Le Sezioni Unite sulla capacità processuale suppletiva del fallito all'impugnazione degli atti impositivi

08 Settembre 2023

Pronunciandosi sull'ordinanza interlocutoria della V Sezione della Cassazione, le Sezioni Unite forniscono alcuni chiarimenti circa l'esatta delimitazione del concetto di “inerzia del curatore”, quale presupposto della legittimazione processuale del fallito ad impugnare gli atti impositivi relativi a periodi d'imposta anteriori alla dichiarazione di fallimento.
Massime

In caso di rapporto d'imposta i cui presupposti si siano formati prima della dichiarazione di fallimento, il contribuente dichiarato fallito a cui sia stato notificato l'atto impositivo lo può impugnare soltanto in caso di astensione del curatore dall'impugnazione, rilevando a tal fine il comportamento oggettivo di pura e semplice inerzia di questi, indipendentemente dalla consapevolezza e volontà che l'abbiano determinato.

L'insussistenza dello stato di inerzia del curatore, come sopra inteso, comporta il difetto della capacità processuale del fallito in ordine all'impugnazione dell'atto impositivo e va conseguentemente rilevata anche d'ufficio dal giudice in ogni stato e grado del processo.



La questione

La dichiarazione di fallimento, ed ora l'apertura della liquidazione giudiziale dell'imprenditore insolvente, comportano, come noto, il c.d. spossessamento del debitore, che sul piano sostanziale si declina nella perdita da parte del debitore medesimo del diritto di amministrare e disporre di tutti i beni esistenti e di quelli che sopraggiungeranno durante la procedura (art. 43 l.fall. e 143 CCII) e nell'inefficacia rispetto ai creditori di tutti gli atti ed i pagamenti da lui eseguiti o ricevuti dopo l'apertura della procedura (art. 44 l.fall. e 144 CCII). Tale effetto non può che riverberarsi anche sulla sfera processuale del debitore medesimo; ed infatti, tanto la legge fallimentare quanto il codice della crisi prevedono che “nelle controversie, anche in corso, relative a rapporti di diritto patrimoniale del fallito compresi nel fallimento sta in giudizio il curatore”, e che “Il fallito può intervenire nel giudizio solo per le questioni dalle quali può dipendere un'imputazione di bancarotta a suo carico o se l'intervento è previsto dalla legge” (così i primi due commi dell'art. 43 l.fall., ed analogamente, salvi i rinnovati riferimenti terminologici, dell'art. 143 CCII).

Come si vede, attenendosi al tenore letterale della norma, la capacità (o legittimazione) processuale del curatore nelle controversie relative rapporti patrimoniali compresi nel fallimento e nella liquidazione giudiziale dovrebbe avere carattere esclusivo, mentre al debitore dovrebbe riconoscersi il mero diritto di intervento soltanto per le questioni dalle quali possa dipendere un'imputazione per bancarotta ovvero nei casi tassativamente previsti dalla legge.

In talune situazioni, peraltro, la rigida applicazione di tale principio potrebbe condurre a conseguenze difficilmente accettabili. Tra queste vi è l'ipotesi in cui alla data della dichiarazione di fallimento siano già state pronunciate sentenze che avessero accertato un debito del fallito (eventualità che comporta l'ammissione con riserva ex art. 96, comma 2, n. 3, l.fall., con facoltà del curatore di proporre o proseguire il giudizio d'impugnazione ed eventuale opponibilità alla massa della decisione sfavorevole) e, molto ricorrente nella pratica, l'eventualità che in pendenza di procedura siano emessi atti impositivi relativi al rapporto tributario del fallito per periodi d'imposta anteriori alla dichiarazione di fallimento; anche in questo caso, infatti, ai sensi dell'art. 88 d.p.r. n. 602/1973, opera il meccanismo dell'ammissione al passivo con riserva, sciolta dal giudice delegato in caso di mancata impugnazione dell'atto dinanzi al Giudice Tributario, ovvero in base ed all'esito della decisione di quest'ultimo.

