Limiti di diritto positivo all'autonomia dell'azione di prevenzione

Ferdinando Brizzi
23 Agosto 2023

La Cassazione, sulla scorta del diritto positivo, fissa opportuni limiti all'autonomia valutativa del giudice di prevenzione rispetto a quello penale.
Massima

Anche se la giurisprudenza è concorde nel ritenere che la disposizione di cui all'art. 166 c.p., comma 2 relativa al divieto di fondare unicamente sulla condanna a pena condizionalmente sospesa l'applicazione di misure di prevenzione, non impedisca al giudice di valutare gli elementi fattuali desumibili dal giudizio penale conclusosi con la sospensione della pena, unitamente ad ulteriori profili di pericolosità acquisiti nel corso del procedimento, tuttavia le sentenze con condanna a pena sospesa non possono fondare il giudizio di pericolosità nella misura in cui ad esse si accompagni l'assenza di redditi leciti nel periodo preso in esame.

Il caso

La vicenda processuale sfociata in questo importante pronunciamento trae origine dal decreto emesso in data 28/9/2022 con cui la Corte di appello di Palermo confermava un decreto di confisca di un immobile intestato al proposto ritenendo configurabile nei suoi confronti la pericolosità generica di cui all'art. 1, lett. b) d.lgs. n. 159/2011.

Avverso tale decreto, il ricorrente ha formulato tre motivi di ricorso, tra i quali uno meritevole di particolare considerazione in questa sede, in quanto attinente ai limiti normativi imposti al cd. principio dell'autonomia del procedimento di prevenzione rispetto a quello penale.

La questione

Invero, con il secondo motivo, il ricorrente ha dedotto la violazione dell'art. 166 comma 2 c.p., relativa al divieto di fondare unicamente sulla condanna a pena condizionalmente sospesa l'applicazione di misure di prevenzione, ritenendo che la pericolosità sociale, riferita al tempo dell'acquisto del bene (2003-2005), sarebbe stata desunta sulla base di due condanne per il delitto di cui all'art. 73, comma 5 d.P.R. n. 309/1990, .

Ha evidenziato il ricorrente che l'art. 166 comma 2 c.p. esclude espressamente che la condanna a pena condizionalmente sospesa possa costituire motivo per l'applicazione di misure di prevenzione, né i giudici di merito avrebbero in concreto indicato elementi ulteriori ed aggiuntivi sulla cui base affermare la pericolosità del prevenuto.

Le soluzioni giuridiche

Questo motivo di ricorso è stato ritenuto fondato.

Come già rilevato, il ricorrente ha lamentato la violazione dell'art. 166 c.p., sostenendo che i giudici di merito avrebbero desunto la pericolosità generica del proposto sulla base di due sentenze per le quali il predetto aveva ottenuto la sospensione condizionale della pena.

Ad avviso dei giudici di legittimità, benché, in linea di principio, la giurisprudenza sia concorde nel ritenere che la disposizione di cui all'art. 166 comma 2 c.p., relativa al divieto di fondare unicamente sulla condanna a pena condizionalmente sospesa l'applicazione di misure di prevenzione, non impedisca al giudice di valutare gli elementi fattuali desumibili dal giudizio penale conclusosi con la sospensione della pena, unitamente ad ulteriori profili di pericolosità acquisiti nel corso del procedimento (Cass. pen., sez. VI, n. 50343/2018, Di Stefano, Rv. 275718), tuttavia tale principio, pur essendo stato espressamente richiamato nel decreto impugnato, è stato in concreto disatteso dalla Corte di appello.

Si è affermato, infatti, che le sentenze con condanna a pena sospesa possono fondare il giudizio di pericolosità nella misura in cui ad esse si accompagni l'assenza di redditi leciti nel periodo preso in esame (si veda p. 8 decreto impugnato).

In tal modo, tuttavia, la Corte di appello, secondo la sentenza che si va commentando, ha operato una sovrapposizione tra presupposti che, invece, dovevano essere mantenuti distinti. La pericolosità sociale è concetto del tutto distinto dal profilo concernente la sproporzione tra i redditi leciti ed il patrimonio oggetto di ablazione, né quest'ultimo può essere indirettamente valorizzato per sostenere che, se il proposto non ha comprovati redditi leciti, ne deve conseguire che viva abitualmente con il provento di attività delittuose. A tal riguardo è la stessa Corte costituzionale, nella sentenza n. 24 del 2019, ad aver precisato che la verifica giudiziale della sproporzione è idonea a fondare una ragionevole presunzione relativa all'origine illecita del bene, allorché contestualmente risulti la pregressa attività criminosa di colui il quale abbia la disponibilità del bene e - in sede di valutazione dei presupposti della confisca non riesca a giustificarne la legittima provenienza.

