Revoca della liquidazione giudiziale e giudizio di attendibilità dei bilanci in relazione alle soglie ex art. 2, comma 1, lett. d), CCII

Francesco Tamborino
29 Settembre 2023

La Corte d'Appello di Milano ha reso una delle prime sentenze di revoca di liquidazione giudiziale dichiarata aperta ex art. 49 CCII. Il Collegio si è espresso, inter alia, sul tema della valutazione della attendibilità dei bilanci a fronte del mancato appostamento di un fondo rischi, ai fini del vaglio circa il superamento del parametro ex art. 2, comma 1, lett. d), n. 3, CCII.
Massime

“In sede di procedimento per la dichiarazione di apertura della liquidazione giudiziale, come pure in sede di giudizio di reclamo ex art. 51 CCII, non vi è spazio per l'espletamento di una consulenza tecnica d'ufficio quale strumento per accertare quale sia l'effettivo indebitamento dell'impresa, ai fini del vaglio del superamento della soglia di cui all'art. 2, comma 1, lett. d), n. 3, CCII. L'apprezzamento sommario circa la sussistenza di crediti che può essere svolto in quelle sedi non va oltre una valutazione di plausibilità, e non può sopperire alla mancanza di un titolo giudiziale, che si forma in un contesto di contraddittorio pieno e di valutazione definitiva del corredo probatorio prospettato dalle parti”.

“Laddove le risultanze dei bilanci di un'impresa commerciale insolvente consentano di ricomprendere la stessa nella categoria dell'impresa minore ex aart. 2, comma 1, lett. d), CCII, il mancato appostamento di un fondo rischi a fronte di pretese creditorie contestate non è di per sé sufficiente a far ritenere inattendibile a tutto tondo il bilanci in questione e giustificare per ciò solo l'assoggettamento dell'impresa alla procedura di liquidazione giudiziale”.



Il caso

Con il provvedimento in commento, la Corte d'Appello di Milano ha pronunciato una delle prime sentenze di revoca diuna liquidazione giudiziale aperta ex art. 49 CCII.

Nel ricorso ex art. 37 CCII, presentato nonostante i bilanci di esercizio dell'ultimo triennio della società debitrice la collocassero formalmente tra le imprese minori ex art. 2, comma 1, lett. d), CCII, il creditore istante, nel caso di specie coincidente con la Curatela di un Fallimento, asseriva di vantare, sulla base di vari titoli (i.e., canoni d'affitto d'azienda non corrisposti e crediti risarcitori per la mancata restituzione d'azienda e per il mancato ripristino del magazzino), un credito molto elevato nei confronti della prima, tenendo conto del quale il passivo della società debitrice superava la soglia di € 500.000 di debiti anche non scaduti.

Il Tribunale concorsuale di Milano riteneva che le scritture contabili e i bilanci della società debitrice – oltretutto cancellata dal registro delle imprese prima di definire tali pretese – fossero inattendibili, poiché a suo avviso le pretese creditorie in questione, pur contestate, avrebbero dovuto essere almeno menzionate nella nota integrativa e avrebbero dovuto essere apposto riguardo ad esse un “fondo rischi”. Pertanto, considerava non provato da parte della resistente il mancato superamento (anche) della soglia di cui al n. 3 dell'art. 2, comma 1, lett. d), CCII; e apriva quindi la procedura di liquidazione giudiziale ex art. 49 CCII.

La società debitrice proponeva reclamo contestando nel merito la sussistenza dei crediti vantati dal creditore, in particolare adducendo che: per quanto riguardava il magazzino, era stata pattuita un'obbligazione di pagamento solo nella misura in cui quello fosse stato utilizzato; circa il debito per mancata restituzione dell'azienda, la quantificazione del valore della medesima effettuata dal creditore si basava su una perizia di parte viziata da gravi errori metodologici, e comunque in precedenza siffatta restituzione era stata offerta; quanto infine al credito per canoni, lo stesso era di molto inferiore all'importo preteso. Su tali basi, la soglia debitoria di € 500.000 non poteva ritenersi superata, e neppure poteva sostenersi che, dalla mancata apposizione di un fondo rischi, potesse desumersi un'inattendibilità dei bilanci “a 360 gradi”, sia perché tutti i crediti vantati dall'istante erano incerti per an e quantum, sia perché la posta in questione non sarebbe comunque andata a incidere sulla componente del passivo relativa ai “debiti”, l'unica considerata nel n. 3 dell'art. 2, comma 1, lett. d), CCII.

