Il principio di correlazione tra accusa e sentenza in materia di responsabilità amministrativa da reato

Simone Bonfante
02 Agosto 2023

Nel caso in commento la Suprema Corte ha rigettato il motivo di ricorso con cui la difesa lamentava la violazione dell'art. 521 c.p.p. sotto un duplice profilo.
Massima

Ai fini della sussistenza della violazione del principio di cui all'art. 521 c.p.p., non è sufficiente qualsiasi modificazione dell'accusa originaria, ma è necessaria una modifica che pregiudichi la possibilità di difesa dell'imputato. La violazione non sussiste quando nel capo di imputazione siano contestati gli elementi fondamentali idonei a porre l'imputato nella condizione di difendersi dal fatto successivamente ritenuto in sentenza.

Il caso

Il G.U.P. presso il Tribunale di Biella condannava una S.r.l., che si occupava di riciclare rifiuti di vetro, per l'illecito amministrativo ex d.lgs. n. 231/2001 dipendente dal reato presupposto di cui all'art. 589, comma 2, c.p., contestato al datore di lavoro, al soggetto delegato alla tutela della salute e sicurezza sui luoghi di lavoro ed al medico competente.

Nel caso specifico un lavoratore con mansioni di assistente allo stabilimento perdeva la vita mentre attendeva al corretto funzionamento degli impianti. L'operaio, recatosi di notte, da solo, nel locale pompe del decantatore, al fine di sbloccare il meccanismo di pompaggio dei fanghi, apriva la valvola di tenuta del fango e subito dopo veniva investito da una sostanza venefica, quasi sicuramente acido solfidrico, che ne causava rapidamente una perdita di coscienza. L'uomo a quel punto, caduto a terra, veniva raggiunto dal fango che lo soffocava, causandone la morte. A seguito del tragico occorso, ai tre imputati venivano addebitate a titolo di colpa, una serie di violazioni concernenti l'omessa adozione di misure volte a controllare il rischio in caso di emergenza. In particolare si sosteneva che il lavoratore fosse stato impiegato in un locale confinato e privo di adeguato ricambio d'aria, sulla base di una procedura non formalizzata nonché in assenza di specifiche sequenze operative per la manutenzione dell'impianto stesso.

La Corte d'appello di Torino riformava parzialmente la sentenza di primo grado, riducendo la sanzione pecuniaria e revocando le statuizioni civili.

Avverso la sentenza de qua proponeva ricorso per cassazione la difesa dell'ente deducendo, per quanto rileva in questa sede, con il primo motivo violazione di legge con riferimento al principio di correlazione tra accusa e sentenza ed un vizio di motivazione in ordine alla sussistenza di un interesse o vantaggio per l'ente. Con il secondo motivo la difesa si doleva del fatto che non ogni violazione delle disposizioni in materia di sicurezza sul lavoro sarebbe finalizzata ad assicurare un vantaggio economico all'impresa.

La Quarta Sezione Penale della Corte di cassazione, con la sentenza in commento, rigettava il ricorso proposto dalla difesa dell'ente ritenendo infondati tutti i motivi.

La questione

Partendo dalle riflessioni svolte dalla Corte di cassazione, gli interrogativi a cui in questa sede si cercherà di dare una risposta sono essenzialmente due ed ineriscono al primo motivo di ricorso, che la Corte ritiene, non senza solidi appigli giurisprudenziali, manifestamente infondato.

Il primo inerisce ai profili attinenti alla violazione dell'art. 521 c.p.p.: quando può dirsi leso il principio di correlazione fra accusa e sentenza? Quando è ravvisabile un effettivo vulnus del diritto di difesa dell'imputato?

L'iter logico con cui la Corte supera il primo argomento porta all'articolazione del secondo quesito riguardante la responsabilità amministrativa dell'ente in ossequio ai parametri di cui all'art. 5 d.lgs. n. 231/2001: quando possono considerarsi ravvisabili i presupposti dell'interesse e vantaggio dell'ente in relazione ai reati colposi in materia di violazione di norme antinfortunistiche?

Le soluzioni giuridiche

La correlazione tra l'imputazione e la sentenza rappresenta un principio cardine del nostro ordinamento processuale, mirando a garantire la pienezza e l'effettività del diritto di difesa costituzionalmente sancito. Tale principio risponde in particolare all'esigenza di evitare che l'imputato sia condannato per un fatto, inteso come episodio della vita umana, rispetto al quale non abbia potuto difendersi (Cass. Pen, Sez. I, n. 35574/2013).

