L'inibitoria in appello: le principali novità del novellato art. 283 c.p.c.
13 Settembre 2023
Il novellato art. 283 c.p.c. tra più intensi presupposti e modificate modalità di proposizione
In attuazione della legge delega del 26 novembre 2021 n. 206 l'art. 3, ventiduesimo comma, lett. a), b) e c) del d.lgs. n. 149/2022 ha, da un lato, confermato l'istituto dell'inibitoria in appello nei riguardi dell'efficacia esecutiva della sentenza gravata o dell'esecuzione forzata attivata, per l'appunto, in virtù del titolo appellato e, dall'altro, modificatone i presupposti per la concessione anche per quanto concerne la tempistica. Invero, la legge delega prescriveva che “la sospensione dell'efficacia esecutiva o dell'esecuzione della sentenza impugnata sia disposta sulla base di un giudizio prognostico di manifesta fondatezza dell'impugnazione, o, alternativamente, sulla base di un grave e irreparabile pregiudizio derivante dall'esecuzione della sentenza anche in relazione alla possibilità di insolvenza di una delle parti quando la sentenza contiene la condanna al pagamento di una somma di denaro”, ma il legislatore delegato si è in parte discostato da questa indicazione subordinando l'accoglimento dell'istanza di sospensiva al ricorrere di un'impugnazione che appaia “manifestamente fondata o se dall'esecuzione della sentenza può derivare un pregiudizio grave e irreparabile, pur quando la condanna ha ad oggetto una somma di denaro, anche in relazione alla possibilità di insolvenza di una delle parti”. Le differenze del dettato normativo sono piuttosto evidenti, poiché i previgenti (cumulativi) “gravi e fondati motivi” sono ora sostituiti dai disgiunti “manifesta infondatezza o (…) pregiudizio grave e irreparabile (…)”, così come l'aggettivazione adoperata impone la presenza di requisiti con qualità rinforzate rispetto al passato. Dal punto di vista temporale è rimasto inalterato il momento entro il quale proporre la richiesta di inibitoria, ossia per il tramite dell'impugnazione principale o incidentale, ma, e questa rappresenta una novità di un certo rilievo, detta richiesta “può essere proposta o riproposta nel corso del giudizio di appello se si verificano mutamenti nelle circostanze (…)”. Ciò brevemente premesso, nei paragrafi che seguiranno cercheremo di delineare le coordinate delle modifiche apportate dal d.lgs. n. 149/2022 avendo in mente anche le opzioni interpretative diffusesi ante riforma, per poi spendere qualche parola anche su taluni aspetti più propriamente procedimentali. I gravi e fondati motivi a confronto con la manifesta infondatezza o il pregiudizio grave irreparabile
I presupposti in termini di gravità e fondatezza dei motivi per ottenere la sospensione vuoi dell'efficacia esecutiva o dell'esecuzione sotto l'egida del vecchio art. 283 c.p.c. sono stati il frutto della l. n. 263/2005 che, a suo tempo, riscrisse la norma in commento sostituendo l'allora sintagma “gravi motivi”. Nella consapevolezza, come è già stato osservato, che l'art. 283 c.p.c. adotti una formula elastica, sì da valorizzare le irripetibili sfaccettature del caso concreto (Monteleone, voce ‘‘Esecuzione provvisoria'', in Digesto Civ., VII, Torino, 1991, 370), prima del 2005 il punto più dibattuto, soprattutto a livello pretorio, riguardava il carattere cumulativo o alternativo del fumus e del periculum rinvenendosi pronunce che ritenevano sufficiente il solo periculum ravvisato nella difficoltà di recuperare gli importi versati in esecuzione della sentenza (App. Milano, 26 giugno 2003, in Foro It., 2004, I, 1251) e chi, invece, aderendo ad un'interpretazione più rigorosa della norma esigeva che i due profili dovessero sussistere entrambi (App. Bari, 7 luglio 2004, in Foro It., 2004, I, 241). A seguito degli interventi operati dalla riforma del 2005 una parte della dottrina ha evidenziato che la formula dei gravi e fondati motivi nel suo complesso semantico appare suscettibile di rendere più severa la delicata verifica devoluta in limine gravaminis al giudice di appello e ad avvalorare ulteriormente l'impostazione per cui prognosi di fondatezza della prospettiva di una sostanziale riforma e ponderazione dei rispettivi pregiudizi e pericula devono avvenire entrambe e, all'occorrenza, bilanciarsi secondo la metafora dei “vasi comunicanti” (Consolo, in Consolo, Luiso, Menchini, Salvaneschi, Il processo civile di riforma in riforma, Milano, 2006, 63). La giurisprudenza, dal canto proprio, si è espressa in termini di coesistenza tra la prognosi favorevole all'appellante dell'esito del giudizio di appello e il pregiudizio patrimoniale che il soccombente può subire (App. Napoli, 1° giugno 2018, in Redazione Giuffrè 2018; Trib. Monza, 29 ottobre 2013, in