La tutela indennitaria per il licenziamento intimato in assenza di un valido patto di prova nel regime del “Jobs Act”

Luigi Di Paola
26 Luglio 2023

Con la sentenza in commento la S.C. affronta per la prima volta, nel regime del d.lgs. n. 23/2015, la questione della tutela applicabile all'ipotesi di licenziamento irrogato per mancato superamento del patto di prova che risulti affetto, tuttavia, da nullità, pervenendo alla conclusione che operi, nel caso, la tutela indennitaria. La complessità del tema, tuttavia, richiede una ampia riflessione circa la valenza del licenziamento totalmente privo di motivazione, al quale sembra doversi assimilare quello in esame.
Massima

La nullità della clausola che contiene il patto di prova determina la automatica conversione dell'assunzione in definitiva sin dall'inizio ed il venir meno del regime di libera recedibilità sancito dall'art. 1, l. n. 604/1966, con la conseguenza che il recesso «ad nutum», intimato in assenza di valido patto di prova, equivale ad un ordinario licenziamento - soggetto alla verifica giudiziale della sussistenza o meno della giusta causa o del giustificato motivo -, il quale, nel regime introdotto dal d.lgs. n. 23/2015, è assoggettato alla regola generale della tutela indennitaria di cui all'art. 3, comma 1, del predetto d.lgs., non essendo riconducibile ad alcuna delle specifiche ipotesi, di cui al successivo comma 2 del menzionato art. 3, nelle quali è prevista la reintegrazione.

Il caso

Un lavoratore, nel regime del d.lgs. n. 23/2015 (cd. “Jobs Act”), viene licenziato per mancato superamento del patto di prova affetto, tuttavia, da nullità per non essere state specificate sin dall'origine le mansioni del lavoratore medesimo; sia in primo che in secondo grado viene applicata la tutela indennitaria cd. “forte” di cui all'art. 3, comma 1, del predetto d.lgs. (ove è previsto che “Salvo quanto disposto dal comma 2, nei casi in cui risulta accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo o per giustificato motivo soggettivo o giusta causa, il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un'indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a due mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a sei e non superiore a trentasei mensilità”).

La S.C. conferma la decisione del giudice del gravame, con una motivazione di cui si illustreranno nel prosieguo i passaggi centrali.

La questione

La questione in esame è la seguente: nell'ipotesi di licenziamento intimato per mancato superamento della prova, ove il relativo patto risulti nullo, essendo il licenziamento illegittimo, quale tutela si applica al lavoratore nel regime del “Jobs Act”?

Le soluzioni giuridiche

Nel pervenire alla propria decisione, la Corte ricostruisce, sulla scorta di principi collaudati, il sistema della nullità del patto di prova, affermando, in primo luogo, che la nullità in questione non inficia l'intero contratto, il quale, pertanto, rimane in essere con le caratteristiche di un ordinario contratto di lavoro. Di conseguenza, le ragioni del recesso datoriale tornano ad essere quelle consuete, scolpite nell'art. 1, l. n. 604/1966, imperniate sulla giusta causa o sul giustificato motivo.

Se ne può pertanto concludere, in prima battuta, che il recesso in questione è ingiustificato, e, come tale, va sanzionato.

Va solo per inciso evidenziato che, nel rispondere ad un motivo di ricorso prospettato dal lavoratore, la Corte esattamente esclude che il licenziamento intimato “ad nutum” in assenza di un valido patto di prova sia nullo, poiché la nullità, per come testé visto, attiene al patto, inficiando solo quest'ultimo - con conseguente mera illegittimità del recesso intimato sul presupposto della validità del patto stesso -, né vi è una norma che in qualche modo sancisca la nullità di un tale licenziamento; senza contare che la nullità in questione non può derivare neppure da una sorta di “carenza di potere”, poiché nel sistema dei licenziamenti individuali la mancanza dei presupposti per l'irrogazione dell'atto espulsivo determinano sempre illegittimità/ingiustificatezza.

