Infortunio sul lavoro: la responsabilità civile del datore in caso di lesioni fisiche occorse al lavoratore domestico

14 Settembre 2023

Il verificarsi di un infortunio sul lavoro o di una malattia professionale fa presumere la responsabilità del datore di lavoro, che rimane esente da colpa solo se prova di aver adempiuto l'obbligo di sicurezza, ossia di aver adottato tutte le misure prescritte.

La massima

La responsabilità datoriale conseguente alla violazione delle regole dettate in materia di tutela della salute e sicurezza sul lavoro ha natura contrattuale; cosicché il lavoratore che agisce contro il proprio datore di lavoro deve allegare e provare il rapporto di lavoro, l'attività svolta, l'evento dannoso e le conseguenze che ne sono derivate, senza obbligo di individuare le regole violate, né le misure cautelari da adottate da parte del datore di lavoro, su cui grava l'onere di provare di aver ottemperato all'obbligo di protezione.

Il caso

Una lavoratrice domestica, mentre era intenta al lavoro su una scala per procedere alla rimozione di alcune tende, cadeva al suolo, procurandosi delle lesioni fisiche; successivamente la stessa chiamava in giudizio il proprio datore di lavoro, chiedendone la condanna al risarcimento del danno subito, che veniva negato sia dal Tribunale sia dalla Corte territoriale, secondo cui la lavoratrice non aveva fornito la prova che l'incidente si fosse verificato a causa dell'inadempimento dell'obbligo, che grava sul datore di lavoro, di adottare tutte le cautele necessarie per impedire la caduta dall'alto.

Secondo i giudici di merito la lavoratrice non aveva provato che l'operazione di smontaggio fosse stata eseguita su preciso ordine del datore di lavoro, nonostante la sua assenza e che lo scaleo usato fosse privo di una base stabile o antiscivolamento; come anche era rimasta incerta l'effettiva presenza di un tappeto, sul quale lo scaleo sarebbe scivolato, il quale poteva comunque essere facilmente rimosso dall'infortunata.

Con tre distinti motivi di ricorso la lavoratrice chiedeva l'annullamento con rinvio della sentenza, dolendosi che il giudice di merito avesse invertito l'onere della prova e negato il risarcimento, pur avendo essa allegato e dimostrato l'esistenza del rapporto di lavoro, dell'infortunio e del nesso di causalità tra l'impiego dello scaleo e il danno subito, cosicché doveva essere il datore di lavoro a dimostrare di aver adottato tutte le misure cautelari individuate secondo il principio della massima sicurezza tecnologicamente possibile. In sostanza, la lavoratrice evidenziava che stava eseguendo la propria prestazione lavorativa, svolgendo una delle mansioni che richiedeva l'utilizzo della scala messa a disposizione del datore di lavoro, che medio tempore si allontanava omettendo di vigilare e indicare specifiche prescrizioni in sua assenza e la stessa non poneva in essere una condotta caratterizzata da abnormità, inopinabilità, né avulsa dalla prestazione lavorativa, non spettando a lei dimostrare la mancata specificazione delle misure di sicurezza adottabili.

La questione

La questione esaminata dalla Cassazione è la seguente:

ai sensi degli artt. 1218 e 2087 c.c., in caso di infortunio sul lavoro, una volta che il lavoratore domestico abbia allegato e provato l'esistenza dell'obbligazione lavorativa, del danno ed il nesso causale di questo con la prestazione, spetta al datore di lavoro provare che il danno è dipeso da causa a lui non imputabile e cioè di avere adempiuto al suo obbligo di sicurezza, apprestando tutte le misure per evitare il danno?

La soluzione giuridica

La Suprema Corte accoglie il ricorso, ricordando, innanzi tutto, che il datore di lavoro risponde degli eventi lesivi occorsi al lavoratore sulla base delle regole della responsabilità contrattuale, fondata sull'

art. 2087 c.c., che presuppone la dimostrazione della colpa, ossia la violazione di una disposizione di legge o di un contratto o di una regola di esperienza.

Poiché in caso di infortunio sul lavoro trova applicazione anche la regola di cui all'art. 1218 c.c., spiega la Corte, “grava sul datore "debitore di sicurezza" l'onere di provare di aver ottemperato all'obbligo di protezione, mentre il lavoratore creditore deve provare sia la lesione all'integrità psico-fisica, sia il nesso di causalità tra tale evento dannoso e l'espletamento della prestazione lavorativa”.

Dunque, chiarisce la Corte, non spetta “al lavoratore provare la colpa del datore danneggiante, né individuare le regole violate, né le misure cautelari che avrebbero dovuto essere adottate per evitare l'evento dannoso”.

Infatti, una volta che si verifica un infortunio sul lavoro o una malattia professionale si presume la colpa del datore di lavoro, cioè la violazione del T.U. n. 81/2008 o dell'art. 2087 c.c. e di tale violazione il datore non risponde solo se prova di aver adempiuto l'obbligo di sicurezza, adottando tutte le prescrizioni specificamente dettate dalla legge, oltre che a quelle suggerite dalla esperienza, dall'evoluzione tecnica e dalla specificità del caso concreto, come la valutazione dei rischi, l'organizzazione dell'apparato di sicurezza, l'informazione, la formazione, l'addestramento dei lavoratori, l'adozione di tutte le misure di sicurezza, la vigilanza.

Applicati tali principi alla fattispecie concreta la Cassazione annulla la sentenza della Corte territoriale, colpevole di aver invertito l'onere della prova sulla colpa, poiché spettava al datore di lavoro e non alla lavoratrice, allegare e provare nel giudizio di averle ordinato di non provvedere a quella mansione in sua assenza e nelle circostanze date (con un tappeto sotto la scala) e di averla dotata di una scala idonea in quanto rispondente a tutte le prescrizioni di sicurezza (sia per le sue caratteristiche intrinseche, sia per il suo posizionamento e le modalità di utilizzo nell'ambiente dato).