Al fine di verificare la concreta violazione del principio in esame, in seno alla giurisprudenza di legittimità si è via via consolidato negli anni un criterio c.d. “sostanzialistico” in contrapposizione ad uno più propriamente “formalistico”. Secondo il primo infatti non ci si dovrebbe arrestare al pedissequo e mero confronto letterale fra contestazione e sentenza perché, vertendosi in materia di garanzie e di difesa, la violazione sarebbe insussistente quando l'imputato, attraverso l'iter del processo, sia venuto a trovarsi nella condizione concreta di difendersi in ordine all'oggetto dell'imputazione (Cass. pen., sez. un., n. 16/1996). La contestazione si può considerare pertanto “implementata” dall'evoluzione del processo ed in particolare dal fatto che, nel corso dell'istruttoria, l'imputato abbia potuto esercitare le sue difese sul materiale probatorio posto a fondamento della decisione, che ha pertanto formato oggetto di una “sostanziale” contestazione (Cass. pen., sez. VI, n. 47527/2013).

Sulla base di tali presupposti è stato affermato che anche la diversa qualificazione giuridica del fatto non viola il principio di correlazione quando la stessa appaia come uno dei possibili epiloghi decisori del processo, secondo uno sviluppo interpretativo prevedibile (Cass.pen., sez II, n. 46786/2014, Rv: 261052).

La violazione del principio di correlazione si verificherebbe invece quando vi sia assoluta eterogeneità o sostanziale incompatibilità tra il fatto contestato e quello ritenuto in sentenza tale per cui l'imputato sia stato posto a sorpresa di fronte ad un fatto del tutto nuovo senza la possibilità di difendersi efficacemente (Cass. pen., sez. VI, n. 17799/2014, Rv: 260156).

Preme in questa sede ricordare come il citato orientamento sostanzialista rinvenga il proprio fondamento non solo a livello costituzionale (artt. 24 e 111 Cost.) ma anche internazionale.

La Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, nell'interpretare l'art. 6 della CEDU, ha infatti sostenuto, nelle sentenze 1 e 2 del caso Drassich v. Italia (rispettivamente risalenti al 2007 ed al 2018) che non implica violazione del principio di correlazione quando l'interessato abbia avuto la possibilità di preparare adeguatamente la propria difesa e di discutere in contraddittorio con l'accusa in ultima analisi formulata nei suoi confronti.

Per la particolare rilevanza del caso, e per le importanti ripercussioni che tali due sentenze hanno avuto sull'interpretazione del diritto interno, non pare superfluo ricordare in questa sede il percorso logico seguito dalla Corte di Strasburgo.

Il ricorrente, sig. Mauro Drassich – giudice italiano incaricato della direzione della sezione fallimentare del tribunale di Pordenone – fu rinviato a giudizio e condannato per corruzione, falso e abuso d'ufficio a una pena di tre anni di reclusione.

In appello fu confermata la condanna per corruzione e falso, e la pena venne aumentata a 3 anni e 8 mesi.

Con ricorso per cassazione, il Drassich affermò che il reato di corruzione era caduto in prescrizione, ma la Corte respinse il ricorso riqualificando i fatti di corruzione (art. 319 c.p.) in corruzione in atti giudiziari (art. 319-ter c.p.), reato punito più severamente e per il quale la prescrizione non era ancora decorsa.

A seguito di tale condanna il Drassich fece ricorso alla Corte EDU per violazione dell'art. 6, comma 1 e 3, lett. a) e b), della Convenzione, sostenendo di non aver avuto la possibilità, in mancanza di specifica contestazione, di essere informato dettagliatamente del motivo e della natura della nuova accusa formulata e quindi di disporre del tempo necessario per preparare la sua difesa.

La Corte di Strasburgo – con sentenza dell'11 dicembre 2007 (ricorso n. 25575/04) – accolse il ricorso reputando che, anche se i giudici potevano riqualificare i fatti loro sottoposti, il ricorrente non era stato preventivamente informato, nel caso di specie, di tale riqualificazione dell'accusa. (Drassich v. Italia n. 1) Pertanto, la Corte stessa ritenne che solo un nuovo processo o la riapertura del procedimento viziato costituissero un mezzo adeguato per porre rimedio a tale violazione. Sulla scorta della sentenza CEDU, il Drassich ricorse in Corte d'appello che riconobbe l'ineseguibilità della propria sentenza e rinviò alla Cassazione.

