Riforma processo civile: l'inibitoria nel procedimento di appello
30 Agosto 2023
Le linee seguite dalla Commissione ministeriale ed il disegno di legge
Con d.m. 12 marzo 2021 è stata costituita - presso l'Ufficio Legislativo del Ministero della giustizia - la Commissione per l'elaborazione di proposte in materia di processo civile e di strumenti allo stesso alternativi, al fine di ridurre i tempi dei processi e migliorarne l'efficienza. A parere della Commissione, la riforma del giudizio davanti alla corte d'appello era da più parti sentita come necessaria, stante l'elevato carico di arretrato che, nel corso degli anni, si è accumulato in correlazione con l'aumento dei tempi di definizione delle cause. Da qui modifiche puntuali nelle diverse fasi del giudizio: nella fase introduttiva, sono state rese più stringenti le tecniche di formulazione dei motivi di appello; nella fase di gestione delle udienze, è stata ripristinata la figura del consigliere istruttore e nella fase della decisione si sono mutuati i due modelli decisori previsti per il giudizio di primo grado davanti al tribunale. In questa prospettiva, sono stati altresì modificati i presupposti per la sospensione dell'efficacia esecutiva della sentenza impugnata. Già il Disegno di legge n. 1662 all'art. 6, comma 1, lett. f) infatti prevedeva che la sospensione dell'efficacia esecutiva o dell'esecuzione della sentenza impugnata fosse disposta sulla base di un giudizio prognostico di manifesta fondatezza dell'impugnazione o, alternativamente, laddove sussistesse un grave e irreparabile pregiudizio derivante dall'esecuzione della sentenza che, quanto alle sentenze di condanna al pagamento di una somma di denaro, doveva consistere in gravi e fondati motivi, anche in relazione alla possibilità di insolvenza di una delle parti; e che, nel caso di manifesta fondatezza o infondatezza dell'appello, la corte - qualora non ritenesse necessarie ulteriori attività - potesse ordinare la discussione orale previa precisazione delle conclusioni nel corso della medesima udienza e pronunciare sentenza al termine della discussione, dando lettura del dispositivo e delle ragioni della decisione. Il nuovo art. 283 c.p.c.
Sulla base di tali premesse, la nuova formulazione dell'art. 283 c.p.c. dispone che “il giudice d'appello, su istanza di parte proposta con l'impugnazione principale o con quella incidentale, sospende in tutto o in parte l'efficacia esecutiva o l'esecuzione della sentenza impugnata, con o senza cauzione, se l'impugnazione appare manifestamente fondata o se dall'esecuzione della sentenza può derivare un pregiudizio grave e irreparabile, pur quando la condanna ha ad oggetto il pagamento di una somma di denaro, anche in relazione alla possibilità di insolvenza di una delle parti”. Come noto, la disposizione ha subito notevoli modificazioni. La prima da menzionare è quella del 1990, entrata in vigore il 1° gennaio 1993, che aboliva la diversità tra la clausola di provvisoria esecutività concessa ope iudicis e la esecutorietà della sentenza ope legis, introducendo il concetto chiave per cui la sentenza di primo grado è provvisoriamente esecutiva. La riforma - a parere di molti - contribuiva ad un graduale aumento delle ipotesi di provvisoria esecutività ex lege delle sentenze di primo grado e dimostrava di bilanciare notevolmente il peso tra gli interessi in gioco, ovvero, da un lato quello del vincitore alla rapida attuazione della decisione e dall'altro quello del soccombente alla possibile revisione della sentenza; ciò senza trascurare la disincentivazione di impugnazioni meramente dilatorie. Nella stessa prospettiva, la riforma del 2005-2006 introduceva altresì un ulteriore elemento di valutazione per il giudice d'appello - ove allegato dall'una o dall'altra parte o da entrambe – nel concedere l'inibitoria e, segnatamente, la sussistenza dei «gravi e fondati motivi» anche in relazione alla «possibilità di insolvenza di una delle parti» del rapporto obbligatorio tutelato dalla condanna appellata. La formula usata oggi dalla riforma cd. Cartabia (che prevede il potere del giudice di appello di concedere