A questo punto la Suprema Corte, nel fare un parallelo con la soluzione adottata in una ipotesi analoga regolata, però, dalla cd. leggeFornero”, incentrata sulla applicabilità, in quel regime, della tutela reintegratoria attenuata di cui all'art. 18, comma 4, St. Lav. (cfr. Cass., 3 agosto 2016, n. 16214, ove è affermato che “La cessazione unilaterale del rapporto per mancato superamento della prova rientra nell'eccezionale fattispecie del recesso “ad nutum” di cui all'art. 2096 c.c., sottratto all'ordinaria disciplina di controllo delle ragioni del licenziamento, fermo restando, peraltro, che il richiamo al mancato superamento di un patto di prova non validamente apposto è inidoneo a costituire giusta causa o giustificato motivo di licenziamento e giustifica l'applicazione della tutela reintegratoria e risarcitoria, prevista dall'art. 18, comma 4, Stat. Lav, come modificato dalla l. n. 92/2012, applicabile “ratione temporis”), illustra le ragioni per cui la soluzione in questione non sarebbe, nel nuovo regime, praticabile.

Al riguardo, la S.C. afferma: “Invero, la novella del 2012 non richiedeva di procedere, come viceversa necessario in relazione all'articolazione di tutele prevista dal d. lgs n. 23/2015, ad ulteriore specifica qualificazione del vizio in oggetto in termini di riconducibilità alla categoria della “giusta causa”, del “giustificato motivo soggettivo” o del “ giustificato motivo oggettivo”, perché tali ipotesi erano tutte connotate, da punto di vista sanzionatorio, dall'applicabilità della tutela reintegratoria in ipotesi di “manifesta insussistenza del fatto” o della “insussistenza del fatto”, categorie nelle quali poteva agevolmente ricondursi, senza ulteriori approfondimenti quella del recesso “ad nutum” intimato in assenza di valido patto di prova. Nel sistema introdotto dal d.lgs. n. 23/2015, connotato, invece, dal disallineamento delle tutele apprestate per il licenziamento disciplinare e per il licenziamento per giustificato motivo oggettivo (che ammette solo la tutela indennitaria ex art. 3, comma 1, d.lgs. cit.) il tema della corretta qualificazione del vizio del recesso datoriale diviene ineludibile”.

Di seguito, evidenzia che la verifica della tutela applicabile “si incentra quindi sull'art. 3, d.lgs. cit. in relazione al quale risulta decisiva la considerazione del carattere solo residuale che nell'impianto normativo del legislatore del cd. Jobs Act assume la tutela reintegratoria, come reso palese dall'incipit che apre il primo comma dell'art. 3: “Salvo quanto disposto dal comma 2, nei casi in cui risulta accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo o per giustificato motivo soggettivo o giusta causa, il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un'indennità (…)”. Il comma 2, infatti, stabilisce la applicazione della reintegrazione solo nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l'insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento”.

L'esito del ragionamento è che “Nel disegno del legislatore del 2015, quindi, la forma di tutela comune a tutte le ipotesi di licenziamento illegittimo è costituita dalla tutela indennitaria, anch'essa variamente articolata, e tale scelta non presta il fianco a dubbi di costituzionalità avendo il Giudice delle Leggi riconosciuto al legislatore, pur nel rispetto dei principi di eguaglianza e di ragionevolezza, ampio margine di discrezionalità nella previsione delle tutele riservate al lavoratore illegittimamente espulso, precisando che la reintegrazione non costituisce l'unico possibile paradigma attuativo dei principi costituzionali di cui agli artt. 4 e 35 Cost. (Corte cost., n. 125/2022, Corte cost., n. 59/2021, Corte cost., n. 254/2020, Corte cost. n. 194/2018)”.

Inoltre, conclude la Corte, l'applicabilità della tutela indennitaria all'ipotesi considerata “appare (…) la più coerente con il principio, sotteso all'impianto normativo del d. lgs. n. 23/2015 in oggetto, ispirato alla tendenziale graduazione delle sanzioni in funzione della gravità del vizio del licenziamento, apparendo distonico, rispetto a tale impianto, attribuire la tutela reintegratoria per l'ipotesi in esame laddove il legislatore del 2015 ha volutamente inteso escluderla per fattispecie obiettivamente connotate da maggiore gravità come l'assenza del giustificato motivo oggettivo di licenziamento, o come il licenziamento non proporzionato”.