In definitiva, quindi, deve ritenersi, secondo i giudici di legittimità, che sul tema dell'accertamento della pericolosità generica il decreto impugnato incorre nella denunciata violazione di legge, oltre che nel vizio di omessa motivazione.

L'unico dato obiettivo che viene addotto a supporto della pericolosità è costituito, infatti, dall'esistenza di due sentenze con pena sospesa, in violazione dell'art. 166 c.p. A fronte di tale dato, inoltre, la Corte di appello ha solo apparentemente fornito una motivazione atta a dimostrare che i reati per i quali era intervenuta condanna si inserivano in un contesto di abituale ricorso a traffici delittuosi senza, tuttavia, indicare in concreto quali elementi dimostrerebbero tale conclusione.

Né l'omessa motivazione è stata ritenuta superabile valorizzando le considerazioni secondo cui la commissione di due episodi di detenzione a fini di spaccio, peraltro qualificati, ex art. 73 comma 5 d.P.R. n. 309 del 1990 dimostrerebbero "la preesistenza di indispensabili collegamenti del proposto con ambienti legati al narcotraffico", nonché "la disponibilità di ingenti risorse necessarie per l'acquisto dello stupefacente" (p. 11 decreto impugnato). A ben vedere, si legge nella sentenza in commento, si tratta di affermazioni meramente assertive e del tutto scisse da qualsivoglia elemento concreto, nonché collidenti con il dato fattuale dal quale risulta che il proposto - nell'arco di un anno circa - avrebbe commesso due reati concernenti un quantitativo di stupefacente evidentemente minimo, essendo stata in entrambe le ipotesi riconosciuta la fattispecie del fatto lieve.

In sostanza, il decreto annullato è stato ritenuto evocare una pericolosità che, tuttavia, non viene desunta da dati fattuali concreti.

Osservazioni

La sentenza dei giudici di legittimità appare assai rilevante in quanto da essa si deduce che la cd. autonomia del procedimento di prevenzione rispetto a quello penale incontra espressi limiti normativi.

In verità tale presunta autonomia non pare trovare alcuna espressa affermazione e/o definizione nell'ambito del diritto positivo, limitandosi l'art. 29d.lgs. 159/2011 ad enunciare l'indipendenza dall'esercizio dell'azione penale dell'azione di prevenzione: l'azione di prevenzione può essere esercitata anche indipendentemente dall'esercizio dell'azione penale.

Dal tenore della norma non pare emergere nulla più che la possibilità che l'azione di prevenzione venga esercitata, oltre che contemporaneamente all'azione penale, anche in maniera indipendente da essa.

Eppure, talvolta, la giurisprudenza è andata assai oltre quello che risulta essere il chiaro tenore letterale della norma.

Si veda, tra le ultime, Cass. pen., sez. II, 26 maggio 2023, n. 23289: «secondo la prevalente giurisprudenza di legittimità, l'autonomia del procedimento di prevenzione rispetto a quello di merito rappresenta "il presupposto perché possano essere legittimamente oggetto di valutazione per l'appunto autonoma ai fini della adozione della misura di prevenzione personale e/o patrimoniale anche quegli elementi che siano stati acquisiti nel corso di un processo che si sia concluso con sentenza di assoluzione allorché i fatti, pur ritenuti insufficienti a fondare una condanna penale, siano tuttavia in grado di giustificare un apprezzamento in termini di pericolosità».

Proprio la sentenza in commento dimostra come tale autonomia di valutazione non sia assoluta, ma incontri dei chiari limiti proprio nel diritto positivo, a partire dall'art. 166 comma 2 c.p.

Secondo la sentenza in commento, il limite ivi fissato dal legislatore non può essere bypassato. Il decreto oggetto di impugnazione è stato infatti cassato proprio per aver sostenuto che le sentenze con condanna a pena sospesa possono fondare il giudizio di pericolosità nella misura in cui ad esse si accompagni l'assenza di redditi leciti nel periodo preso in esame. Ciò, tuttavia, secondo la Cassazione opera una sovrapposizione tra presupposti che, invece, dovevano essere mantenuti distinti.