la sospensione dell'efficacia esecutiva o della esecuzione della sentenza impugnata qualora l'impugnazione appaia “manifestamente fondata o se dall'esecuzione della sentenza può derivare un pregiudizio grave e irreparabile”), mira - come detto - ai medesimi obiettivi delle precedenti riforme, lasciando qualche perplessità circa il raggiungimento delle finalità perseguite. Il primo profilo di novità introdotto dalla disposizione è relativo all'uso della disgiuntiva “o” tra i due presupposti richiesti dalla norma. Mentre la vecchia adozione della locuzione gravi “e” fondati motivi imponeva al giudice la valutazione tanto del fumus boni iuris, tanto del periculum in mora, nella nuova formulazione i due presupposti, legati dalla disgiuntiva “o”, devono ritenersi alternativi; sicché la presenza di uno solo di essi è sufficiente a sostenere l'istanza e ad ottenere il provvedimento di inibitoria. Con riferimento al presupposto del fumus nulla pare mutato rispetto al precedente regime e, pertanto, il giudice dell'appello è tenuto a verificare la manifesta fondatezza dell'impugnazione proposta, operando un giudizio prognostico sull'esito dell'impugnazione medesima. Un diverso profilo di novità è costituito dal presupposto del periculum in mora. La nuova formulazione relativa alla gravità ed irreparabilità del pregiudizio appare riecheggiare, con le dovute differenze, quella adottata nell'art. 373 c.p.c. A seguire l'impostazione tradizionalmente accolta, il presupposto si configura nelle ipotesi in cui l'esecuzione medesima provochi un pregiudizio non suscettibile di reintegrazione per equivalente in caso di riforma della sentenza impugnata. Dunque, il requisito della irreparabilità del danno, dovrebbe verificarsi ove la parte soccombente perda un bene infungibile, nel senso di una materiale impossibilità di procedere al risarcimento del danno; qualora l'esecuzione comporti la disintegrazione o la distruzione materiale del medesimo bene infungibile, oppure determini la perdita delle qualità essenziali della res su cui si esercita l'esecuzione stessa. È stato tuttavia osservato che l'irreparabilità del danno, se intesa in senso assoluto ed oggettivo, può determinare gravi ingiustizie, ove l'esecuzione di un'obbligazione pecuniaria “comporti conseguenze rilevantissime per il soccombente, insieme all'estremamente probabile impossibilità di recupero” (Carpi, La provvisoria esecutorietà della sentenza, Milano, Giuffrè, 1979, p. 292) ed anche in tale caso deve sussistere un'eccezionale sproporzione, da valutarsi nell'ottica di un'eventuale riforma della sentenza, tra il beneficio ottenuto dal creditore procedente e il pregiudizio sofferto dal debitore esecutato, che deve comunque eccedere quello normalmente conseguente all'esecuzione forzata. Il legislatore - al fine di mitigare l'interpretazione di cui sopra relativa alla irreparabilità del danno - ha oggi stabilito, nella modifica al testo dell'art. 283 c.p.c., che la sentenza può produrre danni irreparabili “pur quando la condanna ha ad oggetto il pagamento di una somma di denaro”, precisando altresì che l'elemento del periculum va valutato “anche in relazione alla possibilità di insolvenza di una delle parti”. Al riguardo, già al momento della sua introduzione, si era osservato che il giudice deve indagare innanzitutto se il mancato soddisfacimento immediato del credito o, viceversa, il suo pagamento immediato possa provocare, rispettivamente l'insolvenza del creditore ovvero del debitore. In altre parole, il presupposto merita di essere esaminato tenendo conto della posizione di entrambe le parti: da un lato, quella del debitore in primo grado, poi creditore a fronte all'eventuale riforma della sentenza in appello, che rischia di non recuperare la somma già versata (inibitoria non concessa) e, dall'altro lato, quella del creditore che, in caso di conferma in appello della sentenza di primo grado, potrebbe trovarsi nella condizione di non soddisfare il suo diritto, poiché il debitore è diventato, medio tempore, insolvente (inibitoria concessa). Rimane immutata, come nella precedente formulazione, la facoltà per