Assegnazione mansioni dirigenziali: in assenza di livello di inquadramento nel CCNL applicato, devono rispondere alla specifica professionalità del ruolo

Teresa Zappia
02 Agosto 2023

Se il CCNL applicato non enuclea i livelli di inquadramento della categoria dirigenziale, è necessario accertare se in concreto le mansioni assegnate sono compatibili con la professionalità propria del ruolo.
Massima

Qualora il CCNL applicato non enuclei i diversi livelli di inquadramento della categoria, con le relative declaratorie, non è sufficiente accertare l'assegnazione di un ruolo formalmente dirigenziale con la correlata retribuzione, ma occorre valutare se le mansioni siano espressione, in concreto, dell'autonomia e discrezionalità che caratterizzano la figura dirigenziale quale alter ego del datore.

Il fatto

Il lavoratore agiva in giudizio per l'accertamento dell'inadempimento contrattuale della Banca-datrice di lavoro, essendo stato assegnato ad un ruolo (i.e. responsabile dell'Investor Relations) non corrispondente a quello previsto in fase di assunzione. Il ricorrente asseriva l'illegittimità del mutamento di mansioni comportante una grave dequalificazione e chiedeva la riassegnazione al ruolo di Chief Risk Officer, ovvero ad altre mansioni aventi analoga rilevanza in termini di responsabilità ed autonomia.

A sostegno della propria domanda, il ricorrente evidenziava che la condotta di demansionamento era culminata, in una prima fase, nell'irrogazione di un licenziamento ritorsivo, allorché lo stesso aveva rivendicato nei confronti della Banca il suo diritto a svolgere mansioni corrispondenti a quelle per le quali era stato assunto. La dequalificazione sarebbe continuata anche in una seconda fase, iniziata subito dopo la pronuncia con la quale suddetto licenziamento era stato dichiarato ritorsivo e, pertanto, nullo, con ordine di reintegrazione nel posto di lavoro. La resistente, infatti, aveva dato esecuzione a tale decisione assegnandolo ad una nuova funzione non solo non corrispondente alla professionalità acquisita né al ruolo di Chief Risk Officer (CRO) per il quale era stato assunto, ma solo apparentemente di vertice, essendo essa nei fatti priva di carattere strategico, di sostanza operativa e professionale, nonché carente di un'adeguata struttura organizzativa e di personale.

L'istante, pertanto, lamentava che la posizione assegnata (responsabile dell'Investor Relations)non potesse ritenersi equivalente alle funzioni di CRO, non facendo neppure capo ad una posizione dirigenziale, con conseguente perpetrarsi del demansionamento.

La questione

L'assegnazione ad un ruolo formalmente dirigenziale è sufficiente ad escludere l'inottemperanza all'ordine giudiziale di reintegrazione del dirigente?

La soluzione del Tribunale

Il giudice di Bari ha innanzitutto precisato che il datore non avrebbe potuto esimersi dall'ottemperare a quanto previsto nella precedente decisione giudiziale, dal momento che, ai sensi dell'art. 1218 c.c., il debitore di un obbligo di reintegra, come nel caso di specie, va esente da responsabilità solo se dimostra che il posto di lavoro del dipendente reintegrato non esiste più per causa a lui non imputabile.

Con riferimento all'asserito demansionamento, il Tribunale ha rammentato che sussiste in capo al datore l'obbligo normativo di adibire il lavoratore alle mansioni per le quali lo stesso è stato assunto. L'art. 2103 c.c., come modificato dall'art. 3, d.lgs. n. 81/2015, stabilisce, in deroga alle precedenti previsioni, che il lavoratore può essere adibito anche a mansioni non equivalenti e, quindi, inferiori “purché riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte.”

