal panorama giurisprudenziale e, da ultimo, anche dalla sentenza in esame, la quale insiste nel considerare i vantaggi tariffari quale mera liberalità concessa a tempo indeterminato e, pertanto, revocabile in qualsiasi momento, anche tramite recesso unilaterale datoriale. La Suprema Corte è pervenuta alla sentenza in commento partendo da un excursus storico e normativo che ripercorre le principali vicende che hanno interessato l'istituto delle agevolazioni tariffarie sull'energia elettrica: dalla sua introduzione in epoca post corporativa, quale beneficio a favore dei dipendenti e delle relative famiglie ad uso domestico, sino all'estinzione di tale liberalità – anche per gli ex dipendenti e i loro superstiti – tramite comunicazione formale di recesso dalla regolamentazione collettiva sulle agevolazioni tariffaria avvenuta, anche in virtù del processo di liberalizzazione del mercato elettrico disposto dal c.d. “Decreto Bersani” (d.lgs. n. 79/1999), in attuazione della già citata direttiva europea, recante norme comuni per il mercato interno dell'energia elettrica.
Come ricostruito dalla giurisprudenza di legittimità che qui si annota, dalla evoluzione della disciplina collettiva in materia di agevolazione tariffaria, appare evidente, nonché condivisibile, come fosse necessario un superamento di tale istituto, non più attuale rispetto ai processi che hanno coinvolto un mercato ormai contrassegnato dalla presenza di molteplici distributori e società di vendita in concorrenza fra loro.
Ed infatti, come sottolineato dalla stessa sentenza in commento, nel predetto contesto storico e normativo, l'Autorità per l'Energia Elettrica e il Gas (AEEG), nell'ottica di evitare distorsioni del prezzo dell'energia per i consumatori domestici e di ridurre al minimo il rischio di un uso poco efficiente dell'energia elettrica, ha prontamente sollecitato l'incentivazione del riassorbimento degli sconti sui consumi elettrici.
Ciò premesso e volendo analizzare più nel dettaglio le questioni sottoposte al vaglio della sentenza di legittimità esaminata dalla scrivente, si osserva come le stesse si possano agevolmente individuare nei seguenti aspetti:
(i) la natura retributiva (corrispettiva) o meno dell'agevolazione tariffaria; (ii) l'eventuale configurabilità di un diritto quesito in capo ai ricorrenti (già dipendenti della Società); (iii) la legittimità del recesso unilaterale da parte della Società datrice di lavoro rispetto ad un contratto collettivo privo di un predeterminato termine di efficacia.
Andando con ordine, si fa presente come la prima delle questioni sopra individuate sia quella rispetto alla quale la giurisprudenza, tanto di merito, quanto di legittimità, si è interrogata in maggior misura, giungendo a conclusioni, talvolta, diametralmente opposte.
Se, da una parte, come d'altronde vantato dai ricorrenti pensionati della Società, è stato sostenuto che l'importo della riduzione tariffaria possa configurarsi quale elemento della retribuzione, in quanto strettamente connesso alla prestazione lavorativa resa dal singolo lavoratore, dall'altra, condividendo l'iter logico esplicato dalla sentenza di legittimità in esame, l'agevolazione tariffaria è stata interamente sottratta al rispetto dei canoni di proporzionalità e sufficienza di cui all'art. 36 Cost., poiché di natura difforme a quella retributiva.
Ed infatti, la posizione assunta dalla Cassazione, nel caso in esame, verte sull'impossibilità di riconoscere la natura corrispettiva del predetto beneficio concesso agli ex dipendenti, non solo in considerazione del fatto che lo stesso “trovava origine nel complessivo regolamento del rapporto di lavoro, senza essere in specificatamente destinato alla remunerazione resa dal dipendente” (da un punto di vista tanto qualitativo, tanto quantitativo), ma anche sulla irrilevanza della sua qualificazione come “reddito da lavoro”, in quanto costituente un mero indice di capacità contributiva che lo rende assoggettabile a prelievo fiscale e, pertanto, strettamente ricollegabile ad esigenze di natura tributaria.
A ciò si aggiunga, per completezza espositiva, che le asserite certificazioni da cui sarebbe emerso il mantenimento del diritto a tali riduzioni in favore degli exdipendenti, una volta estinto il rapporto di lavoro (rectius al momento del pensionamento), non possono in alcun modo assumere carattere significativo e dirimente, specie se considerando la comune volontà delle parti collettive e non solamente la posizione della Società.
Procedendo con la disamina, la seconda questione su cui si è pronunciata la Corte di Cassazione – certamente connessa a quella sopra inquadrata – concerne, nello specifico, la possibilità di considerare quale diritto quesito il mantenimento del suddetto beneficio, ovvero quale diritto che, entrato a far parte del patrimonio del lavoratore, in virtù della prestazione lavorativa resa dallo stesso in costanza di rapporto di lavoro, si assume come intangibile e, pertanto, non attaccabile dalla contrattazione collettiva in mancanza di uno specifico mandato o di una successiva ratifica da parte dei singoli lavoratori.