Come opportunamente ricordato in altra recente sentenza - Cass. pen., sez. I, n. 4489/2023 -, non si tratta certo dell'unico limite normativo posto alla presunta autonomia del giudice della prevenzione rispetto a quello penale.

Infatti l'art. 28d.lgs. 159/2011, Revocazione della confisca, prevede la possibilità di richiedere la revocazione della decisione definitiva sulla confisca, nelle forme previste dagli articoli 630 e seguenti del codice di procedura penale, in quanto compatibili, alla corte di appello individuata secondo i criteri di cui all'articolo 11 dello stesso codice, nel caso, tra gli altri di cui alla lettera b): quando i fatti accertati con sentenze penali definitive, sopravvenute o conosciute in epoca successiva alla conclusione del procedimento di prevenzione, escludano in modo assoluto l'esistenza dei presupposti di applicazione della confisca.

Secondo la citata Cass. pen., sez. I, n. 4489/2023, il sistema attuale della pericolosità semplice - arricchito dalla previsione specifica di cui all'art. 28 d.lgs. 159/2011 - non tollera la rielaborazione autonoma di un giudicato penale assolutorio - nel merito - da parte del giudice della prevenzione, se non nella marginale ipotesi di un consistente apporto di elementi informativi non valutati in sede penale.

A venire in rilievo, in particolare, da un lato è la dimensione necessaria del principio di tassatività, dall'altro il principio di non contraddizione dell'ordinamento, specie ove la diversità di valutazione sul medesimo fatto porti a conseguenze sfavorevoli per il soggetto sottoposto ad un qualsivoglia procedimento "limitativo" di diritti fondamentali.

In Cass. pen., sez. I, n. 4489/2023 è stato preso in considerazione in particolare il secondo aspetto, anche sulla base delle ricadute sistematiche di una disposizione ritenuta di notevole impatto, come è quella dell'art. 28 d.lgs. n. 159/2011.

Già nella decisione Cass. pen., sez. I, n. 24707/2018 ric. Oliveri si è avviata una riflessione sulla riconosciuta "prevalenza" - da parte del legislatore - degli esiti assolutori del giudizio penale, sul fatto specifico rilevante in sede di prevenzione - tale da rappresentare un evidente limite normativo al principio di autonomia.

In detto arresto, condiviso da Cass. pen., sez. I, n. 4489/2023, si è precisato quanto segue: (...)... non può prescindersi dal fatto che il giudizio di prevenzione - specie in riferimento alle elaborazioni più recenti, tese a riconsiderare talune passate ambiguità concettuali in chiave costituzionalmente e convenzionalmente orientata - è strutturato come giudizio "cognitivo" teso a ricostruire, preliminarmente, talune condotte poste in essere dal soggetto "attenzionato", in virtù del fatto che la formulazione di un giudizio prognostico rivolto al futuro (il giudizio di pericolosità attuale) è affrancata da un inaccettabile soggettivismo (che contrasterebbe con la natura giurisdizionale del procedimento) se ed in quanto trae origine da un previa operazione di tipo ricostruttivo, del tutto analoga a quella che si realizza - in sede penale - lì dove si ricostruisce il rapporto tra fatto concreto e fattispecie astratta. In particolare, secondo gli arresti univoci di questa Corte - antecedenti e successivi alla pronunzia Corte Edu De Tommaso c. Italia - la parte prognostica del giudizio è preceduta e condizionata da una parte "ricostruttiva" di fatti (con strumenti dimostrativi analoghi a quelli utilizzati in sede penale) e delle singole condotte tenute dal proposto, sì da determinare la "previa iscrizione" del soggetto nella categoria normativa tipizzata di cui agli artt. 1 e 4 d.lgs. n. 159/2011, (si vedano sul tema, Cass. pen., sez. I, n. 31209/2015; Cass. pen., sez. II, n. 26235/2015; Cass. pen., sez. I, n. 43720/2015; Cass. pen., sez. V, n. 6067/2017; Cass. pen., sez. I, n. 16038/2016; Cass. pen., sez. I, n. 36258/2017; Cass. pen., sez. I, n. 54119/2017; Cass. pen., sez. VI, n. 53003/2017; Cass. pen., sez. I, n. 349/2018; Cass. pen., sez. VI, n. 43446/2017; Cass. pen., sez. VI, n. 2385/2018). Ora, lì dove detta ricostruzione preliminare e funzionale alla formulazione della prognosi di pericolosità in prevenzione venga successivamente "smentita" dagli esiti definitivi di un giudizio penale, è evidente che a venire in rilievo (come giù emerso nella linea interpretativa formatasi sull'art. 7 l. n. 1423/1956, seguita a partire da Cass. pen., sez. un., n. 18/1997, Pisco) è qui il tema del "contrasto tra giudicati", con tendenziale prevalenza della valutazione realizzata nel contesto dotato di maggiori garanzie di affidabilità della decisione, rappresentato, indubbiamente, dal giudizio penale.