La Corte di legittimità, invece, ritenne che, al fine di ottemperare alla sentenza CEDU, fosse sufficiente limitarsi ad annullare la parte dell'originario giudizio per cassazione in cui essa aveva proceduto alla riqualificazione dei fatti senza instaurare il contraddittorio con l'imputato e ripetere il giudizio stesso consentendo all'imputato medesimo di interloquire in merito a tale riqualificazione. Durante l'udienza del nuovo giudizio per cassazione, la Corte rammentò pertanto ai difensori che i fatti di corruzione semplice avrebbero potuto essere riqualificati in corruzione in atti giudiziari e respinse la richiesta degli avvocati di notificare personalmente all'imputato il nuovo capo d'accusa, trattandosi di un processo di legittimità cui l'imputato non poteva partecipare ad alcun titolo. La riapertura del procedimento dinnanzi ai giudici di legittimità terminò con una nuova sentenza di condanna per corruzione in atti giudiziari, per la quale il termine di prescrizione non era ancora trascorso.

Drassich adì per la seconda volta la Corte EDU, lamentando di essere stato di nuovo vittima di una riqualificazione dei fatti in pejus, senza possibilità di difendersi nel merito e di presenziare al processo in violazione del principio del contradditorio (art. 6 CEDU). (Drassich v. Italia n.2)

Nel merito, la Corte ha preliminarmente sottolineato che l'atto d'accusa svolge un ruolo determinante nel procedimento penale in quanto, a decorrere dalla sua notifica, l'imputato è ufficialmente avvisato per iscritto della base giuridica e fattuale delle accuse formulate a suo carico: l'articolo 6, § 3, lett. a), della Convenzione riconosce infatti all'imputato il diritto di essere informato non soltanto della causa dell'”accusa”, ossia dei fatti materiali che vengono posti a suo carico e sui quali si basa l'accusa, ma anche della qualificazione giuridica attribuita a tali fatti. A questo proposito, essa osserva tuttavia che le disposizioni dell'articolo 6, § 3, lett. a), della Convenzione non impongono alcuna forma particolare circa il modo in cui l'imputato debba essere informato della natura e del motivo dell'accusa formulata a suo carico.

Sul punto, la Corte è dell'avviso che il ricorrente sia stato messo adeguatamente in condizione di prevedere la riqualificazione dei fatti a lui ascritti in corruzione in atti giudiziari e quindi di predisporre per tempo adeguate difese.

Secondo i giudici di Strasburgo, nel decidere sulla violazione dell'art. 6, § 3, Ce.d.u. assume valore centrale il criterio del counterbalancing ovvero del bilanciamento, nel senso che si riscontra l'iniquità del processo – non per il solo fatto che vi sia stata una modifica improvvisa della imputazione, bensì – quando gli argomenti difensivi che l'imputato avrebbe potuto in ipotesi adoperare in seguito all'avvenuta riqualificazione sarebbero stati diversi rispetto a quelli originariamente utilizzati, per cui nessuna violazione convenzionale potrebbe riscontrarsi se dalla modifica della valutazione giuridica dell'accaduto non sia comunque derivato in capo all'accusato un effettivo pregiudizio.

Volendo ora passare al secondo aspetto affrontato dalla sentenza in commento, deve rilevarsi come la Suprema Corte nel caso di specie abbia dato conto della sussistenza di tutti gli elementi costitutivi della responsabilità dell'ente ex d.lgs. 231/01: il reato presupposto, il rapporto di “immedesimazione organica rafforzata” tra l'autore persona fisica e l'ente e tra il reato e l'ente ed infine la c.d. “colpa di organizzazione”.

Il rapporto d'immedesimazione organica in particolare viene definito “rafforzato” in quanto, secondo la pronuncia in esame, non sarebbe sufficiente che il reato sia stato commesso da soggetto rispetto al quale sussiste una relazione funzionale con l'ente ma sarebbe necessario anche che tale soggetto, nella perpetrazione del reato, non abbia agito per scopi estranei a quelli dell'ente (Cass. pen., sez. un., n. 38343/2014, Rv: 261114).