il giudice dell'appello di imporre una cauzione, a garanzia del risarcimento del maggior danno che il creditore lamenti di aver subito a causa dell'arresto della esecutività/esecuzione rivelatasi infine legittima, per effetto della conferma in appello del provvedimento costituente titolo esecutivo. L'istanza sull'inibitoria può, come nel precedente regime, essere avanzata dalle parti con l'impugnazione principale o con quella incidentale. Oggi, il nuovo ultimo comma dell'art. 283 c.p.c., prevede che l'istanza può essere proposta o anche riproposta nel corso del giudizio di appello se si verificano mutamenti nelle circostanze, da indicare specificatamente nel ricorso, a pena di inammissibilità. Per ottenere il provvedimento, ad oggi, sono percorribili tre strade. La prima, quella ordinaria, riguarda l'ipotesi che l'istanza sia contenuta all'interno della impugnazione principale o incidentale ed in questo caso la decisione sulla inibitoria è pronunciata con ordinanza non impugnabile nella prima udienza dal collegio; mentre, se già nominato, l'istruttore sente le parti e riferisce al collegio che, poi, adotta la decisione. La seconda, presente anche nella vecchia formulazione della norma, riguarda l'ipotesi in cui la parte chieda che la decisione sulla sospensione sia pronunciata prima dell'udienza di comparizione ed in tal caso il ricorso è presentato al presidente del collegio il quale può, se ricorrono giusti motivi di urgenza, disporre provvisoriamente l'immediata sospensione dell'efficacia esecutiva o dell'esecuzione della sentenza con decreto inaudita altera parte, fissando poi l'udienza per la conferma, modifica o revoca del decreto, che avviene sempre con ordinanza non impugnabile. Diversamente, il presidente, con decreto in calce al ricorso, può ordinare la comparizione delle parti in camera di consiglio, rispettivamente davanti all'istruttore o davanti a sé, e poi decidere se adottare il provvedimento a seguito dello svolgimento della udienza, con ordinanza non impugnabile. La terza, innovativa strada è quella sancita dall'ultimo comma dell'art. 283 c.p.c. in forza del quale l'istanza di sospensione della provvisoria esecuzione può – come anticipato - essere riproposta nel corso del giudizio di appello, condizionata però al verificarsi di “mutamenti nelle circostanze”. Anche in tal caso il provvedimento di inibitoria ha la forma dell'ordinanza collegiale, non impugnabile. Alla possibile riproposizione della istanza fa da contraltare l'irrigidimento della sanzione nel caso di pronuncia di inammissibilità o manifesta infondatezza della istanza, poiché l'ultimo comma dell'art. 283 c.p.c. dispone che il giudice, con ordinanza non impugnabile, può condannare la parte che l'ha proposta al pagamento di una pena pecuniaria non inferiore ad euro 250 e non superiore ad euro 10.000, precisando poi che la somma va a favore della cassa delle ammende e che l'ordinanza, con la quale è stata disposta, è revocabile con la sentenza che definisce il giudizio. Osservazioni
Alla luce delle nuove disposizioni, dunque, l'inibitoria nel giudizio di appello sembrerebbe cedere la caratteristica del provvedimento cautelare, avuto riguardo alla formulazione dei presupposti per il suo ottenimento, per recuperare poi la sua intrinseca natura laddove si prevede la possibilità di riproporre l'istanza a seguito del mutamento delle circostanze. La sussistenza non più contemporanea dei due elementi del fumus e del periculum lascia presumere l'allontanamento del provvedimento dalla sua natura cautelare, non dovendo più il giudice valutare la sussistenza di entrambi i presupposti, nella logica già recepita a seguito della novella del 2005 dei cd. ‘vasi comunicanti'. Diversamente, la possibilità di riproporre l'istanza nel corso del processo, laddove si verifichino mutamenti nelle circostanze, sembra invece accentuare la natura cautelare del provvedimento, similmente a quanto disposto dall'art. 669 septies c.p.c. Genera qualche perplessità la mancata previsione dei casi in cui può riproporsi l'istanza, ovvero se sia limitata ala sola ipotesi di rigetto, oppure anche alla ipotesi