Si tratta, in altre parole, del risvolto del tema che già la Corte di legittimità ha esaminato trattando i profili delle misure di prevenzione, lì dove si è affermato che lì dove le condotte sintomatiche della pericolosità risultino legislativamente caratterizzate (nell'ambito di previsioni da ritenersi tipizzanti, come quelle di cui agli artt. 1 e 4 d.lgs. 159/2011) in termini per lo più evocativi di fattispecie penali (quali le "ricorrenti condotte delittuose" da cui il soggetto trae sostegno, l'indizio di appartenenza ad organismo mafioso, l'indizio di commissione di uno o più fatti di reato ricompresi in una norma di rinvio) è evidente che il giudice della misura di prevenzione (nel preliminare apprezzamento di tali "fatti") non può evitare di porsi il problema rappresentato dalla esistenza di una pronunzia giurisdizionale che proprio su "quella" condotta (ingrediente necessario della preliminare iscrizione nella categoria normativa di pericolosità) ha espresso una pronunzia in termini di insussistenza o di non attribuibilità del fatto all'individuo di cui si discute (si rinvia, sul tema a quanto affermato da Cass. pen., sez. I, n. 31209/2015, ric. Scagliarini, rv 264319/264322, nonché, in epoca successiva, da Cass. pen., sez. V, n. 6067/2016, ric. Malara, rv 269026 e da Cass. pen., sez. I n. 36258/2017, ric. Celini ed altrii). L'interferenza cognitiva tra i due procedimenti (penale e di prevenzione) è tema ormai ineludibile, secondo i giudici di legittimità, sia pure nell'ambito di previsioni di legge che realizzino un bilanciamento, imposto dalle particolari caratteristiche del giudizio di prevenzione. Questa è, peraltro, la linea seguita dal legislatore delegato del 2011 (d.lgs. n. 159) in tema di revocazione della confisca (art. 28), istituto che realizza - per la prima volta - una normativizzazione dei principi affermatisi in giurisprudenza dal 1998 in poi, attraverso la previsione di cui all'art. 28, comma 1, lett. b, disposizione che facoltizza la proposizione della domanda di revocazione quando i fatti accertati con sentenze penali definitive, sopravvenute o conosciute in epoca successiva alla conclusione del procedimento di prevenzione, escludano in modo assoluto l'esistenza dei presupposti di applicazione della confisca.È bene affermare, sul punto, che la non applicabilità di tale disposizione alle misure esclusivamente personali (regolamentate dal solo istituto generale della revoca, ora collocato all'art. 11 d.lgs. n. 159/2011), così come la impossibilità di applicazione del medesimo art. 28 - secondo quanto previsto in tema di disciplina transitoria dall'art. 117 del medesimo d.lgs. n. 159 - alle procedure definite con l'applicazione della previgente disciplina, non ne sminuisce il valore sistematico, di orientamento della interpretazione. È evidente infatti, che a fronte della costruzione (solo) giurisprudenziale di una revocabilità ex tunc della misura di prevenzione per vizio genetico "sul modello della revisione" (v. per tutte, Cass. pen., sez. I, n. 21369/2008, rv 240094), l'esistenza di un modello normativo "tipizzato" è dato che deve portare l'interprete verso linee il più possibili "conformi" ai contenuti della normazione sopravvenuta. Con ciò si intende dire che gli aspetti di maggior interesse di tale formalizzazione legislativa, tali da transitare nella interpretazione corrente (in linea, peraltro, con considerazioni già presenti nella giurisprudenza formatasi sui contenuti dell'art. 7 l. n. 1423/1956, come la citata Cass. pen., sez. I, n. 21369/2008), sono rappresentati da:

- la netta scissione tra l'ipotesi della sopravvenienza di nuove prove decisive (art. 28, comma 1, lett. a) e il particolare caso di contrasto tra giudicati tra esito del giudizio di prevenzione ed esito del giudizio penale (art. 28, comma 1, lett. b), sì da rendere possibile una richiesta di revoca ex tunc della misura di prevenzione anche in presenza dei medesimi elementi istruttori, lì dove siano stati diversamente apprezzati in sede penale;