Redazione Giuffrè 2014; App. Genova, 14 marzo 2012, in Corr. mer., 2012, 6, 556). A chiusura di questa breve panoramica sui requisiti di applicabilità del previgente art. 283 c.p.c. non resta che fare riferimento alla “possibilità d'insolvenza di una delle parti” quale ulteriore elemento di valutazione in uno con i motivi di cui si è detto poc'anzi. Come è stato già rilevato, il merito principale di tale locuzione consiste nel rendere chiaro che il giudice d'appello deve valutare non solo il c.d. pericolo di danno da infruttuosità, consistente nel rischio di non recuperare quanto corrisposto in esecuzione della sentenza, ma anche l'eventualità che l'esecuzione provvisoria della sentenza renda o contribuisca a rendere ‘‘insolvente'' il debitore (così Cecchella, in Bove, Cecchella, Il nuovo processo civile, Milano, 2006, 10) con la precisazione che (i) la “possibilità” menzionata dalla norma è da intendersi come probabilità che una delle parti divenga insolvente per via dell'entità della prestazione oggetto del titolo esecutivo e della sua capacità patrimoniale atteso che l'insolvenza, in astratto, è sempre possibile (Impagniatiello, I provvedimenti sull'esecuzione provvisoria, in Giur.it., 2, 2019, 458); (ii) l'”insolvenza” – lemma che ha come terreno privilegiato le fattispecie afferenti le procedure concorsuali – va individuata in un generico e atecnico stato di crisi economico finanziaria (Luiso, Diritto processuale civile, II, Torino, 2017, 404; Impagniatello, I provvedimenti sull'esecuzione provvisoria, cit., 458). A livello pretorio la “possibilità d'insolvenza” è stata declinata tanto rispetto al debitore nel senso di un'effettiva probabilità che l'esecuzione della sentenza incida negativamente sul godimento di diritti fondamentali della persona o sulla sopravvivenza dell'impresa, quanto rispetto al creditore sia nell'ottica del pericolo da tardività (i.e. impossibilità di disporre delle somme o del bene oggetto della sentenza appellata che determina una lesione di un diritto fondamentale) che nell'ottica del pericolo da infruttuosità (i.e. rischio per il debitore in caso di riforma di accoglimento del gravame di non recuperare, in modo irreversibile e non ristorabile, quanto prestato in esecuzione della sentenza per via delle condizioni economiche del creditore o per l'ammontare della prestazione). Delineate sinteticamente le caratteristiche portanti della norma che qui ci occupa nella sua versione precedente la novella, è possibile, ora, individuare le differenze più immediate con il testo post riforma. In primo luogo, appare opportuno soffermarsi su quel legame di alternatività che attualmente connota i presupposti dell'inibitoria. Il dettato normativo, pur evocando il fumus boni iuris ed il periculum in mora che già erano presenti nella formulazione preesistente, non ne impone una presenza simultanea, bensì ritiene sufficiente la sussistenza anche di uno solo di essi. Autorevole dottrina non ha mancato di rilevare come un conto sia sostenere che i due requisiti “giochino un ruolo di compresenza” pur valutandone l'intensità in modo inversamente proporzionale - nel senso che ove maggiore appaia la probabilità di riforma della sentenza appellata tanto meno grave è necessario che sia il pregiudizio derivante dall'esecuzione e, viceversa, quanto maggiore è quest'ultimo tanto meno stringente dovrà essere la consistenza del fumus – altro è stabilire che sia sufficiente il ricorrere di uno solo dei noti elementi ben potendo l'altro essere “stimabile in misura pari a zero” (Ronco, Il giudizio di appello e le disposizioni sulle impugnazioni in generale, in Giur.it., 3, 2023, 726). Altri studiosi, invece, pur nella chiara alternatività imposta dalla legge, non credono che la modalità valutazione dei presupposti necessari per la concessione dell'inibitoria basata sino ad ora su un equo bilanciamento degli stessi secondo la nota metafora dei vasi comunicanti possa ritenersi superata, sicché anche a fronte della novella la maggior forza dell'uno può essere compensata con la più debole incidenza dell'altro a meno che non si ravvisi la presenza di un solo presupposto “nella sua massima espansione” (Salvaneschi, L'appello riformato, in Judicium, 2 maggio 2023, 12). In secondo luogo, i previgenti gravi e fondati motivi si sono tramutati, rispettivamente, nella manifesta fondatezza e nel pregiudizio grave e irreparabile con una palese aumentato livello di intensità della nuova formulazione sui cui contorni non resterà che attendere le prime pronunce ad opera delle corti d'appello. Un ulteriore profilo di cui tenere conto, diverso rispetto al passato, attiene alla sentenza di condanna al pagamento di una somma di denaro riferita