Controparte si costituiva ribadendo le proprie posizioni. Il Collegio, al fine di avere chiarimenti sull'attendibilità dei bilanci, convocava il curatore della liquidazione giudiziale per chiedere delucidazioni. Quest'ultimo riferiva che non constavano apparenti irregolarità contabili e, inoltre, depositava lo stato passivo nel frattempo approvato dal Giudice Delegato, dal quale si evinceva che il credito dichiarato dal creditore istante era stato ammesso in misura assai parziale (solo per una parte dei canoni di affitto pretesi), essendo stato ritenuto, per quanto concerne gli altri titoli, incerto e non provato, e che il passivo complessivo ammontava a € 176.955,00. Nelle note finali il creditore istante si giocava un'ultima carta, richiedendo che venisse disposta CTU volta ad accertare la sussistenza degli ulteriori crediti vantati, in specie quelli connessi all'azienda già oggetto di affitto.

La Corte di Appello di Milano accoglieva il reclamo, sì da revocare la sentenza dichiarativa della liquidazione giudiziale.

La soluzione della Corte

Nella parte motiva della sentenza, la Corte ha sostanzialmente recepito le valutazioni del curatore e del Giudice Delegato della procedura di liquidazione giudiziale, ritendo che le argomentazioni proposte dal creditore istante sulla sussistenza dei crediti inerenti al magazzino e all'azienda fossero opinabili e non provate. Per l'effetto, condivideva la tesi di parte reclamante secondo cui non vi erano sufficienti elementi perché potesse ritenersi superata la soglia di € 500.000,00 di esposizione debitoria, postulata dall'art. 2, comma 1, lett. d), n. 3, CCII per l'apertura della liquidazione giudiziale.

Il giudice del reclamo ha altresì argomentato che in sede di procedimento per la dichiarazione di apertura della liquidazione giudiziale, come pure in sede di reclamo ex art. 51 CCII, non vi è spazio per l'espletamento di una CTU quale strumento per accertare l'effettivo indebitamento della società: l'apprezzamento sommario sulla sussistenza di crediti che può essere svolto in sede di istruttoria non va oltre una valutazione di plausibilità, e non può sopperire alla mancanza di un titolo giudiziale, che si forma in un contesto di contraddittorio pieno e di valutazione definitiva del corredo probatorio prospettato dalle parti.

La Corte ha inoltre preso posizione nel senso che il mancato appostamento di un fondo rischi non può essere considerato di per sé sufficiente a giudicare un bilancio inattendibile “a tutto tondo” e far per ciò solo decadere lo status di impresa minore sottratta alla liquidazione giudiziale ex art. 49 CCII.

La Corte d'Appello si è, quindi, pronunciata nel senso di revocare la liquidazione giudiziale e contestualmente ha disposto le cautele previste dall'art. 53 CCII, in particolare disponendo che:

i) ogni 30 giorni, fino al passaggio in giudicato della sentenza, il legale rappresentante della società debitrice avrebbe dovuto depositare nella cancelleria del Tribunale fallimentare una situazione economica, patrimoniale e finanziaria aggiornata dell'impresa, trasmettendone contestualmente copia al curatore;

ii) con la stessa cadenza, il legale rappresentante avrebbe dovuto provvedere ad inviare al curatore una breve relazione informativa ed esplicativa sulla gestione corrente, anche finanziaria, allegandovi l'elenco delle più rilevanti operazioni compiute, “sia di carattere negoziale, che gestionale, industriale, finanziario o solutorio, di valore comunque superiore ad € 5.000,00, con l'indicazione della giacenza di cassa e delle più rilevanti variazioni di magazzino”. Il curatore avrebbe potuto chiedere chiarimenti e documentazione relativa alle operazioni risultanti dalla relazione.