di accoglimento. Per vero, la disposizione sancisce la sola possibilità di riproposizione della istanza, lasciando intendere che legittimato sia colui che si è visto rigettare la richiesta; di contro nulla si dice per il caso inverso, ovvero se, in caso di accoglimento della istanza, sia possibile per il creditore chiedere la revoca o modifica della inibitoria concessa, come per i provvedimenti cautelari ex art. 669 decies c.p.c. Effettivamente se lo scopo della inibitoria è quello di bilanciare gli interessi in gioco, del debitore e del creditore, ed il giudice concede il provvedimento alla ricorrenza anche di uno solo dei due presupposti previsti, ben sarebbe possibile anche per il creditore trovarsi nel concreto ed attuale rischio di perdere la garanzia del proprio credito (da recuperare magari sulla base del titolo esecutivo sospeso) ed avere diritto in via di urgenza di chiedere alla corte d'appello di revocare il provvedimento sospensivo, così da intraprendere e/o proseguire alla esecuzione forzata. Nel silenzio della norma, si auspica che tale soluzione interpretativa possa trovare accoglimento. Altro elemento che sicuramente sarà oggetto di interpretazione è costituito dai presupposti che il legislatore ha imposto al fine della riproposizione della istanza. Infatti, l'art. 283 c.p.c. dispone che il ricorso debba essere corredato, a pena di inammissibilità, della indicazione dei mutamenti delle circostanze, tali per cui viene avanzata la relativa istanza. Ovviamente deve ritenersi che il ricorso non indichi solamente i mutamenti delle circostanze, ma che la parte debba anche avere cura di allegare e dimostrare la fondatezza della pretesa, con elementi concreti, fattuali ed attuali. Vi è da aggiungere che la disposizione non precisa di quali mutamenti deve trattarsi, ovvero se solo di mutamenti delle circostanze di fatto esterne e comunque in qualche modo incidenti sugli interessi in gioco nel procedimento di appello, oppure interni al processo stesso. Non è chiaro cioè se debba trattarsi di fatti sopravvenuti al corso del processo o già presenti al momento della proposizione della impugnazione, ma la parte ne è venuta a conoscenza o li ha scoperti successivamente (e, anche in tale ipotesi, non è chiaro se debba essere allegato e provato il momento della venuta ad esistenza o della scoperta), oppure se può trattarsi anche di mutamenti endoprocessuali, come in ipotesi le risultanze di una escussione testi o di una CTU rinnovata nel processo di secondo grado, che cambia e/o fa venire ad esistenza il fumus della impugnazione. Ad ogni buon conto sembra evidente il rafforzamento da parte del legislatore della funzione e natura cautelare del provvedimento di inibitoria, con l'unico limite auspicato anche all'indomani della riforma del 2005, avente ad oggetto la impossibilità di reclamare il provvedimento emesso. Il legislatore infatti continua a prevedere che il provvedimento sia emesso dal collegio con ordinanza e qualifica espressamente il provvedimento come non impugnabile. A ben riflettere così come possono verificarsi mutamenti delle circostanze fattuali, che impongono la concessione del provvedimento, alla stessa maniera poteva contemplarsi l'ipotesi di un possibile errore nella applicazione delle norme di diritto da parte del giudice, al quale porre rimedio con uno strumento snello, quale si configura il reclamo di cui all'art. 669 terdecies c.pc. In conclusione, se possono essere salutate con favore le modifiche ai presupposti per la concessione dell'inibitoria, relativamente alla alternativitá della loro sussistenza, oltre che l'introduzione della possibilità di una proposizione dell'istanza anche nel corso del processo, tuttavia si ha l'impressione che sia andata persa l'occasione per riportare l'istituto ad unità, non contemplando alcun rimedio ai, pur sempre possibili, errori da parte del giudice nella valutazione del ricorso, continuando a prevedere che il provvedimento che decide sulla sospensione della esecutività della sentenza non sia impugnabile, neppure con il reclamo. Riferimenti
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