Riforma processo civile: le preclusioni in caso di mutamento del rito
27 Settembre 2023
Inquadramento
La Riforma Cartabia attuata con il d.lgs. n. 149/2022, applicabile (per quanto interessa in questa sede) ai procedimenti instaurati successivamente al 28-2-2023, ha, da un lato, ridisegnato la struttura e le scansioni processuali del rito ordinario, in un'ottica palesemente acceleratoria, e, dall'altro, sostituito il rito sommario di cognizione di cui agli artt. 702-bis-702-quater c.p.c. (abrogati) con il nuovo rito semplificato di cognizione ex artt. 281-decies-281-terdecies c.p.c. Quest'ultimo, in particolare, ha visto ampliato il proprio ambito applicativo (esteso ai giudizi dinanzi al giudice di pace ex art. 316 c.p.c. e a quelli di competenza del tribunale in composizione collegiale) e mutato il tradizionale rapporto con il rito ordinario, rispetto al quale quello semplificato non risulta più solo alternativo ma addirittura prevalente qualora ricorrano le ipotesi delineate dal comma 1 dell'art. 281-decies c.p.c. (ossia quando i fatti di causa non sono controversi, oppure quando la domanda è fondata su prova documentale, o è di pronta soluzione o richiede un'istruzione non complessa). La recente riforma del processo civile ha regolamentato anche il passaggio dal rito ordinario al rito semplificato, sostituendo interamente l'art. 183-bis c.p.c., nonché l'ipotesi inversa della conversione del rito semplificato in rito ordinario, ora disciplinata dall'art. 281-duodecies c.p.c., adattando il meccanismo ed i presupposti del mutamento del rito al nuovo rapporto “equiordinato” delineato tra i due riti. Nel nuovo contesto normativo occorre allora accertare quali eventuali preclusioni processuali siano configurabili nel passaggio da un rito all'altro, risultando in proposito utili gli orientamenti già espressi dalla giurisprudenza di legittimità in relazione al rapporto tra rito ordinario e rito sommario di cognizione. Preclusioni in caso di mutamento del rito semplificato in rito ordinario
In relazione al procedimento semplificato di cognizione, il comma 1 dell'art. 281-duodecies c.p.c. disciplina il potere del giudice di procedere al mutamento del rito, disponendo che la relativa statuizione debba essere adottata, alla prima udienza, in due ipotesi, ossia se il giudice: 1) rileva che per la domanda principale o per quella riconvenzionale non ricorrono i presupposti di cui al comma 1 dell'art. 281-decies c.p.c., nel senso che tali presupposti sono del tutto assenti; 2) ritiene che la causa debba essere trattata con il rito ordinario “valutata la complessità della lite e dell'istruzione probatoria”. Tale seconda ipotesi, che costituisce una sorta di “clausola di salvezza”, ricorre: a) nel caso in cui alcuni dei presupposti di cui al comma 1 dell'art. 281-decies c.p.c. siano presenti, e tuttavia la controversia appare di complessa istruttoria e/o definizione: ad es., nonostante la natura esclusivamente documentale delle prove, il giudice potrebbe essere indotto al mutamento del rito in quanto i fatti restano controversi oppure in ragione del cumulo delle cause, della pluralità delle parti, dell'entità delle questioni da decidere, della molteplicità dei documenti da esaminare, etc.; b) nel caso di cui al comma 2 del medesimo art. 281-decies c.p.c., ossia quando l'attore, nelle cause rimesse al tribunale monocratico, ha proposto la domanda con il rito semplificato anche al di fuori delle ipotesi di cui al comma 1. L'ordinanza di mutamento del rito è “non impugnabile”, come già previsto dal comma 3 dell'art. 702-ter c.p.c. In proposito, proprio in relazione a tale ultima norma, la giurisprudenza ha avuto modo di precisare che la scelta di mutare il rito rientra nella discrezionalità del giudice, il quale è tenuto a verificare, in relazione all'intero complesso delle difese svolte, se la controversia sia compatibile con un'istruttoria semplificata (Cass. civ., 10 maggio 2022, n. 14734), posto che la verifica della compatibilità tra istruzione sommaria propria del procedimento di cui agli artt. 702-bis e ss. c.p.c. e fattispecie concretamente portata in giudizio va effettuata con riferimento non alle sole deduzioni probatorie formulate dalle parti (come invece sembrerebbe ricavarsi dal richiamo letterale alla “istruzione non sommaria” di cui al comma 3 dell'art. 702-bis c.p.c.), bensì all'intero complesso delle difese ed argomentazioni che