Infine, la Cassazione, corroborato il proprio ragionamento richiamando due autorevoli sentenze di legittimità (Cass. 14 aprile 2008, n. 9817; Cass. 19 giugno 2020, n. 12041), conclude affermando che la lavoratrice doveva provare soltanto "il fatto costituente l'inadempimento" (da intendersi come il fatto dell'infortunio sul lavoro), ma non doveva provare certo la colpa del datore (ovvero appunto la sussistenza dell'inadempimento del datore di lavoro agli obblighi di sicurezza).

Osservazioni

L'ordinanza in esame rilancia quell'orientamento giurisprudenziale di legittimità, che ha affermato la prova presuntiva della colpa del datore di lavoro in ipotesi d'inadempimento degli obblighi di sicurezza, in base al quale “il riparto degli oneri probatori nella domanda di danno da infortunio sul lavoro si pone negli stessi termini che nell' art. 1218 c.c. , sull'inadempimento delle obbligazioni; da ciò discende che il lavoratore che agisca per il riconoscimento del danno differenziale da infortunio sul lavoro, deve allegare e provare la esistenza dell'obbligazione lavorativa, del danno, ed il nesso causale di esso con la prestazione, mentre il datore di lavoro deve provare che il danno è dipeso da causa non imputabile, e cioè deve avere adempiuto al suo obbligo di sicurezza, apprestando tutte le misure per evitare il danno” ( Cass. 24 febbraio 2006, n. 4184; Cass. 10 gennaio 2007, n. 238; Cass. 8 maggio 2007, n. 10441; Cass. 7 aprile 2008, n. 8973; Cass. n. 10529/2008; Cass. 14 aprile 2008, n. 9817).

Tuttavia, accanto a tale orientamento, se ne segnala un altro che impone al lavoratore vittima di un infortunio di allegare e dimostrare la nocività dell'ambiente di lavoro, nel senso che “incombe al lavoratore che lamenti di avere subìto, a causa dell'attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l'onere di provare, oltre all'esistenza di tale danno, la nocività dell'ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l'una e l'altra, e solo se il lavoratore abbia fornito tale prova sussiste per il datore di lavoro l'onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno” (Cass. 19 maggio 2023, n. 13806; Cass. n. 1509/2021; Cass. n. 23921/2020; Cass. nn. 24742 e 26495/2018).

In altre sentenze, la Cassazione, pur avvalendosi del medesimo principio di diritto posto a fondamento della sentenza in esame, non ha escluso in capo al lavoratore l'onere di allegare e provare, oltre all'esistenza di tale danno, la nocività dell'ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l'una e l'altra (Cass. n. 1045/2018; Cass. n. 1918/2015; Cass. n. 22827/2014; Cass. n. 26293/2013).

Sembra sussistere, allora, in seno alla Sezione lavoro della Cassazione, un contrasto che meriterebbe di essere risolto, a questo punto, con un intervento chiarificatore delle Sezioni unite.

Infine, si osserva che la Cassazione fonda la responsabilità del datore di lavoro domestico sulla violazione dell'art. 2087 c.c. e degli obblighi dettati nel T.U. n. 81/2008, sebbene gli addetti ai servizi domestici e familiari ne siano estromessi dall'ambito di applicazione, essendo espressamente esclusi dalla definizione di lavoratore (art. 2, comma 1, lett. a), d.lgs. n. 81/2008; in precedenza art. 2, comma 1, lett. a), d.lgs. n. 626/1994) e in dottrina si sia dubitato in ordine all'applicazione agli infortuni domestici dell'art. 2087 c.c. che si riferisce alla figura dell'imprenditore e non a quella del datore di lavoro, trattandosi di prestazione di lavoro inserita nell'ambito di un'organizzazione non produttiva, prestata per esigenze personali o familiari (sull'applicazione dell'art. 2087 c.c. cfr. Romei, Il campo di applicazione del decreto legislativo 626 del 1994 e i soggetti, in M. Montuschi (a cura di), Ambiente, salute e sicurezza, Torino, 1996; Smuraglia, La sicurezza del lavoro e la sua tutela penale, Milano, 1974, p. 76).

Attualmente l'unica norma che assicura la sicurezza nel lavoro domestico si rinviene nella legge, oramai datata, posta a sua tutela, laddove è stabilito che il datore di lavoro fornisca al lavoratore un ambiente che non sia nocivo alla sua integrità fisica e morale (art. 6, l. 2 aprile 1958, n. 339).

In passato, la Cassazione penale, in un caso analogo a quello deciso con la sentenza in esame, riguardante una caduta da una scala sprovvista di idonei ganci di trattenuta e di appoggi antisdrucciolevoli, non adeguatamente assicurata e non trattenuta al piede da altra persona, per superare l'esclusione degli addetti ai lavori domestici dall'ambito operativo del d.lgs. 19 settembre 1994, n. 626, confermava la condanna inflitta al datore di lavoro applicando le norme di prevenzione degli infortuni contenute nel d.P.R. 27 aprile 1955, n. 547, all'epoca non ancora abrogate (Cass. pen. 24 aprile 2003, n. 34464).

Nonostante l'esclusione dall'ambito di applicazione del T.U. n. 81/2008 degli addetti ai lavori domestici, anche in questo caso la Cassazione ha voluto estendere a questi lavoratori la medesima protezione che l'ordinamento assicura a tutti gli altri lavoratori, lasciando però insoluti i dubbi prospettati in dottrina.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.