al pregiudizio grave e irreparabile. L'utilizzo dell'espressione “pur quando” sta ad indicare – divergendo dalla legge delega ove ineriva alla possibilità di insolvenza – che nella menzionata fattispecie la gravità e irreparabilità del periculum dovrà essere vagliata anche in presenza di un capo condannatorio pecuniario, che tradizionalmente è un bene fungibile la cui astratta possibilità di restituzione rende, in assenza di specifiche previsioni normative di segno contrario, sempre non irreparabile il pregiudizio derivante dal pagamento. Quanto alla “possibilità di insolvenza di una delle parti” possiamo ragionevolmente richiamare le considerazioni svolte sopra evidenziando che l'art. 283 c.p.c. ricollega l'insolvenza anche all'esecuzione o alla mancata esecuzione di altre obbligazioni e non necessariamente alla corresponsione di denaro. La proposizione (e la riproposizione) dell'istanza inibitoria
Il secondo comma dell'art. 283 c.p.c. recita “L'istanza di cui al primo comma può essere proposta o riproposta nel corso del giudizio di appello”. Se, dunque, nel vigore del testo previgente l'inibitoria poteva essere proposta soltanto negli atti introduttivi la riforma Cartabia consente di rivolgere la domanda di sospensiva per la prima volta oppure anche successivamente ad un iniziale rigetto lungo tutto l'arco del processo di secondo grado a patto che “si verificano mutamenti nelle circostanze, che devono essere specificamente indicati nel ricorso a pena di inammissibilità”. La lettera della disposizione ricorda quel mutamento delle circostanze ex art. 669-decies c.p.c. che consente la revoca o la modifica della misura cautelare senza includere, però, la c.d. sopravvenienza conoscitiva (prevista nell'art. 669-decies c.p.c.), ossia la successiva scoperta di elementi idonei a giustificare la pronuncia modificativa in relazione alla quale, però, è già stato osservato che ben potrebbe rilevare, pur nel silenzio dell'art. 283 c.p.c., anche per l'inibitoria in appello (Ronco, Il giudizio di appello e le disposizioni sulle impugnazioni in generale, cit., 727). In altri termini, dunque, qualora l'appellante proponga la sospensiva oltre il termine per la presentazione dell'appello principale o incidentale dovrà giustificare, a pena di inammissibilità, la propria istanza, per così dire tardiva, nel senso poc'anzi menzionato. Ciò vale, per espressa previsione normativa, anche nei casi in cui l'appellante, dopo un iniziale rigetto, ritenti la strada dell'inibitoria nel corso dell'appello costituendo quest'ultima una novità di non poco conto rispetto al passato atteso che l'ordinanza ex art. 351 c.p.c. non è reclamabile. Sulla facoltà di riproposizione sono stati sollevati ragionevoli dubbi circa il rispetto della parità delle armi Ronco, Il giudizio di appello e le disposizioni sulle impugnazioni in generale, cit., 727). In proposito, come è già stato autorevolmente notato (Salvaneschi, L'appello riformato, cit., 13), vi sarebbe un ingiustificabile disparità di trattamento qualora non si consentisse alla parte appellata di chiedere una modifica o revoca dell'inibitoria precedentemente concessa al mutare delle circostanze. Se è vero che le ordinanze qualificate espressamente come non impugnabili non possono essere modificate o revocate ex art. 177 c.p.c. e, quindi, all'appellato soccombente sulla sospensiva sarebbe preclusa una seconda chance, bisognerebbe giustificare perché l'inibitoria negata con ordinanza non impugnabile ex art. 351 c.p.c. possa essere, di fatto, modificata o revocata mediante la riproposizione prevista dal novellato art. 283 c.p.c., mentre invece tale possibilità sarebbe preclusa in capo all'appellato. Delle due l'una, o l'art. 177 c.p.c. vale per tutti (ma così non è perché la nuova norma consente all'appellante la citata riproposizione) oppure deve escludersene l'applicabilità per questa particolare fattispecie (dunque, anche in favore dell'appellato). La disciplina procedimentale dell'inibitoria
Le modalità di trattazione del giudizio di appello come risultanti dal neo art. 349-bis c.p.c. e dal riscritto art. 350 c.p.c., che in buona sostanza prevedono una sorta di doppio binario in seno alla corte d'appello (i.e. trattazione collegiale con relatore oppure nomina del giudice istruttore) si riverberano nella gestione della richiesta di sospensiva. Con la premessa che i “provvedimenti sull'esecuzione provvisoria sono adottati con ordinanza collegiale” (art. 351 c.p.c.), le alternative sono essenzialmente due, ossia qualora la prima udienza sia affidata – come accadeva sino al 28 febbraio 2023 – alla trattazione collegiale (oppure il giudice di secondo grado sia il tribunale) nulla varia rispetto al passato; in