vengono svolte in quel dato giudizio, tenendo conto, tra l'altro, della complessità della controversia, nonché del numero e della natura delle questioni in discussione (Cass. civ., 14 marzo 2017, n. 6563). In linea con tale interpretazione pretoria, l'ultimo periodo del comma 1 dell'art. 281-duodecies c.p.c. rimette ora al giudice la valutazione prognostica della complessità della lite, oltre che dell'istruzione probatoria, ai fini di una eventuale statuizione di mutamento del rito, conformemente, peraltro, a quanto già disposto dall'art. 183-bis c.p.c. in relazione all'ipotesi inversa di passaggio dal rito ordinario al rito sommario di cognizione. In proposito, deve ritenersi che la complessità della lite sarà configurabile per quei giudizi che, anche se di natura esclusivamente documentale o comportanti un'attività istruttoria contenuta, implichino l'esame e la soluzione di questioni tecniche o giuridiche di una certa complessità che possono richiedere una trattazione non semplificata, sia per l'esigenza delle parti di svolgere e puntualizzare le proprie difese sulla base di quelle della controparte, sia per quella del giudice di far chiarire alle parti i rispettivi assunti nello svolgimento successivo delle udienze, formando in maniera graduale il proprio convincimento. Quid iuris nel caso in cui il giudice non proceda, pur ricorrendone i presupposti, al mutamento del rito? In relazione alla previgente disciplina del rito sommario di cognizione di cui agli artt. 702-bis e ss. c.p.c., la giurisprudenza ha precisato che la mancata conversione del rito sommario in rito ordinario, coinvolgendo un'attività discrezionale del giudice, non si pone quale motivo di nullità del giudizio di primo grado per violazione dei diritti processuali e di difesa (Cass. civ., 5 settembre 2019, n. 22158). Tale conclusione deve trovare conferma anche alla luce del nuovo rito semplificato di cognizione, in quanto, fermo restando un evidente margine di discrezionalità del giudice nella valutazione della complessità della lite e dell'istruttoria, è principio consolidato quello per cui l'adozione, per la trattazione di una controversia, di un rito diverso da quello prescritto non costituisce motivo di nullità e, come tale, non è suscettibile di impugnazione, a meno che non abbia inciso sul contraddittorio, sui diritti della difesa o sul regime delle prove, restando comunque a carico del ricorrente l'indicazione dello specifico pregiudizio che sia derivato dalla omessa adozione del rito previsto (ex multis, Cass. civ., 10 ottobre 2017, n. 23682). Alla medesima prima udienza le parti possono anche chiedere che il giudice conceda, se sussiste un “giustificato motivo”, un primo termine perentorio non superiore a venti giorni per precisare e modificare le domande, le eccezioni e le conclusioni, per indicare i mezzi di prova e produrre documenti, nonché un ulteriore termine, non superiore a dieci giorni, per replicare e dedurre prova contraria. Il giudice può, quindi, modulare l'assegnazione di termini anche più brevi rispetto a quelli massimi previsti dalla norma e, in tal caso, potrebbe venir meno il rapporto di proporzionalità tra i due termini (ossia il primo pari al doppio del secondo). La regolamentazione della fase di definizione del thema decidendum e del thema probandum del rito semplificato, operata dalla riforma Cartabia, appare opportuna, se solo si considera che, in relazione al rito sommario, si sono delineati due orientamenti in ordine alla questione dell'individuazione del termine ultimo entro il quale le parti possono articolare le loro istanze istruttorie: invero, una prima, preferibile, tesi individua nella (eventuale) pronuncia dell'ordinanza di mutamento del rito ex art. 702-ter c.p.c. la barriera processuale che impedisce alle parti la formulazione di nuove richieste istruttorie (Cass. civ., 31 agosto 2021, n. 23677; Cass. civ., 7 gennaio 2021, n. 46; Cass. civ., 18 dicembre 2015, n. 25547); secondo altro orientamento, invece, la valutazione, da parte del giudice, della necessità di un'istruzione non sommaria, ai fini della conversione del rito, presuppone pur sempre che le parti – e in primo luogo il ricorrente – abbiano dedotto negli atti introduttivi tutte le istanze istruttorieche ritengano necessarie per adempiere all'onere probatorio ex art. 2967 c.c., non potendosi attribuire a tale decisione la funzione di rimetterle in termini per la