Molto rilevante anche il passaggio finale della motivazione, ove è affermato che “la presente fattispecie non è assimilabile a quella in cui, già a livello formale nella comunicazione del recesso, manchi la indicazione di qualsivoglia ragione giustificativa, ipotesi nella quale effettivamente potrebbe porsi una questione di contrasto con la norma imperativa di fondo in tema di necessaria causalità del licenziamento rappresentata dall'art. 1, l. n. 604/1966. Laddove, invece, come nella ipotesi in esame, una causale risulti comunque enunciata nella comunicazione di recesso, anche se “ab origine” inidonea a determinare lo scioglimento del rapporto per difetto del presupposto legittimante rappresentato da un valido patto di prova, la fattispecie si allinea alle altre ipotesi nelle quali il recesso datoriale, pur formalmente non riconducibile ad una delle causali tipiche nelle quali è consentito al datore di lavoro di risolvere il rapporto di lavoro in via unilaterale, risulti in concreto inidoneo a produrre detto effetto”.

La sentenza, che presenta non poche implicazioni, sollecita varie considerazioni illustrate al paragrafo che segue.

Osservazioni

La problematica esaminata dalla Corte è estremamente delicata, poiché non investe solamente il tema del licenziamento irrogato sull'errato presupposto della validità del patto di prova, bensì quella del licenziamento non motivato nell'area di applicazione del “Jobs Act”.

Infatti, il recesso per mancato superamento del periodo di prova, ove il patto sia nullo, si risolve, all'evidenza, in un recesso totalmente immotivato, perché non risulta sorretto dall'esplicitazione della causale stabilita dalla legge (i.e.: giusta causa o giustificato motivo), nulla dicendo sulla presenza di detta causale la comunicazione al lavoratore dell'esito negativo della prova.

Per tale ragione non sembra condivisibile l'affermazione della Corte - riportata in fine al precedente paragrafo - secondo cui “la presente fattispecie non è assimilabile a quella in cui, già a livello formale nella comunicazione del recesso, manchi la indicazione di qualsivoglia ragione giustificativa, ipotesi nella quale effettivamente potrebbe porsi una questione di contrasto con la norma imperativa di fondo in tema di necessaria causalità del licenziamento rappresentata dall'art. 1, l. n. 604/1966”.

Infatti, una volta riconosciuto che il patto di prova è nullo, la giustificazione causale esternata come se quel patto fosse valido è “tamquam non esset”.

Né risulta chiaro l'ulteriore passaggio, sempre riportato “supra”, in cui è affermato che “Laddove, invece, come nella ipotesi in esame, una causale risulti comunque enunciata nella comunicazione di recesso, anche se “ab origine” inidonea a determinare lo scioglimento del rapporto per difetto del presupposto legittimante rappresentato da un valido patto di prova, la fattispecie si allinea alle altre ipotesi nelle quali il recesso datoriale, pur formalmente non riconducibile ad una delle causali tipiche nelle quali è consentito al datore di lavoro di risolvere il rapporto di lavoro in via unilaterale, risulti in concreto inidoneo a produrre detto effetto”.

Sembra, in effetti, che la Corte voglia dire che una qualsiasi motivazione, pur estranea al fatto costituente giustificato motivo o giusta causa, abbia un suo peso, tale da rendere il licenziamento motivato benché illegittimo; ma anche se così ipoteticamente fosse (sul che è lecito tuttavia dubitare, in quanto la motivazione che conta è solo quella che ha ad oggetto la “causale” stabilita dalla legge), il risultato non muterebbe, poiché mancherebbe comunque il “fatto” costituente giusta causa o giustificato motivo alla cui prova la motivazione è certamente strumentale.

Una volta chiarita questa preliminare questione, si tratta di andare, ora, al cuore del problema che, a nostro avviso, la Suprema Corte non sembra affrontare fino in fondo.