Ed invero, come sostenuto dalla Corte di Cassazione nella sentenza in commento, l'agevolazione tariffaria, lungi dal trovare la propria fonte all'interno del contratto di lavoro individuale, si classifica come un istituto che opera su un piano distinto da quest'ultimo, tutt'al più concorrente con il medesimo nella definizione degli aspetti relativi al rapporto lavorativo dei dipendenti.
In sintesi, ciò significa che nell'ipotesi di sostituzione di diposizioni collettive, è da escludersi la possibilità che il contenuto delle previgenti clausole – successivamente sostituite – venga trasposto (o comunque conservato) dalle nuove disposizioni, restando affidata all'autonomia contrattuale di tutte le parti collettive stipulanti l'autonomia contrattuale su tali aspetti.
Da ultimo, una volta esclusa la configurabilità del consolidarsi di un diritto quesito in capo ai lavoratori, i Giudici di legittimità hanno esaminato la questione di cui è stato già detto in precedenza, relativa alla legittimità del recesso dal contratto collettivo da parte della Società.
Alla luce delle argomentazioni sviluppate dalla sentenza in commento, nonché del granitico orientamento della Corte di Cassazione sul punto, il recesso della Società risulta indubbiamente consentito e a parere di chi scrive ciò appare condivisibile per le seguenti ragioni.
Innanzitutto, è noto come qualora il contratto collettivo non abbia un prefissato termine di efficacia, le parti contraenti non siano per sempre tenute al rispetto delle disposizioni ivi contenute. Ed infatti, come sostenuto anche dalla recente giurisprudenza di legittimità (1), vizierebbe la funzione della contrattazione collettiva, la quale deve modellarsi sulla base di una realtà socio-economica in continua evoluzione e che, pertanto, non può essere soggetta a termini temporali eccessivamente lunghi e dilatati.
In aggiunta, non può non considerarsi come tutto ciò che viene concesso da una pregressa disciplina collettiva più favorevole ma che, al tempo stesso, non si consolida all'interno del patrimonio del lavoratore, si configura semplicemente come “mera aspettativa”, che in nessun caso potrebbe precludere alla Società la possibilità di recedere dal contratto collettivo contenente una previsione positiva per i lavoratori (o ex dipendenti).
(1) Cfr. ex multis Cass., sez. lav., 11 maggio 2022, n. 14961, che ribadisce l'indirizzo già espresso in punto di recesso dal contratto aziendale (Cass., 17 settembre 2019, n. 23105), secondo cui «Qualora il contratto collettivo non abbia un predeterminato termine di efficacia, non può vincolare per sempre tutte le parti contraenti…sicché a tale contrattazione va estesa la regola, di generale applicazione nei negozi privati, secondo cui il recesso unilaterale rappresenta una causa estintiva ordinaria di qualsiasi rapporto di durata a tempo indeterminato, che risponde all'esigenza di evitare - nel rispetto dei criteri di buona fede e correttezza nell'esecuzione del contratto - la perpetuità del vincolo obbligatorio…». Considerazioni conclusive
Alla luce di quanto delineato e in conclusione, è possibile affermare come la disdetta del predetto beneficio sia da considerarsi pienamente legittima, non violando in alcun modo i diritti quesiti dei ricorrenti ed essendo rispettosa dei principi di correttezza, atteso che, in ogni caso, è da escludersi qualsivoglia natura retributiva dell'agevolazione tariffaria.
Ciò che rileva è infatti la classificazione del beneficio quale elemento del tutto svincolato dalla qualità e quantità della prestazione lavorativa degli exdipendenti, dalla durata del pregresso rapporto e dalla posizione che i lavoratori avevano assunto in azienda, trovando fondamento unicamente nelle disposizioni del contratto collettivo.
A parere di chi scrive, dunque, la sentenza in commento non dimentica di soppesare entrambi gli interessi coinvolti nel caso in esame, per poi enfatizzare, anche in virtù dei precedenti orientamenti consolidatisi sul punto, la legittimità della scelta operata dalla Società datrice di lavoro nel recedere dalla regolamentazione collettiva sulle agevolazioni tariffarie.
Si tratta, per ripercorrere brevemente le questioni analizzate in motivazione dalla sentenza in commento, di disdetta legittima in considerazione del fatto che l'agevolazione tariffaria di cui godevano gli ex dipendenti debba necessariamente essere considerata solamente come “mera aspettativa” – e non già come diritto quesito e pertanto intangibile – sorta alla stregua di una precedente e più favorevole regolamentazione.
A nulla vale, in conclusione, alcuna rivendicazione da parte dei ricorrenti in merito, soccombenti anche ai sensi della pronuncia che qui si annota della Suprema Corte di Cassazione. |