formulazione delle deduzioni istruttorie, che siano state omesse o insufficientemente articolate in limine litis (Cass. civ., 5 settembre 2019, n. 22158; Cass. civ., 5 ottobre 2018, n. 24538): tale seconda tesi introduce, però, una decadenza normativamente non prevista, finendo sostanzialmente per equiparare il rito sommario di cognizione al rito del lavoro. Ebbene, sulla base del combinato disposto dei commi 1 e 3 dell'art. 281-undecies e del comma 4 dell'art. 281-duodecies c.p.c., deve ora escludersi che sulle parti gravi l'onere, a pena di decadenza, di formulare già negli atti introduttivi le richieste istruttorie, prevedendosi anzi la facoltà di queste di ottenere dal giudice la fissazione, alla prima udienza, di un doppio termine (oltre che per la definizione del thema decidendum, anche) per l'articolazione della prova diretta e di quella contraria. La nuova regolamentazione della fase procedimentale del rito semplificato incide anche sull'individuazione del limite temporale del potere di contestazione delle parti. Invero, in relazione al regime di cui agli artt. 702-bis e ss c.p.c., si è sostenuto che, fino alla sua eventuale conversione in rito ordinario con la fissazione dell'udienza di trattazione di cui all'art. 183 c.p.c., non può rinvenirsi alcuna preclusione correlata all'onere di contestazione specifica di cui all'art. 115 c.p.c. (Cass. civ., 9 settembre 2021, n. 24415). Tale principio non appare più attuale, in quanto – dovendo la valutazione della condotta processuale del convenuto, agli effetti della non contestazione dei fatti allegati dalla controparte, essere correlata al regime delle preclusioni che la disciplina processuale connette all'esaurimento della fase entro la quale è consentito ancora alle parti di precisare e modificare, sia allegando nuovi fatti, sia deducendo una narrazione dei fatti alternativa e incompatibile con quella posta a base delle difese precedentemente svolte – il regime delineato dal comma 4 dell'art. 281-duodecies c.p.c. consente alle parti di ottenere, in prima udienza, la concessione di un doppio termine istruttorio, il primo dei quali è deputato anche alla precisazione e modificazione delle domande, eccezioni e conclusioni già proposte. Ne deriva che è a tale primo termine che deve ora ancorarsi il momento ultimo per l'esercizio del potere di contestazione, analogamente a quanto statuito dalla più recente giurisprudenza in ordine al rito ordinario, allorquando si è precisato che la mancata tempestiva contestazione, sin dalle prime difese, dei fatti allegati dall'attore è comunque retrattabile nei termini previsti per il compimento delle attività processuali consentite dall'art. 183 c.p.c. (Cass. civ., 26 maggio 2020, n. 9690; Cass. civ., 6 dicembre 2019, n. 31402). Non può, tuttavia, non rilevarsi che, in ragione del più gravoso onere del convenuto di prendere posizione, fin dalla comparsa di risposta, “in modo chiaro e specifico” sui fatti posti dall'attore a fondamento della domanda (art. 281-undecies, comma 3, c.p.c.), il convenuto medesimo, già all'atto della sua costituzione in giudizio - a fronte di una allegazione da parte dell'attore chiara e articolata in punto di fatto - deve contestare in modo analitico le circostanze addotte dalla controparte e, se non lo fa, i fatti dedotti dall'attore debbono ritenersi non contestati per i fini di cui all'art. 115 c.p.c. (argomentando da Cass. civ., 23 marzo 2022, n. 9439). Tanto premesso, e venendo alla specifica questione oggetto della presente trattazione, occorre chiedersi se le eventuali preclusioni in cui siano incorse le parti durante la trattazione della causa con il rito semplificato operino nel rito ordinario qualora il giudice proceda al passaggio dall'uno all'altro rito. In termini pratici, se, ad es., alla prima udienza del rito semplificato, le parti non esercitano le facoltà previste, a pena di decadenza, dall'art. 281-duodecies c.p.c., ossia non chiedono la concessione del doppio termine assertivo-istruttorio (comma 4) oppure non propongono le eccezioni che sono conseguenza della domanda riconvenzionale e delle eccezioni proposte dalle altre parti (comma 3) oppure, ancora, l'attore-ricorrente non chiede di essere autorizzato a chiamare in causa un terzo (comma 2), la relativa decadenza persisterà anche nel prosieguo del giudizio trattato con il rito ordinario? La risposta al quesito ci sembra negativa, nel senso che