In entrambe tali ipotesi, l'omessa impugnazione della sentenza come dell'atto impositivo ne determina la definitività, con conseguente irretrattabilità della pretesa creditoria accertata, opponibile anche nei confronti del debitore (o dei suoi aventi causa) successivamente alla chiusura della procedura concorsuale.

Alla luce di tale considerazione, e con riferimento principalmente alle ipotesi appena delineate, un risalente e consolidato orientamento giurisprudenziale ritiene che “il fallito conserva eccezionalmente la capacità o legittimazione processuale di fronte all'inerzia della Amministrazione fallimentare” (così, tra le altre, Cass., sez. I, 26 settembre 1997, n. 9456; Cass., sez. I, 27 ottobre 1994, n. 8860; Cass., sez. I, 15 dicembre 1983, n. 7400). Il presupposto di tale legittimazione, generalmente definita straordinaria o suppletiva, è sempre stato individuato nell'inerzia del curatore; sull'esatta delimitazione di tale presupposto, però, nel tempo sono sorti alcuni dubbi, oggi risolti dalle Sezioni Unite della Cassazione con la sentenza che ci si appresta a commentare.

I dubbi sulla nozione di inerzia rilevante ai fini del riconoscimento della capacità suppletiva del fallito

Con l'ordinanza interlocutoria n. 25373 del 25 agosto 2020, la quinta sezione della Cassazione aveva rimesso alle Sezioni Unite la questione concernente l'esatta delimitazione del concetto di inerzia del curatore rilevante ai fini del riconoscimento in capo al fallito della capacità suppletiva all'impugnazione di atti impositivi emessi in pendenza della procedura ed attinenti a crediti concorsuali. Alle Sezioni Unite si chiedeva, in particolare, di chiarire se, al fine della configurabilità di detta legittimazione suppletiva, rilevi la mera inezia del curatore “intesa come omesso ricorso alla tutela giurisdizionale”, ovvero “se occorra accertare se l'inerzia sia o meno frutto di una valutazione ponderata da parte degli organi della procedura concorsuale”.

In verità, la questione non poteva dirsi oggetto di un contrasto giurisprudenziale particolarmente grave. Salvo alcuni isolati precedenti (tra i quali si veda, Cass., sez. V, 6 febbraio 2009, n. 2910), l'orientamento di gran lunga prevalente riteneva infatti che la capacità processuale del fallito potesse configurarsi soltanto se il mancato ricorso alla tutela giurisdizionale da parte del curatore fosse stato causato, a sua volta, da un totale disinteresse all'azione, e non invece qualora fosse scaturita dalla ponderata valutazione degli organi della procedura di non proporre o proseguire il giudizio. Secondo tale orientamento, in definitiva, l'inerzia “consapevole” del curatore avrebbe precluso l'iniziativa processuale suppletiva del fallito.

Come rilevano le Sezioni Unite, l'idea di fondo alla base di tale indirizzo “muove dalla osservazione che anche una condotta abdicativa e di astensione, appunto se consapevole e voluta, può equivalere ad un atto di disposizione e di amministrazione (seppure in negativo) del diritto appreso al concorso cosicché, a ben vedere, in tal caso neppure potrebbe ontologicamente ravvisarsi una vera e propria inerzia del curatore, quanto una valutazione discrezionale e deliberata di abbandono, in base alla quale la massa dei creditori trova più vantaggio e convenienza nel non impugnare l'atto, piuttosto che nell'impugnarlo”.

Ed in effetti deve considerarsi che l'inerzia del curatore dinanzi ad un atto impositivo (come dinanzi ad una sentenza di condanna) potrebbe scaturire non già da una mera disattenzione o negligenza, ma da una valutazione ponderata riguardante sia la fondatezza della pretesa creditoria avanzata dal terzo, sia la concreta utilità dell'eventuale iniziativa giudiziale rispetto alla manifesta incapienza dell'attivo della procedura a soddisfare anche il creditore in questione. In sostanza, pur ritenendo insussistente la pretesa creditoria accertata, il curatore potrebbe ritenere di non assumere i costi dell'impugnazione per contestare un debito che verosimilmente non troverebbe capienza sull'attivo della procedura.

