Licenziamento per rifiuto della trasformazione del rapporto in part-time: legittimo solo se la richiesta datoriale è giustificata da ragioni oggettive

Emanuele Licciardi
26 Settembre 2023

Nel caso qui analizzato, la Suprema Corte di Cassazione ribadisce le caratteristiche che debba assumere l'intento ritorsivo datoriale affinché lo stesso possa inficiare il licenziamento comminato al lavoratore per ragioni organizzative e stabilisce a quali condizioni un provvedimento espulsivo attuato nei confronti del dipendente a seguito del rifiutato alla trasformazione del proprio rapporto da tempo pieno a parziale possa essere considerato dettato da un tale motivo illecito o in violazione di legge.
Massima

La previsione dell'art. 8, comma 1, d.lgs. n. 81/2015 (che abroga l'art. 55 d.lgs. n. 61/2000), se esclude che il rifiuto da parte del lavoratore di trasformare il proprio rapporto di lavoro in part-time possa costituire, di per sé, un giustificato motivo di licenziamento, non preclude, in senso assoluto, la facoltà di recesso quale conseguenza di tale rifiuto, ma comporta una rimodulazione del giustificato motivo addotto e dell'onere della prova posto a carico del datore di lavoro. In particolare, questi dovrà dimostrare le esigenze economiche e organizzative che non consentano il mantenimento della prestazione a tempo pieno, l'avvenuta proposta al dipendente della trasformazione a tempo parziale del rapporto e il rifiuto da parte dello stesso di aderire a una tale proposta, nonché il nesso causale tra le esigenze di riduzione dell'orario e il licenziamento.

Il caso

La fattispecie in esame riguarda il licenziamento comminato da una piccola impresa a una lavoratrice per giustificato motivo oggettivo. Il provvedimento è stato inizialmente dichiarato illegittimo dal Tribunale di Vasto che, in applicazione del disposto di cui all'art. 8 legge n. 604/1966, ha condannato con ordinanza la società al pagamento di un'indennità in favore della dipendente, in alternativa alla riassunzione della stessa, pari a cinque mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto. A tale decisione si è opposta la dipendente, domandando la declaratoria di nullità o inefficacia del licenziamento che, tuttavia, il medesimo Tribunale ha rigettato con la propria sentenza n. 2/2020.

Più precisamente, quest'ultima rilevava come all'interno dell'unico punto vendita della società (un supermercato) si fosse determinata una condizione di sovradimensionamento della popolazione lavorativa causata dal fatto che, in virtù di una riorganizzazione dei costi, i proprietari della stessa avessero deciso di prestare attività presso l'esercizio in prima persona. A seguito di tale decisione, era stato chiesto ai tre dipendenti del punto vendita di trasformare il proprio rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale al fine di evitare che il rapporto di uno di essi risultasse in esubero. Non avendo tale proposta trovato l'assenso di tutti i lavoratori, la società ha licenziato la ricorrente per giustificato motivo oggettivo, in quanto addetta al reparto ortofrutta, a differenza degli altri lavoratori assegnati al reparto salumeria. La ricorrente, visto il diniego precedentemente prestato alla trasformazione del rapporto, ha ritenuto che il provvedimento fosse stato comminato con finalità ritorsive.

Successivamente, la dipendente ha deciso di adire la Corte d'Appello di L'Aquila, poiché riteneva che il Tribunale, nella sua sentenza, non avesse riconosciuto tale natura ritorsiva, né l'inefficacia del licenziamento comminatole. La Corte territoriale, tuttavia, ha confermato il decisum del Tribunale.

Avverso tale sentenza, pertanto, la dipendente ha proposto ricorso innanzi alla Suprema Corte di Cassazione.

Le questioni

La ricorrente ha, innanzitutto, censurato la sentenza impugnata nella parte in cui essa ha negato la natura ritorsiva del licenziamento, ritenendo, invece, validamente esperito il tentativo di repêchage di cui è onerato il datore di lavoro attraverso la proposta, da parte della società datrice, di riduzione dell'orario lavorativo. In particolare, la dipendente ha ritenuto dovesse trovare applicazione il dettato dell'art. 8, comma 1, d. lgs. n. 81/2015, in virtù del quale “il rifiuto del lavoratore di trasformare il proprio rapporto di lavoro a tempo pieno in rapporto a tempo parziale, o viceversa, non costituisce giustificato motivo di licenziamento”, e che il datore di lavoro non avesse assolto all'onere di dimostrare l'esistenza di effettive esigenze tecnico-organizzative in base alle quali la prestazione in argomento non potesse essere mantenuta a tempo pieno.

Inoltre, la dipendente ha domandato la declaratoria di nullità della sentenza pronunciata dalla Corte d'Appello in quanto i fatti addotti dalla società come motivo oggettivo del licenziamento sarebbero stati insufficienti a giustificarlo, nonché per aver travisato il significato delle allegazioni, contenute nel ricorso introduttivo di primo grado, sulla base delle quali la Corte avrebbe valutato – erroneamente – verosimile la contrazione di lavoro e l'impossibilità per il datore di mantenere tutti i contratti full-time allora in essere.