le preclusioni maturate nel corso del procedimento semplificato non si applicano al giudizio ordinario che si instaura all'esito della conversione del rito, e ciò per due ordini di ragioni. In primo luogo, se è pur vero che tradizionalmente la giurisprudenza, in ordine al rapporto tra rito ordinario e rito del lavoro, ha sostenuto che il mutamento del rito da ordinario a speciale non comporta una rimessione in termini rispetto alle preclusioni già maturate alla stregua della normativa del rito ordinario, dovendosi correlare l'integrazione, prevista dall'art. 426 c.p.c., degli atti introduttivi, alle decadenze di cui agli artt. 414 e 416 c.p.c. (Cass., sez. lav., 28 aprile 2017, n. 10569; Cass. civ., 30 dicembre 2014, n. 27519; Cass. civ., 22 aprile 2010, n. 9550), è altresì vero che l'art. 281-duodecies c.p.c. non prevede il mantenimento, dopo la conversione del rito, delle decadenze già maturate, laddove, invece, allorquando ha voluto diversamente disporre, il legislatore ha introdotto espressa eccezione alla predetta regola generale, come nel caso dell'art. 4, comma 5, d.lgs. n. 150/2011, a tenore del quale gli effetti sostanziali e processuali della domanda si producono secondo le norme del rito seguito prima del mutamento, restando ferme le decadenze e le preclusioni già maturate in tale fase (Cass., Sez. Un., 12 gennaio 2022, n. 758). Inoltre, il medesimo art. 281-duodecies c.p.c. prevede espressamente che il giudice, in seguito alla detta conversione, fissi l'udienza di cui all'art. 183 c.p.c., rispetto alla quale decorrono i termini previsti dall'art. 171-ter c.p.c. per il deposito delle memorie integrative, sicchè restano intatte le facoltà assertive ed istruttorie riconosciute alle parti con tali memorie (cfr. Cass. civ., 6 luglio 2020, n. 13879, che ha affermato il medesimo principio in relazione al rito sommario di cognizione). Preclusioni in caso di mutamento del rito ordinario in rito semplificato
Nel rito ordinario, alla prima udienza di trattazione ex art. 183 c.p.c. il giudice può disporre il passaggio al rito semplificato di cognizione. Invero, l'art. 183-bis c.p.c. (interamente sostituito dal d.lgs. n. 149/2022) prevede che il giudice, valutata la complessità della lite e dell'istruzione probatoria e sentite le parti, se rileva che in relazione a tutte le domande proposte ricorrono i presupposti di cui al comma 1 dell'art. 281-decies c.p.c., dispone con ordinanza non impugnabile la prosecuzione del processo nelle forme del rito semplificato e si applica il comma 5 dell'art. 281-duodecies c.p.c. Condividendo il pensiero di una parte della dottrina, il legislatore ha, in sostanza, attribuito al giudice il potere di sindacare, d'ufficio, l'opportunità della scelta dell'attore di ricorrere al rito ordinario, nelle ipotesi previste dal comma 1 del nuovo art. 281-decies c.p.c. (ossia quando, in relazione a tutte le domande proposte, i fatti di causa non sono controversi, oppure la domanda è fondata su prova documentale, o è di pronta soluzione ovvero richiede un'istruzione non complessa), specularmente a quanto previsto dal comma 1 dell'art. 281-duodecies c.p.c., che disciplina, invece, il passaggio dal rito semplificato a quello ordinario. La finalità è quella di accelerare i tempi processuali per addivenire alla decisione, mantenendo però la pienezza della cognizione, che caratterizza anche il rito semplificato. In base al tenore letterale dell'art. 183-bis c.p.c., l'udienza di trattazione dovrebbe rappresentare il termine iniziale e finale entro cui disporre il mutamento del rito. Tuttavia, una siffatta interpretazione non appare soddisfacente, in quanto, in un'ottica acceleratoria, il passaggio al rito semplificato può essere utile solo se attuato prima che le parti abbiano provveduto a depositare le memorie integrative di cui all'art. 171-ter c.p.c., risultando altrimenti non più vantaggioso procedere sui “binari” del rito semplificato allorquando le parti hanno, nel rito ordinario, già depositato tutte le memorie assertive ed istruttorie volte alla definizione del thema decidendum ac probandum. In proposito, la giurisprudenza di merito ha iniziato a sostenere la tesi della derogabilità del combinato disposto degli artt. 171-bis e 183-bis c.p.c., nel senso che, se l'obiettivo della riforma Cartabia è quello di favorire la velocizzazione e l'efficienza del processo, non può non riconoscersi al giudice uno spazio di