Sul piano della mera gestione della procedura concorsuale, una simile condotta sarebbe certamente immune da censure e anzi finanche apprezzabile; resta però il fatto che, in tal caso, il fallito tornato in bonis o i suoi aventi causa potrebbero risentire degli effetti pregiudizievoli derivanti dalla mancata impugnazione da parte del curatore, pur in presenza di pretese creditorie prive di fondamento ma ormai irretrattabili.

Tale considerazione, unitamente ad altre attinenti alle peculiarità del rapporto tributario, hanno indotto la quinta Sezione a rimettere la questione alle sezioni unite, al fine non tanto di comporre un contrasto giurisprudenziale, quanto di sottoporre ad un meditato riesame il principio sopra esposto e stabilmente affermato dalla medesima Cassazione.



La decisione delle Sezioni Unite

Con la sentenza in commento le Sezioni Unite si pronunciano sulla questione sollevata dalla quinta Sezione, pervenendo alla conclusione secondo cui il contribuente fallito è ammesso ad impugnare l'atto impositivo ritenuto illegittimo nel caso in cui a tanto non vi provveda, per qualsiasi ragione, il curatore.

Tale conclusione viene motivata dalla Corte richiamando principalmente la “specialità dell'obbligazione tributaria” e la “peculiarità del rapporto giuridico d'imposta in quanto modellato su uno statuto suo proprio, non riscontrabile nelle altre obbligazioni e negli altri rapporti di diritto privato attratti al concorso”, tali da configurare un “divario di regime tra obbligazione tributaria ed obbligazione di diritto tributario e, con ciò, la diversa intensità delle ragioni di difesa che vanno riconosciute al debitore-contribuente anche se in stato di fallimento”. La Corte afferma inoltre che tale divario è reso “particolarmente eclatante” dall'aspetto sanzionatorio connesso all'inadempimento dell'obbligo tributario, sia quello di natura penale (ancorché nella stessa sentenza si ricordi che l'attuale assetto è improntato al principio di autonomia e separatezza sostanziale e processuale degli accertamenti giurisdizionali rispettivamente demandati al giudice penale ed a quello tributario, finanche con possibilità di diverse quantificazioni del credito erariale), sia quello di natura amministrativa, anch'esso ispirato da finalità afflittive di stampo penalistico. Detta considerazione, secondo le Sezioni Unite, impone un'interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 43 l.fall. (ed analogamente dovrà ritenersi per l'art. 143 CCII) alla luce dell'art. 24 della Costituzione, nel senso di ammettere la legittimazione del fallito in tutti i casi di inerzia del curatore.

Posto tale principio, le Sezioni Unite passano ad esaminare il regime di rilevabilità del difetto dicapacità processuale del fallito che abbia impugnato l'atto impositivo in assenza dell'inerzia del curatore. Sul punto si riscontrava infatti una difformità di orientamenti all'interno della giurisprudenza di legittimità; secondo una prima impostazione, “l'incapacità processuale del fallito deve intendersi meramente “relativa” e può essere fatta valere esclusivamente dal curatore fallimentare (non anche dalla controparte, né tanto meno può essere rilevata d'ufficio dal Giudice), venendo la disposizione della L. Fall., art. 43, comma 1, ad esplicitare, conriferimento all'ambito processuale, l'ulteriore previsione di cui alla L. Fall., art. 44, che prevede la generale inopponibilità ai creditori fallimentari di “tutti gli atti compiuti dal fallito e i pagamenti da lui eseguiti (comma 1), nonché dei “pagamenti ricevuti dal fallito” (comma 2) dopo la sentenza dichiarativa di fallimento (cfr. Cass. n. 5494/2012; Cass. n. 16816/2014)” (così, Cass., sez. VI-5, 28 dicembre 2016, n. 27277); secondo un diverso indirizzo ermeneutico, invece, il difetto di legittimazione processuale del fallito assume carattere assoluto, sicché è rilevabile anche d'ufficio e non rientra nella sola disponibilità dal curatore (in tal senso, Cass., sez. II, 4 dicembre 2018, n. 31313).