Tenuto fermo quanto sopra, il giudice di Bari ha esaminato il contenuto del CCNL applicabile alla fattispecie trattata, rilevando la mancata enucleazione nello stesso dei diversi livelli di inquadramento, con le relative declaratorie, per la categoria dirigenziale. Pertanto, al fine di vagliare la configurabilità o meno di un illegittimo demansionamento, il giudice ha ritenuto necessario verificare l'effettività del carattere dirigenziale dell'attività affidata al dipendente, considerato che tale qualifica spetta soltanto al prestatore di lavoro che, come “alter ego” dell'imprenditore, sia preposto alla direzione dell'intera organizzazione aziendale ovvero ad una branca o settore autonomo di essa, e sia investito di attribuzioni che, per la loro ampiezza e per i poteri di iniziativa e di discrezionalità che comportano, gli consentono, sia pure nell'osservanza delle direttive programmatiche del datore di lavoro, di imprimere un indirizzo ed un orientamento al governo complessivo dell'azienda, assumendo la corrispondente responsabilità ad alto livello (Cass. n. 7295/2018).

Nel caso di specie, il Tribunale di Bari ha osservato che la funzione di responsabile dell'IR, attribuita al ricorrente successivamente all'ordine giudiziale di reintegrazione, aveva ad oggetto attività di comunicazione e informazione “finanziaria” e, sostanziandosi in una funzione di mera “comunicazione verso terzi” delle attività bancarie, doveva ritenersi mancante delle caratteristiche proprie di controllo del rischio, mansione originaria del ricorrente.

In sintesi, ha puntualizzato il giudice barese, il servizio di Investor Relations appariva de facto come una scatola vuota, trattandosi di attività molto lontane dai profili di responsabilità dirigenziale e da quelli relativi alla figura del CRO. L'assegnazione alla funzione di responsabile dell'IR risultava aver determinato una netta riduzione dei poteri e delle responsabilità direttive in capo al ricorrente, il che aveva reso inattuabile l'effettivo esercizio della carica dirigenziale in generale, e di CRO nello specifico, con annessa mortificazione professionale.

Il Tribunale ha rammento che il concetto di c.d. equivalenza di cui all'art. 2103 c.c. non va inteso solo in senso formale,ma anche in senso sostanziale in base al contenuto ed alla natura della prestazione lavorativa effettivamente svolta, in quanto quello che efficacemente è stato definito essere il c.d. baricentro della tutela è rappresentato dalla protezione della professionalità del lavoratore, con la conseguenza che la equivalenza di mansioni prevista dalla norma sussiste solamente quando risulta tutelato il patrimonio professionale acquisito con la precedente attività di lavoro, in una prospettiva dinamica di valorizzazione ed arricchimento del bagaglio professionale del lavoratore, il che doveva ritenersi valevole anche per lo svolgimento di compiti di natura dirigenziale(Cass., sez. un. n. 25033/2006, Cass. n. 4989/2014; Cass. n. 15010/2013).

Anche senza tenere conto degli aspetti principali che delineano la figura del dirigente, quali la supremazia gerarchica e l'esercizio di poteri direttivi, il giudice barese ha ritenuto assenti gli ulteriori elementi caratterizzanti la qualifica, rappresentati dalla qualità della prestazione, dall'autonomia e dalla discrezionalità delle mansioni affidate. Pertanto, sebbene la Banca avesse mantenuto in capo al ricorrente il ruolo dirigenziale, prevedendo lo stesso trattamento economico, le mansioni assegnate rivestivano solo formalmente un contenuto dirigenziale, risultando di fatto svuotate dai tratti tipici della figura e, in primis, dall'ampiezza e rilevanza delle funzioni che. Il dirigente era stato in concreto privato della possibilità di espletare quella conoscenza e professionalità che, sia per i titoli posseduti sia per l'esperienza acquisita in ruoli apicali, costituivano il suo know- how. Il CRO, infatti, svolge mansioni di controllo mentre l'IR si limita a presidiare e gestire “le attività di comunicazione verso le società di rating sulle tematiche gestionali rilevanti” ed a mantenere “i rapporti con gli analisti, …organizza incontri con gli analisti… gestendo le presentazioni ufficiali”.