esito all'udienza di discussione il collegio (o il giudice monocratico se l'appello è incardinato avanti il tribunale) pronuncerà un'ordinanza non impugnabile di segno positivo o negativo. Qualora, invece, sia stato nominato l'istruttore quest'ultimo, che non ha in materia potere decisorio, dovrà coordinarsi con il collegio, il quale, verosimilmente, in esito all'udienza tenuta dal giudice istruttore, si pronuncerà con ordinanza che verrà resa in un momento successivo. Il sistema conserva la possibilità per l'appellante di chiedere che la decisione sulla sospensione venga adottata anteriormente alla prima udienza. Oggi come ieri – seppur dovendo tenere conto della figura del relatore – il presidente del collegio della corte d'appello o il tribunale, qualora ricorrano “giusti motivi d'urgenza”, potranno disporre l'inibitoria con decreto inaudita altera parte e, poi, in camera di consiglio (il terzo comma seconda parte dell'art. 351 c.p.c. non brilla per chiarezza espositiva) – cioè ragionevolmente in un'apposita udienza che è la medesima nella quale le parti sarebbero dovute comparire in caso di rigetto della sospensiva urgente – confermare, modificare o revocare il decreto. Per converso, ove il presidente o il tribunale non ritengano sussistano i requisiti per una decisione immediata fissano, rispettivamente, l'udienza di comparizione avanti l'istruttore o a sé. Il dettato normativo non si dilunga nel disciplinare l'ipotesi in cui non sia stato nominato l'istruttore ex art. 349-bis c.p.c.; è ragionevole supporre che il contraddittorio a seguito del rigetto del provvedimento richiesto inaudita altera parte avverrà presso il presidente o il relatore. Nell'ipotesi in cui, invece, il relatore sia stato effettivamente nominato si ripropone il coordinamento con il collegio di cui si è detto poc'anzi. Il quarto comma dell'art. 351 c.p.c. si chiude prevedendo un meccanismo decisorio accelerato che dalla prima udienza afferente l'inibitoria passa, qualora la causa venga ritenuta matura per la decisione, direttamente alla discussione orale ex art. 281-sexies c.p.c., con un distinguo. Se è stato l'istruttore a trattare la sospensiva è il collegio che accogliendola o rigettandola fissa un'ultima (diremmo una seconda) udienza avanti a sé per la precisazione delle conclusioni e la discussione orale preceduta dal deposito di note conclusionali. Diversamente, se l'istruttore non è stato designato (l'art. 349-bis c.p.c. ci sembra facoltizzi e non imponga la nomina dell'istruttore) il collegio potrebbe, nella stessa udienza in cui si pronunci sull'inibitoria, disporre direttamente la discussione orale. In tale evenienza, e la lacunosità del testo non ci agevola, non ci è chiaro se il collegio debba necessariamente assegnare un termine per le note conclusionali o possa prescindere dalle stesse. Conclusioni
La parziale riscrittura dell'art. 283 c.p.c. – la cui applicazione pratica saggeremo con le prime pronunce in sede d'appello – a nostro sommesso avviso mostra una certa propensione all'allargamento degli spazi per la concessione dell'inibitoria. La struttura alternativa dei presupposti (un tempo congiunti) seppure intrinsecamente più intensi (ma forse neppure troppo rispetto al passato) unitamente al superamento della tradizionale irrilevanza, ai fini dell'irreparabilità del pregiudizio, della condanna al pagamento di una somma di denaro (per definizione bene fungibile e sempre reintegrabile per equivalente) sembra suggerire una maggiore attenzione da parte del legislatore delegato per l'appellato. Tale impressione potrebbe essere avvalorata dal fatto che solo a quest'ultimo e non anche l'appellante è attribuita la facoltà di riproporre in corso di causa la domanda di sospensiva precedentemente rigettata. D'altro canto, però, se quanto appena osservato potrebbe persuadere da un punto di vista astratto, non nascondiamo che, in concreto, ove l'esegesi pretoria fosse particolarmente rigorosa nel valutare la singola magnitudo dei nuovi presupposti si potrebbe concludere in senso contrario rispetto a quanto detto poc'anzi, nel senso che riuscire, ad esempio, a far ritenere il gravame proposto manifestamente fondato pare un'impresa non da poco se sol si ricordano le difficoltà che si sono incontrate nel vagliare il più tenue elemento della “ragionevole probabilità” di accoglimento prevista dalla versione (abrogata) dell'art. 348-bis c.p.c. introdotta dalle legge 7 agosto 2012 n. 134. E, dunque, quella che ad una prima lettura poteva sembrare un'agevolazione per l'appellante potrebbe, invece, tradursi in un risultato pratico opposto rispetto a quello, forse, immaginato dai conditores. Riferimenti
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