Nella sentenza in commento le Sezioni Unite aderiscono a tale secondo orientamento, tanto più “alla luce della soluzione che si è indicata in ordine al presupposto della legittimazione sostitutiva del fallito in ambito tributario (inerzia semplice)”.

Invero, non è ben chiaro in che modo la precisazione sul presupposto della legittimazione suppletiva del fallito possa incidere sul regime di rilevabilità della sua eventuale carenza, né le Sezioni Unite offrono sul punto alcun argomento. La tesi della natura relativa dell'eccezione di carenza di legittimazione processuale in capo al fallito, rilevabile soltanto su eccezione del curatore, appare d'altro canto assai poco convincente, finendo per attribuire agli organi della procedura il peculiare potere di riconoscere o meno al fallito la capacità processuale all'impugnazione dell'atto impositivo (potere che, in talune sporadiche pronunce, la stessa Cassazione aveva espressamente riconosciuto; cfr., Cass., sez. III, 16 dicembre 2004, n. 23435).

L'art. 43 l.fall. (ed analogamente l'art. 143 CCII), pure alla luce dell'interpretazione costituzionalmente orientata oggi fatta propria dalle Sezioni Unite, prevede che per i rapporti patrimoniali del fallito “sta in giudizio il curatore” e non altri, salva (per quanto qui interessa), l'inerzia del curatore medesimo; il Giudice investito della domanda giudiziale proposta dal fallito, al quale consti l'iniziativa processuale del curatore (nel medesimo giudizio o in altro introdotto separatamente), non può dunque che prendere atto dell'operatività di tale norma e della conseguente carenza di capacità processuale del fallito medesimo.

Infine, resta da precisare che i principi enunciati dalle Sezioni Unite trovano applicazione sia nel caso di impugnazione proposta dal debitore in pendenza della procedura concorsuale, sia nella diversa ipotesi in cui il giudizio sia stato validamente introdotto dal debitore ancora in bonis e si sia interrotto per l'intervenuta apertura della procedura; le Sezioni Unite chiariscono che anche in detta ipotesi il curatore potrà valutare l'interesse della massa alla prosecuzione del giudizio interrotto, fermo restando che, in caso di attivazione della curatela, l'incapacità del fallito a proseguire il giudizio non potrà che essere rilevata d'ufficio.



Osservazioni

Riflessi applicativi dei principi affermati Sezioni Unite

Illustrato sinteticamente il contenuto della decisione in commento, sembra opportuno esaminarne alcuni riflessi applicativi, limitando la disamina alla fattispecie discussa dalla Cassazione, ovvero all'impugnazione di atti impositivi dinanzi al Giudice Tributario.

Riconosciuta (alle condizioni sopra esposte) al debitore la legittimazione straordinaria ad impugnare l'atto impositivo relativo al proprio rapporto tributario ed a periodi d'imposta anteriori all'apertura della procedura concorsuale, occorre in primo luogo precisare che un interesse concretoall'impugnazione dovrebbe sorgere in capo al fallito soltanto qualora l'atto impositivo gli sia stato notificato (anche in corso di procedura), poiché soltanto in tal caso l'atto sarebbe idoneo a produrre effetti pregiudizievoli nei suoi confronti.

Sul punto consta infatti un consolidato indirizzo giurisprudenziale (richiamato anche dalla sentenza in commento), secondo il quale “ai fini della successiva opponibilità al fallito, gli atti impositivi e le cartelle esattoriali vanno notificati non solo al curatore fallimentare, ma anche al fallito stesso, tanto sia in considerazione della sua legittimazione eccezionale ad impugnare in caso di inerzia del curatore, e sia del suo residuo interesse all'impugnazione per il caso di un eventuale ritorno in bonis” (così, Cass., sez. V, 31 gennaio 2022, n. 2857; nello stesso senso, tra le più recenti, Cass., sez. V, 25 gennaio 2023, n. 2380).