Infatti, a fronte di un licenziamento intimato senza indicazione del “fatto” posto a supporto del licenziamento, non vi è ragione di andare alla ricerca del vizio che inficia il licenziamento in questione; il predetto vizio, infatti, non è “tipico” - ossia, recesso “ad nutum” emesso in difetto di valido patto di prova -, bensì ricavabile, inevitabilmente, dalla natura e struttura del licenziamento.

In altri termini, il licenziamento “ad nutum” intimato in assenza di un valido patto di prova non costituisce un vizio rientrante in una categoria autonoma, sicché non occorre verificare se esso, in quanto tale, rientri nell'ipotesi del comma 1 o 2 dell'art. 3 del citato d.lgs. n. 23/2015.

Tant'è che nel regime della cd. legge “Fornero”, la stessa S.C. non si è posta il problema della individuazione del vizio “tipico”, essendo evidente che, a fronte di un “non motivo”, manchi sia la giusta causa che il giustificato motivo, con la conseguenza che, a fronte di una medesima sanzione prevista per le menzionate forme di ingiustificatezza, non è necessario capire se, nel caso, difetti l'uno o l'altro presupposto del licenziamento.

L'alternativa (ossia, giusta causa o giustificato motivo soggettivo o oggettivo), però, non sembra esser stata colta in questi termini nella sentenza in commento, poiché dalla esatta premessa che, nel regime della legge “Fornero”, non fosse necessario distinguere, si è pervenuti poi alla conclusione che, nel regime del “Jobs Act”, attesa la diversità di sanzioni per l'una e per l'altra illegittimità del licenziamento, debba essere individuato il viziotipico”, per poi valutare se esso ricada nel comma 1 o 2 del più volte richiamato art. 3 (mentre, invece, l'alternativa rimane sempre la stessa e determina l'insorgenza del seguente quesito: il licenziamento non motivato è illegittimo per difetto della giusta causa – o giustificato motivo soggettivo – o per assenza di giustificato motivo oggettivo?).

E, sulla base di tale conclusione, la S.C. è pervenuta alla soluzione del caso, escludendo dall'ambito di applicazione della previsione di cui all'art. 3, comma 2, d.lgs. n. 23/2015 - che prevede la reintegra solo nell'ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l'insussistenza del fatto materiale contestato - quello del recesso “ad nutum” intimato in difetto di un valido patto di prova, anche sulla scorta del principio di prevalenza della tutela indennitaria.

In buona sostanza, la S.C. ha trattato, di fatto, l'ipotesi considerata alla stregua di un licenziamento privo di giustificato motivo oggettivo (o di un licenziamento disciplinare sproporzionato).

Mentre, in realtà, nulla è dato sapere sul fatto giustificativo, in quanto mai esternato.

Del resto, non sembra neppure convincente l'idea che la soluzione in questione “appare (…) la più coerente con il principio, sotteso all'impianto normativo del d. lgs. n. 23/2015 in oggetto, ispirato alla tendenziale graduazione delle sanzioni in funzione della gravità del vizio del licenziamento, apparendo distonico, rispetto a tale impianto, attribuire la tutela reintegratoria per l'ipotesi in esame laddove il legislatore del 2015 ha volutamente inteso escluderla per fattispecie obiettivamente connotate da maggiore gravità come l'assenza del giustificato motivo oggettivo di licenziamento, o come il licenziamento non proporzionato”.

Infatti, il licenziamento sostanzialmente privo della esternazione delle ragioni giustificative sembra ben più grave di quello motivato ma del quale non si riescano a provare i fatti di supporto.

La risposta al quesito, allora, non può che muovere da un giudizio di valore, fondato sul rilievo che il “silenzio” del datore sulle ragioni del licenziamento non può essere logicamente sanzionato in misura più tenue di quanto non lo sia l'addebito di un fatto poi rivelatosi materialmente insussistente; sicché, potrebbe non apparire infondata la tesi secondo cui, in presenza di licenziamento non motivato, deve presumersi intimato quello la cui illegittimità determina le conseguenze per il datore medesimo più sfavorevoli, ossia quelle di cui all'art. 3, comma 2, d.lgs. n. 23/2015.

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