Quanto invece alla colpa di organizzazione è doveroso sottolineare come la giurisprudenza di legittimità abbia chiarito come la stessa non possa in alcun modo essere presunta ma debba essere provata dall'accusa. In proposito si è affermato infatti come la mera assenza del modello di organizzazione e di gestione, la sua inidoneità o la sua inefficace attuazione non sono ex se elementi costitutivi dell'illecito dell'ente. Affinché l'ente risponda "per un fatto proprio colpevole”, è necessario che lo stesso non abbia predisposto un insieme di accorgimenti preventivi idonei ad evitare la commissione del reato presupposto: è il riscontro di tale deficit organizzativo che consente l'imputazione all'ente dell'illecito penale realizzato nel suo ambito operativo dalla persona fisica (apicale o dipendente) che ha agito nell'interesse e/o a vantaggio dell'ente. Sarebbe pertanto solo la ricorrenza di tali carenze organizzative, in quanto atte a determinare le condizioni di verificazione del reato presupposto, che giustifica il rimprovero e l'imputazione dell'illecito al soggetto collettivo (Cass. pen., sez. IV, 4 ottobre 2022, n. 570, in GAD, 2023, n. 12)

Osservazioni

Nel caso in commento la Suprema Corte ha rigettato il motivo di ricorso con cui la difesa lamentava la violazione dell'art. 521 c.p.p. sotto un duplice profilo.

Da un lato infatti si è rilevato come la procedura lavorativa descritta in sentenza (caratterizzata dalla mancata previsione di una squadra di intervento in un luogo confinato in cui vi era la presenza di sostanza venefica) fosse già stata accertata nel corso di istruttoria nonché stigmatizzata dal consulente tecnico del P.M. Si trattava pertanto di un dato esaminato nel contraddittorio tra le parti e rispetto ai quali l'ente aveva avuto possibilità concreta ed effettiva di articolare le proprie difese.

Non solo: secondo la Suprema Corte lo stesso originario addebito in realtà faceva espresso riferimento alla mancata predisposizione di una squadra di pronto intervento in quanto veniva contestato agli imputati di non aver adeguatamente considerato il rischio insito in una lavorazione in luogo chiuso, in presenza di sostanze venefiche ed in orario notturno, adottando di conseguenza tutte le misure necessarie ad impedire il verificarsi del sinistro.

Nessuna violazione del principio di correlazione si sarebbe pertanto verificato nel caso in esame, tanto più se si considera che, secondo il noto orientamento giurisprudenziale sopra richiamato, solo quando tra i fatti contestati e quelli ritenuti in sentenza vi sia un vero e proprio rapporto di eterogeneità ed incompatibilità si può ritenere frustrato il diritto di difesa.

Nel respingere il secondo motivo di ricorso la sentenza in commento ci ricorda inoltre come l'accertamento della responsabilità dell'ente sia del tutto autonoma rispetto a quella della persona fisica che ha commesso il reato presupposto (previsto nel c.d. “catalogo 231”).

Una responsabilità che va accertata dall'accusa provando tutti gli elementi costitutivi dell'illecito de societate che, in quanto tale, non può sottrarsi ai principi costituzionali di personalità e colpevolezza (art. 27 Cost).

Di qui la necessità di dimostrare non solo la carenza dei modelli organizzativi e di gestione, ma più in particolare l'omessa predisposizione di misure volte a prevenire il rischio di verificazione di eventi come quelli più sopra descritti. Si tratta in sostanza comprendere quale specifico rimprovero, a titolo di colpa di organizzazione, possa essere mosso alla società.

E ciò tenendo ben presente che, nei reati colposi commessi con violazione della normativa antinfortunistica, statisticamente peraltro i più frequenti, i criteri di imputazione oggettiva dell'”interesse” (da valutarsi ex ante) e quello alternativo del “vantaggio” (da valutare invece ex post) possono entrambi consistere non solo in un risparmio di spesa conseguente alla mancata predisposizione di presidi di sicurezza, ma anche come incremento economico dovuto all'aumento della produttività non rallentata dal rispetto delle norma cautelare (Cass. pen., sez. IV, 22 settembre 2020, n. 29584).

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