Come si vede, le due questioni sono strettamente e reciprocamente collegate. Da un lato, infatti, la Cassazione ritiene che la legittimazione suppletiva del fallito ad impugnare l'atto impositivo, sia pure per il solo caso di inerzia del curatore, ne imponga la notifica a pena di inopponibilità dell'atto medesimo al debitore tornato in bonis; dalla prospettiva opposta e sulla base del medesimo principio, però, si può anche affermare che il fallito non abbia un concreto interesse ad impugnare l'atto impositivo notificato al solo curatore, poiché per l'appunto si tratta di atto che non sarà opponibile nei suoi confronti successivamente al suo ritorno in bonis. L'impugnazione da parte del fallito dell'atto impositivo notificato al solo curatore, dunque, quand'anche quest'ultimo fosse rimasto inerte, non sarebbe fondato su un interesse concreto ex art. 100 c.p.c..

Sempre sul piano applicativo, occorre interrogarsi sul concreto estrinsecarsi della capacità suppletiva del fallito, considerando che l'accesso alla tutela impugnatoria dinanzi al Giudice Tributario è soggetta al termine decadenziale di 60 giorni dalla notificazione dell'atto impugnabile, ex art. 21, primo comma, d.lgs. n. 546/1992.

Nessun problema sorge qualora l'atto impositivo sia notificato al fallito soltanto dopo essere stato notificato al curatore e dopo l'inutile spirare del termine d'impugnazione concesso a quest'ultimo. In tal caso, il debitore potrebbe già constatare l'eventuale inerzia mantenuta dal curatore ed eventualmente proporre egli stesso l'impugnazione, esercitando la propria legittimazione suppletiva.

Dubbi sorgono, invece, laddove i due termini d'impugnazione concessi al curatore ed al debitore si sovrappongano, fino a coincidere del tutto (circostanza che si verificherebbe nell'ipotesi in cui l'atto sia notificato in pari data sia al debitore fallito che al curatore).

In detta eventualità il curatore non potrebbe dirsi propriamente inerte fin quando non sia inutilmente spirato il termine d'impugnazione dell'atto impositivo; d'altro canto, opinando in tal senso, la capacità processuale suppletiva del fallito potrebbe “liberarsi” (riprendendo un'espressione impiegata dalle Sezioni Unite) soltanto in un momento molto prossimo alla scadenza del termine d'impugnazione, fino a giungere all'ipotesi estrema della notificazione effettuata in pari data, nella quale l'inerzia del curatore (e dunque la legittimazione suppletiva del fallito) sarebbe riscontrabile soltanto alla scadenza del termine d'impugnazione concesso al fallito.

In queste ipotesi (e soprattutto nell'ultima), l'ammissibilità del ricorso eventualmente proposto dal fallito oltre il termine di cui all'art. 21, primo comma, d.lgs. n. 546/1992, sarebbe necessariamente subordinata alla richiesta ed alla concessione della rimessione in termini al ricorso exart. 153, comma 2, c.p.c., applicabile anche nel rito tributario (in tal senso si veda, Cass., sez. V, 5 gennaio 2022, n. 268, ove si precisa che l'istituto “è applicabile al rito tributario, operando sia con riferimento alle decadenze relative ai poteri processuali “interni” al giudizio, sia a quelle correlate alle facoltà esterne e strumentali al processo, quali l'impugnazione dei provvedimenti sostanziali” e si aggiunge che la rimessione in termini “presuppone la tempestività dell'iniziativa della parte, da intendere come immediatezza della reazione al palesarsi della necessità di svolgere un'attività processuale ormai preclusa”; conforme, Cass., sez. V, sent. 17 giugno 2015, n. 12544). L'unica alternativa percorribile dal fallito sarebbe infatti quella di proporre il ricorso nel termine decorrente dalla notifica dell'atto a lui diretto, assumendosi il rischio che il Giudice Tributario rilevi anche ex officio la sopravvenuta carenza di capacità processuale laddove anche il curatore attivi successivamente la tutela giudiziale.