manovra discrezionale nell'attività di direzione del giudizio e, quindi, anche nella gestione della fase delle verifiche preliminari. Si è, così, statuito (Trib. Piacenza 1° maggio 2023, in IUS) che il giudice, in forza di un'interpretazione costituzionalmente orientata, può d'ufficio disporre la conversione del rito ordinario di cognizione in quello semplificato già in sede di verifiche preliminari, e cioè anteriormente all'udienza di prima comparizione delle parti ed in assenza di contraddittorio su tale questione, sebbene l'art. 171-bis c.p.c. preveda una diversa sequenza procedimentale, secondo la quale, in sede di verifiche preliminari, il giudice può indicare alle parti, tra le varie questioni rilevabili d'ufficio, quella inerente alla sussistenza dei presupposti per procedere con il rito semplificato, lasciando alle parti stesse la facoltà, nelle memorie integrative ex art. 171-ter c.p.c., di interloquire su tale questione, in ordine alla quale la decisione giudiziale è poi rinviata alla prima udienza. In sostanza, al fine di prevenire il dispendioso deposito delle memorie integrative e rendere concretamente utile il mutamento del rito ordinario in quello semplificato, si va sempre più diffusamente sostenendo che il giudice non è tenuto, con il decreto ex art. 171-bis c.p.c., a sottoporre al contraddittorio tra le parti la questione della “sussistenza dei presupposti per procedere con rito semplificato”, ma può direttamente procedere a tale conversione, così ottimizzando l'utilità di tale strumento processuale, che risulterebbe pregiudicata se al mutamento del rito si dovesse procedere sempre ed in ogni caso, come sembrerebbe desumersi dall'art. 183-bis c.p.c., alla prima udienza di comparizione delle parti, allorquando, cioè, queste ultime hanno già depositato le memorie integrative ex art. 171-ter c.p.c., il giudice ha studiato gli atti di causa (si presume…) ed il thema decidendum ac probandum è stato interamente definito. A questo punto, tuttavia, se si ritiene percorribile l'interpretazione meno rigorosa del combinato disposto degli artt. 171-bis e 183-bis c.p.c., si prospettano, in relazione alle preclusioni eventualmente già maturate nel rito ordinario, due diversi snodi processuali. In particolare, se il mutamento del rito è operato alla prima udienza di cui all'art. 183 c.p.c., secondo l'opzione privilegiata dal legislatore, ossia allorquando il thema decidendum ac probandum è stato già definito, neanche si pone un problema di mantenimento delle decadenze già maturate a carico delle parti, in quanto, seguendo il disposto del novellato art. 183-bis c.p.c., il giudizio procede ai sensi del comma 5 dell'art. 281-duodecies c.p.c., sicchè il giudice o ritiene la causa matura per la decisione oppure ammette i mezzi di prova rilevanti per la decisione e procede alla loro assunzione. Secondo lo schema delineato dal legislatore, quindi, non c'è possibilità, nel rito semplificato applicabile a seguito della conversione, di esercitare nuove facoltà assertive ed istruttorie, non potendo le parti (anche qualora non abbiano depositato le memorie integrative ex art. 171-ter c.p.c.) chiedere la concessione del doppio termine di cui al comma 4 dell'art. 281-duodecies c.p.c., posto che, come già detto, l'art. 183-bis c.p.c. richiama solo il co. 5 di tale ultima norma. Le preclusioni e decadenze saranno, pertanto, quelle già formatesi sotto la vigenza del rito ordinario. Se, invece, si assume possibile la conversione del rito ordinario in rito semplificato già con il decreto emesso in sede di verifiche preliminari ex art. 171-bis c.p.c., allora occorre giocoforza ritenere applicabili (oltre al quinto) anche il secondo, terzo e quarto comma dell'art. 281-duodecies c.p.c., dovendo offrirsi alle parti l'ampio ventaglio delle facoltà disciplinate da tale norma per la tutela del diritto di difesa e l'esercizio dei poteri assertivi ed istruttori, essendo venuta meno in tal caso la possibilità di depositare le memorie integrative ex art. 171-ter c.p.c. In sostanza, nel mutare il rito, il giudice non confermerà l'udienza ex art. 183 c.p.c., ma fisserà la prima udienza del rito semplificato, disciplinata dall'art. 281-duodecies c.p.c., di cui risulteranno applicabili tutti i commi tranne il primo (essendo quest'ultimo riferito alla conversione nel rito ordinario, a questo punto non più prospettabile, se non in un'ottica meramente kafkiana). |