In virtù di quanto sopra, il Tribunale ha dichiarato l'inadempimento della Banca all'ordine giudiziale di reintegrazione, avendo essa assegnato il ricorrente ad un ruolo non corrispondente e/o equivalente da un punto di vista quantitativo e qualitativo a quello dirigenziale del CRO per cui era stato originariamente assunto.

Osservazioni

La decisione del Tribunale di Bari offre l'occasione per riflettere sull'attualità del problema circa il legittimo esercizio dello ius variandi datoriale, in particolare qualora il mutamento delle mansioni non sia direttamente evincibile sotto il profilo formale. Nel caso trattato, infatti, al fine dell'accertamento della lamentata inottemperanza all'ordine giudiziale di reintegrazione del lavoratore nella medesima posizione dallo stesso precedentemente occupata, non è risultato sufficiente fermarsi al ruolo formalmente assegnato, spostandosi l'indagine sull'effettivo contenuto delle attività svolte in seguito alla reintegra.

Il problema summenzionato necessita di una breve ricognizione del dato normativo in un'ottica diacronica.

La precedente formulazione dell'art. 2103 c.c. poneva un doppio limite alla gestione della prestazione lavorativa da parte del datore, ossia l'assegnazione del dipendente alle mansioni per le quali era stato assunto (o a quelle corrispondenti alla categoria superiore successivamente acquisita), ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, nonché la irriducibilità della retribuzione. La giurisprudenza di legittimità formatesi al tempo in tema di ius variandi evidenziava che il divieto stabilito dal prefato articolo doveva ritenersi operante anche quando al lavoratore, nella formale equivalenza delle precedenti e delle nuove mansioni, fossero state assegnati compiti che sostanzialmente risultavano inferiori. Ai fini dell'indagine circa l'equivalenza, pertanto, non bastava il riferimento in astratto al livello di categoria, ma era necessario accertare che le nuove mansioni salvaguardassero la professionalità acquisita dal dipendente (profilo statico) e, al contempo, ne garantissero l'accrescimento (profilo dinamico). L'organo giudicante avrebbe, quindi, dovuto verificare i contenuti concreti delle precedenti e nuove mansioni per poterne affermare l'equivalenza.

Il d.lgs. n. 81/2015 ha modificato l'art. 2103 c.c., prevedendo che il lavoratore possa essere adibito a mansioni non più necessariamente equivalenti a quelle di assunzione, bensì "riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento". I limiti discendenti dalle classificazioni contrattuali vengono così ritenuti dal legislatore idonei a garantire il rispetto dell'omogeneità tra le mansioni.

Con la riscrittura dell'art. 2103 c.c., dunque, è stato ridimensionato il criterio dell'equivalenza professionale come limite allo ius variandi datoriale, venendo la professionalità tutelata in termini più formali: l'equivalenza delle mansioni non tiene più conto dei compiti effettivamente svolti dal lavoratore, del livello professionale da questi raggiunto e dell'utilizzo del patrimonio professionale già acquisito, tutelandosi la posizione precedentemente occupata (in termini di categoria e livello di inquadramento) e non, precipuamente, la professionalità acquisita o da arricchire. Si precisa, tuttavia, che qualora la destinazione ad altre mansioni comporti, sul piano sostanziale, lo svuotamento dell'attività lavorativa, la fattispecie esulerebbe dall'indagine sul rispetto o meno, nella nuova situazione creata, dei parametri summenzionati. Si configurerebbe, infatti la diversa ipotesi della “inoperosità forzosa”, incidente sul piano quantitativo, piuttosto che su quello qualitativo, dei compiti assegnati, ancorché ciò non comporti alcuna conseguenza retributiva (Cass. n. 11499/2022; Cass. n. 9901/2018; Cass. n. 8717/2017). A tale ipotesi è stato collegato il rischio c.d. di bore-out, il quale si identifica con una anomalia mentale che conduce allo sfinimento per noia cronica dovuta alla mancanza di lavoro, di stimoli, alla perdita di autostima, circostanze queste letali per la salute del lavoratore al pari dello stress da superlavoro (c.d. burn-out).