Infine, occorre interrogarsi sui riflessi che il giudizio avviato o proseguito dal fallito potrebbe riverberare nei confronti della procedura concorsuale (ovvero dei creditori concorrenti). Il punto è espressamente affrontato dalle Sezioni Unite nella sentenza in commento, in senso conforme a quanto la giurisprudenza aveva già avuto modo di chiarire. Secondo la Corte, infatti, il giudicato sfavorevole in ipotesi formatosi sull'impugnazione proposta dal fallito non sarebbe opponibile ai creditori concorrenti, che invece potrebbero avvantaggiarsi di un giudicato favorevole di annullamento totale o parziale dell'atto impositivo.

Ciò implica che il credito tributario dovrà essere ammesso al passivo con riserva ex art. 88, comma 1, d.p.r. n. 602/1973 anche nell'ipotesi in cui la contestazione giudiziale sia stata sollevata dal fallito e non dal curatore, dovendo tale riserva essere sciolta all'esito del giudizio instaurato dal fallito medesimo, nel senso della definitiva ammissione o dell'esclusione dal passivo secundum eventum litis (ferma restando l'inopponibilità della eventuale condanna alle spese di lite pronunciata a carico del fallito).

I residui dubbi sulla valenza extratributaria dei principi affermati dalle Sezioni Unite

Per concludere sono opportune alcune brevi notazioni sul dubbio che i principi espressi dalle Sezioni Unite abbiano o meno valenza extratributaria, ovvero in tutti i casi in cui l'iniziativa processuale non abbia ad oggetto l'impugnazione dinanzi al Giudice Tributario di un atto impositivo.

L'ordinanza interlocutoria della quinta sezione motivava la rimessione anche in ragione della “ripercussione che il principio ad affermarsi potrebbe avere anche al di fuori della materia tributaria”; ed in effetti, come detto nel paragrafo introduttivo, il problema della sussistenza e dei presupposti della capacità processuale suppletiva del fallito non riguarda esclusivamente l'impugnazione di atti impositivi, potendo interessare anche rapporti di diritto privato.

La sentenza delle Sezioni Unite, tuttavia, risolvono la questione motivando quasi esclusivamente con riferimento alla specialità dell'obbligazione tributaria, alla peculiarità del rapporto giuridico d'imposta ed alla rilevanza del correlato apparato sanzionatorio. Tanto nella motivazione quanto nei principi di diritto che vengono affermati, inoltre, si precisa ripetutamente che i principi di diritto affermati riguardano la legittimazione sostitutiva del fallito in ambito tributario.

Argomentando a contrario, dovrebbe quindi ritenersi che al di fuori della materia tributaria la legittimazione suppletiva del fallito possa continuare a ravvisarsi soltanto in presenza di un totale disinteresse del curatore e non anche in presenza di una sua inerzia consapevole.

In realtà, è quantomeno dubbio che anche al di fuori della materia tributaria non possano esservi casi nei quali il rispetto del principio sancito dall'art. 24 della Costituzione imponga di riconoscere la capacità processuale del fallito, a prescindere dalle ragioni dell'inerzia mantenuta dagli organi della procedura. D'altro canto, le Sezioni Unite erano chiamate a decidere una controversia relativa all'impugnazione di un atto impositivo dinanzi al Giudice Tributario. L'esercizio della funzione nomofilattica avrebbe consentito (e forse consigliato) di ampliare la disamina oltre tale materia; ciò tuttavia non è avvenuto, sicché sul punto permangono rilevanti margini di incertezza, che la successiva giurisprudenza avrà il compito di chiarire.



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