Danno da emotrasfusione: responsabilità contrattuale della struttura sanitaria e onere della prova

Barbara Vari
12 Settembre 2023

Nell'azione di responsabilità contrattuale per danno da infezione trasfusionale, il danneggiato non ha l'onere di provare che al momento della trasfusione non era infetto, ma spetta alla struttura sanitaria dimostrare che il paziente in quel momento era già affetto dall'infezione per cui domanda il risarcimento.

La struttura deve allegare e dimostrare di avere rispettato in concreto le norme giuridiche, le leges artis e i protocolli relativi all'attività di acquisizione e perfusione del plasma.

L'attrice cita in giudizio l'Azienda Sanitaria Locale (oggi Azienda Sanitaria Provinciale – ASP) per ottenere il risarcimento dei danni subiti a causa dell'epatite asseritamente contratta in seguito a emotrasfusione eseguita presso un ospedale pubblico locale. Il Tribunale, esperita la CTU medico-legale, accoglie la domanda; in sede di appello la decisione viene però integralmente riformata per difetto della prova del nesso di causalità materiale: da un lato la paziente non aveva provato di essere immune da epatite al momento del ricovero, quando era risultata affetta da una generica sofferenza epatica astrattamente compatibile con una infezione da epatite, dall'altro l'ASP aveva allegato di utilizzare un procedimento c.d. “a circuito chiuso”, che, secondo la rinnovata CTU, «in condizioni standard di normalità…non consentiva alcuna contaminazione».

Avverso la decisione di appello viene presentato ricorso in Cassazione - accolto - per violazione delle norme relative all'onere della prova.

La vittima di un danno da emotrasfusione ha un ventaglio di possibilità: l'indennizzo ai sensi della l. n. 210/1992 e la via della giustizia ordinaria, per ottenere il risarcimento integrale del danno, agendo in via extracontrattuale contro il Ministero della Salute e/o in via contrattuale nei confronti della struttura ospedaliera (pubblica o privata).

Nel caso che qui si commenta, in cui la danneggiata ha chiamato in causa la sola struttura sanitaria, la Suprema Corte ha modo di ripercorrere i propri principi sulla ripartizione dell'onere della prova nella responsabilità sanitaria, che è una responsabilità contrattuale sulla base del c.d. contratto atipico di spedalità per la struttura sanitaria e in virtù anche solo del contatto sociale per il medico - prima della riforma attuata con la legge n. 24/2017 (c.d. Legge Gelli-Bianco).

Secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, richiamato dalla ricorrente, l'onere probatorio per inadempimento, declinato nel caso della responsabilità sanitaria, impone al paziente danneggiato di provare l'esistenza del contratto (o del contatto sociale) e l'insorgenza o l'aggravamento della patologia e di allegare l'inadempimento del debitore, mentre spetta a quest'ultimo dimostrare (in alternativa all'esatto adempimento) che l'inadempimento non vi è stato oppure che, pur esistendo, non è stato eziologicamente rilevante (così Cass. S.U. n. 577/2008).

I Giudici di legittimità ricordano però che - a partire dall'arresto della Terza Sezione Civile n. 18392/2017 – è stato precisato che il paziente non può limitarsi ad allegare l'inadempimento ma, oltre all'esistenza del rapporto contrattuale, deve altresì provare – anche tramite presunzioni - il nesso di causalità materiale tra la condotta medica e l'aggravamento della situazione patologica o l'insorgenza di una nuova malattia. L'accertamento del nesso eziologico avviene però secondo parametri diversi da quelli seguiti nel giudizio penale: in quello civile si è, infatti, affermato il criterio del “più probabile che non”; spetterà poi al convenuto dimostrare o l'esatto adempimento o l'impossibilità della prestazione derivante da causa non imputabile.

Applicando i principi sopra enunciati nel caso in esame, in considerazione delle circostanze emerse nell'istruttoria, la Suprema Corte ravvisa la violazione dei criteri sulla ripartizione dell'onere della prova. Da un lato, la Corte di Appello ha arbitrariamente (ed erroneamente) addossato alla danneggiata l'onere di provare di non essere affetta dall'infezione al momento dell'ingresso in ospedale, non avendo valutato gli elementi dalla stessa addotti per assolvere – tramite presunzioni – la prova del nesso eziologico né messo a confronto la sua ricostruzione causale – secondo cui l'infezione era dovuta alla trasfusione – con quella della causa ignota, per stabilire la causa sulla base del criterio “del più probabile che non” (l'ASP si era limitata a dedurre il procedimento “a circuito chiuso” - che in condizioni normali avrebbe reso impossibile il contagio del sangue - senza presentare la relativa documentazione, nonostante il giudice di primo grado ne avesse ordinato la produzione).

La Corte afferma invece che «in tema di danno da infezione trasfusionale, è onere della struttura sanitaria dimostrare che, al momento della trasfusione, il paziente fosse già affetto dall'infezione di cui domanda il risarcimento». Come affermato poi di recente con riferimento alle infezioni nosocomiali (cfr. Cass., Sez. III, n. 6386/2023), la struttura sanitaria ha l'onere di allegare e dimostrare di avere tenuta una condotta irreprensibile sul piano della diligenza, provando di avere rispettato in concreto le norme giuridiche, le leges artis e i protocolli nell'attività di acquisizione e perfusione del plasma e, quindi, di averli attuati.

Per i suesposti motivi la Suprema Corte accoglie il ricorso e rinvia alla Corte di Appello di Caltanissetta, in diversa composizione, perché esamini l'atto di appello sulla base dei principi di diritto sopra richiamati.

(Fonte: Diritto e Giustizia)

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