Tenuto fermo quanto sopra, nella decisione in commento il giudice barese ha posto la sua attenzione non sul ruolo ricoperto dal ricorrente in seguito alla reintegrazione, bensì sulla declinazione fattuale dei compiti allo stesso assegnati. Tale distinto iter valutativo è stato giustificato dalla mancanza, nel CCNL applicato, di una enucleazione dei diversi livelli di inquadramento con riferimento alla categoria (diversamente da quanto previsto per gli operai e gli impiegati) sicché, mancando il parametro di riferimento indicato dall'art. 2103 c.c., il vaglio sulla configurabilità o meno di una illegittima dequalificazione doveva necessariamente focalizzarsi sulla rispondenza delle nuove mansioni alle caratteristiche proprie della figura dirigenziale. Secondo la giurisprudenza di legittimità, infatti, il dirigente opera quale “alter ego” del datore, preposto alla direzione dell'intera organizzazione aziendale ovvero ad una branca o settore autonomo di essa, ed è investito di attribuzioni che, per la loro ampiezza e per i poteri di iniziativa e di discrezionalità che comportano, gli consentono, sia pure nell'osservanza delle direttive programmatiche datoriali, di imprimere un indirizzo ed un orientamento al governo complessivo dell'azienda (Cass. n. 7295/2018; Cass. n. 9463/2016).

Nel caso di specie non è la contrattazione collettiva ad orientare la valutazione del giudice, ma sono le mansioni stesse a divenire qualificanti e condizionanti l'accertamento circa la dequalificazione e, dunque, l'inottemperanza all'ordine di reintegrazione. Il difetto contenutistico in parte qua del CCNL applicato ha consentito, pertanto, un ritorno alla professionalità in concreto posseduta dal lavoratore, sebbene in termini strettamente connessi alla specialità della figura dirigenziale.

L'inottemperanza all'ordine di reintegrazione nella posizione precedentemente occupata dal ricorrente, sussisterebbe, quindi, non solo in caso di assegnazione ad un ruolo non dirigenziale (per il quale era stato assunto), ma anche qualora il dato formale del ruolo assegnato collida con la concreta sottrazione dei compiti qualificanti, sul piano qualitativo, la figura del dirigente, con annessa inevitabile dequalificazione professionale, non compensata dall'invariato trattamento retributivo.

Per approfondire

E. Villa, Il rapporto tra la nozione di equivalenza e quella di demansionamento nel lavoro pubblicoprivatizzato), in Arg. dir. lav., 2010, 1, pp. 231 ss.

E. Signorini,I new way of work: rischi psicosociali, il bore-out e il lavoro, in Lav. giur., 2022, 7, pp. 674 ss.

G. Astegiano e S. Petrilli, Osservatorio giurisprudenziale - ius variandi e sostanziale inattività del dipendente, in Azienditalia, 2022, 1, pp. 152 ss.

G. Cavallini, La tutela del lavoratore demansionato, in Lav. giur., 2019, 8-9, pp. 853 ss.

A. Caracciolo, Dignità del lavoratore e limiti allo ius variandi - il commento, in Lav. giur., 2018, 12, pp. 1156 ss.

S. Merlo, Svuotamento della prestazione lavorativa ed equivalenza delle mansioni: il diritto al ripristino dell'incarico per il dirigente pubblico “demansionato”, in Arg. dir. lav., 2017, 3, pp. 826 ss.

C. Pisani, La nuova disciplina del cambio del mutamento delle mansioni, Torino, 2015.

V. Nuzzo, Il nuovo articolo 2103 Cod. civ. e la non più necessaria equivalenza professionale delle mansioni, in Riv. it. dir. lav., 2015, II, pp.1048 ss.

A. Mattei, Il dirigente privato tra contratto di lavoro subordinato e rapporto societario, in Riv. it. dir. lav., 2009, II, pp. 41 ss.

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