- l'opzione legislativa verso la prevalenza del giudicato favorevole venutosi a determinare in sede penale, lì dove tale giudicato sia interpretabile nel senso di "escludere in modo assoluto" i presupposti applicativi della misura di prevenzione. Ora, l'assenza di casistica sulla disposizione testé citata (in virtù della opzione interpretativa adottata in più arresti relativi al regime transitorio) non ha consentito di realizzare affinamenti interpretativi tesi a delimitare il concetto di "esclusione in modo assoluto" (non privo di ambiguità semantica), ma appare evidente che con simile locuzione il legislatore abbia inteso preservare da automatismi (sia pure in un ambito di favor verso la revocabilità) la tenuta del giudicato di prevenzione, favorendo la costruzione interpretativa di quegli " spazi di autonomia" del giudice della prevenzione che il provvedimento impugnato innanzi al giudice di legittimità rivendica, specie in tema di misura di prevenzione applicata per una ipotesi di pericolosità qualificata di cui all'art. 4, comma 1, lett. a d.lgs. n. 159/2011, , sulla scia di una costante linea interpretativa pregressa di legittimità (si vedano, in particolare Cass. pen., sez. VI, n. 50946/2014, rv 261591; Cass. pen., sez. I, n. 6636/2016, rv 266364; Cass. pen., sez. V, n. 9505/2006, rv 233892). Ora, ferma restando la riaffermazione di tali, sia pur ridotti, spazi di autonomia, va precisato che il generale principio di non-contraddizione dell'ordinamento, in una con la scelta legislativa di accordare tendenziale preferenza al giudicato penale favorevole (ove di merito) impone di costruirne il senso non già in chiave di mera discrezionalità quanto in termini di possibile valorizzazione di dati obiettivi (normativi o fattuali) che si pongano come congruo fattore di giustificazione al mantenimento della misura di prevenzione pure a fronte di un "incidente" giudicato penale di assoluzione. In particolare, lì dove la "interferenza cognitiva" tra i due procedimenti (di prevenzione e penale) vada a cadere su un ingrediente essenziale della parte ricostruttiva del giudizio di prevenzione, è da escludersi che possa farsi leva su tale spazio di autonomia per giustificare, in sede di esame della domanda di revoca, il mantenimento in essere del provvedimento applicativo della misura di prevenzione. Ciò perché, come si è detto in precedenza, il recupero di tassatività descrittiva delle categorie tipiche di pericolosità è stato realizzato negli arresti prima citati (specie sul fronte della c.d. pericolosità generica) proprio attraverso la valorizzazione della "correlazione" con uno o più delitti ritenuti come realizzati dal soggetto proposto (sicché lì dove la valutazione del giudice della prevenzione sia smentita dal giudice della cognizione penale viene meno uno dei presupposti tipici cui era ancorata la misura di prevenzione). Risulta, per converso, possibile realizzare un simile effetto - di mantenimento della misura - lì dove il segmento fattuale "azzerato" dal diverso esito del giudizio penale si inserisca come ingrediente fattuale solo concorrente e minusvalente rispetto ad altri episodi storici rimasti confermati (o non presi in esame in sede penale), o dove il giudizio di prevenzione si basi su elementi cognitivi realmente autonomi e diversi rispetto a quelli acquisiti in sede penale, o ancora lì dove la conformazione legislativa del tipo di pericolosità prevenzionale risulti essere realizzata in modo sensibilmente diverso rispetto ai contenuti della disposizione incriminatrice oggetto del giudizio penale (è il caso del rapporto che intercorre tra la nozione di appartenenza e quella di partecipazione alla associazione di cui all'art. 416-bis c.p. (...).

La pronuncia in commento - Cass. pen., sez. VI, n. 19997/2023 -, e quella di poco precedente - Cass. pen., sez. I, n. 4489/2023 -, hanno l'indubbio merito di contribuire ad avviare un'opportuna riflessione rispetto alla tendenza invalsa nella giurisprudenza, soprattutto di merito, e volta a considerare il giudizio di prevenzione come una sorta di revisione non codificata del procedimento penale conclusosi con esito sfavorevole alla tesi accusatoria, ipotesi che trova però dei fondamentali limiti proprio nel chiaro dato normativo.

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