Le soluzioni giuridiche

La Suprema Corte ha analizzato le doglianze della lavoratrice, partendo dal riferimento normativo di cui all'art. 8, comma 1, d.lgs. n. 81/2015, in virtù del quale “il rifiuto del lavoratore di trasformare il proprio rapporto di lavoro a tempo pieno in rapporto a tempo parziale, o viceversa, non costituisce giustificato motivo di licenziamento”. In tale contesto, ove il datore di lavoro intenda procedere legittimamente con il licenziamento per giustificato motivo oggettivo dei dipendenti che abbiano rifiutato una tale proposta, quest'ultimo è gravato dell'obbligo di dar prova:

(i) delle effettive esigenze economiche e organizzative che abbiano portato all'impossibilità di mantenere le relative prestazioni a tempo pieno, rendendone necessaria la riduzione oraria;

(ii) del fatto che la proposta di riduzione oraria sia effettivamente avvenuta e del conseguente rifiuti dei dipendenti coinvolti;

(iii) del nesso causale tra le esigenze della riduzione dell'orario e la comminazione del licenziamento come conseguenza del rifiuto del primo.

Con specifico riguardo alle motivazioni del licenziamento oggetto della decisione, gli Ermellini hanno, inoltre, stabilito che la doglianza della ricorrente, la quale riteneva che fosse stato il rifiuto della trasformazione del rapporto a giustificarne il licenziamento, dovesse ritenersi una mera “componente del più ampio onere di prova del datore, che comprende le ragioni economiche da cui deriva l'impossibilità di continuare a utilizzare la prestazione a tempo pieno e l'offerta del part-time rifiutata”. A ben vedere, dunque, il diniego ricevuto dalla dipendente è nient'altro che una mera estrinsecazione della oggettiva necessità – dovuta a motivazione economiche effettive – che hanno portato il datore a tentare vie alternative che consentissero la riduzione delle spese per il personale della società a fronte di una contrazione della produttività aziendale, della quale quest'ultimo è chiamato a dare prova per liberarsi dall'eventuale responsabilità della cessazione illegittima del rapporto di lavoro con la ricorrente.

Infatti, prosegue la Suprema Corte nell'ordinanza in esame, “il licenziamento in argomento non è intimato a causa del rifiuto ma a causa della impossibilità di utilizzo della prestazione a tempo pieno e del rifiuto di trasformazione del rapporto in part-time”. Quanto appena riportato – proseguono gli Ermellini – non esclude immediatamente l'identificazione dell'intento ritorsivo del licenziamento quale conseguenza del rifiuto in discussione. Ciò, poiché – come desumibile anche da altra giurisprudenza di legittimità – la nullità del licenziamento può affermarsi solo se l'intento ritorsivo datoriale abbia avuto efficacia determinante esclusiva, anche rispetto ad altri fatti rilevanti ai fini della configurazione di una giusta causa o di un giustificato motivo di recesso, con onere probatorio che ricade sul lavoratore e che può essere assolto anche mediante presunzioni. Di contro, il fatto che il datore di lavoro non sia in grado di provare l'esistenza del giustificato motivo di recesso, potrebbe essere considerato come elemento indicativo del carattere ritorsivo del licenziamento.

Il caso di specie – spiegano i giudici di legittimità – non integra le previsioni appena riportate.

Ciòin quanto l'esistenza di un oggettivo motivo posto a giustificazione del licenziamento deriva da una valutazione di merito che solo il giudice territoriale o d'appello può essere chiamato a effettuare – e rispetto al quale, nel relativo grado di giudizio, è stato chiarito che non vi fosse un intento ritorsivo (unico e determinante) legato alla decisione espulsiva del datore di lavoro.

Per queste motivazioni, la Suprema Corte ha ritenuto di non poter accogliere le domande della ricorrente, respingendone il ricorso.

Osservazioni

Nel caso appena esposto, la Suprema Corte, nel ribadire le caratteristiche che debba assumere l'intento ritorsivo datoriale affinché lo stesso possa radicalmente inficiare il provvedimento comminato per ragioni – formalmente – organizzative al lavoratore, statuisce, con riguardo al licenziamento per motivo oggetto del dipendente che ha rifiutato la trasformazione del proprio rapporto da tempo pieno e parziale, che una tale condotta datoriale non determini, automaticamente, la declaratoria di nullità del provvedimento espulsivo, con le relative conseguenze reintegratorie.

Tale statuizione ha il pregio di fornire all'interprete dei chiari argini – anche con riguardo alla ripartizione dell'onere probatorio incombente sulle parti – entro i quali poter determinare la legittimità della condotta datoriale, evitando automatismi, in realtà, non consentiti da una rigorosa interpretazione del dettato dell'art. 8, comma 1, d.lgs. n. 81/2015.

Gli Ermellini, infatti, hanno cura di chiarire che, pur in presenza della predetta norma, un provvedimento espulsivo comminato per ragioni organizzative nei confronti del lavoratore che abbia rifiutato la trasformazione dal proprio rapporto di lavoro a tempo parziale non sia, in re ipsa, nullo in quanto dettato da motivo illecito determinante.

In presenza, dunque, di motivazioni economiche od organizzative dalle quali scaturisca la necessità di ridurre l'orario del personale, il rifiuto del lavoratore a una tale trasformazione ben può giustificare il licenziamento dello stesso per ragioni oggettive. Affinché possa, invece, affermarsi la nullità del medesimo provvedimento occorre che l'intento ritorsivo datoriale abbia avuto efficacia determinante esclusiva, anche rispetto ad altri fatti rilevanti ai fini della configurazione del giustificato motivo di recesso, con onere probatorio che ricade al riguardo sul lavoratore. Peraltro, anche l'eventuale mancata prova dell'esistenza del giustificato motivo di recesso addotto da parte datoriale – con conseguente illegittimità del recesso stesso - può soltanto costituire indizio del carattere ritorsivo del licenziamento, ma non piena prova dello stesso.

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