Il giudice del reclamo si preoccupava pure di “rammentare” al reclamante che:

a) per stipulare mutui, transazioni, patti compromissori, alienazioni e acquisti di beni immobili, rilasciare garanzie, rinunciare alle liti, compiere ricognizioni di diritti di terzi, consentire cancellazioni di ipoteche e restituzioni di pegni, accettare eredità e donazioni e compiere gli altri atti di straordinaria amministrazione, sarebbe stata necessaria la previa autorizzazione del Tribunale;

b) il Tribunale fallimentare, laddove avesse accertato la violazione degli obblighi previsti dall'art. 53 CCII e dal provvedimento della Corte, avrebbe privato il debitore della possibilità di compiere gli atti di amministrazione ordinaria e straordinaria.

Infine, la Corte ha disposto la compensazione integrale delle spese di lite fra le parti e ha ritenuto di non addebitare le spese della procedura ex art. 147 d.p.r. n. 115/2002 ad alcuna delle parti, motivando che il Fallimento reclamato era comunque almeno in parte creditore della società reclamante e che quest'ultima, pur vittoriosa nel merito, aveva tenuto un comportamento “non trasparente” nei confronti dei creditori della società laddove aveva proceduto alla cancellazione dal registro delle imprese “in pendenza di contestazioni".

Il provvedimento a commento non è stato impugnato in Cassazione, e pertanto è passato in giudicato.

Osservazioni: a) credito dell'istante e impresa minore

La pronuncia in oggetto consente di svolgere innanzi tutto alcune riflessioni circa la legittimazione del singolo creditore a proporre istanza di liquidazione giudiziale e soprattutto in merito ai criteri di valutazione della consistenza del credito vantato anche in rapporto all'attendibilità dei bilanci del debitore, al fine di verificare il superamento della soglia ex art. 2, comma 1, lett. d), n. 3, CCII. Seguirà nel successivo paragrafo qualche considerazione in ordine alle conseguenze della revoca della liquidazione giudiziale nella nuova disciplina.

Per quanto attiene al primo punto, nel Codice della crisi i presupposti per essere legittimati alla presentazione dell'istanza di liquidazione giudiziale non sono mutati rispetto a quelli che la giurisprudenza e la dottrina avevano individuato ai fini della legittimazione all'istanza di fallimento.

Sotto il precedente regime si era consolidato il seguente orientamento: “In tema di iniziativa per la dichiarazione di fallimento, l'articolo 6 della legge fallimentare, laddove stabilisce che il fallimento è dichiarato, fra l'altro, su istanza di uno o più creditori, non presuppone un definitivo accertamento del credito in sede giudiziale, né l'esecutività del titolo, essendo viceversa a tal fine sufficiente un accertamento incidentale da parte del giudice, all'esclusivo scopo di verificare la legittimazione dell'istante” (Cass. civ., sez. I, 14 ottobre 2022, n. 30334).

Nella vecchia norma, l'istanza di fallimento si articolava come un'azione a contenuto processuale, rispetto alla quale l'accertamento del credito si poneva come meramente incidentale. Pertanto, ai fini della legittimazione al ricorso per declaratoria di fallimento, l'esistenza di un credito sub judice, o comunque contestato dal debitore, non impediva la declaratoria stessa. Infatti, la legittimazione ex art. 6 l. fall. spettava a chiunque vantasse, nei confronti dell'imprenditore, un credito non necessariamente certo, liquido, esigibile, fosse anche un credito non ancora scaduto o condizionale, o non munito di titolo esecutivo, purché idoneo a giustificare un'azione esecutiva (v., per tutti, Morri-Giovannardi, Legittimazione del creditore istante e accertamento del credito, in Il Fallimentarista, 6 febbraio 2017).

Da quando nel 2007 è stato (nuovamente) modificato l'art. 1, cpv., l. fall., stabilendo tre soglie sotto le quali è stata esclusa l'assoggettabilità a fallimento degli imprenditori commerciali di minori dimensioni, il credito vantato dall'istante può assumere rilevanza anche ai fini del superamento del parametro dell'indebitamento complessivo dell'imprenditore, ponendosi il dubbio se per la sua valutazione valessero gli stessi criteri impiegati ai fini della verifica della legittimazione attiva.

Sotto il Codice della crisi, la questione si ripresenta negli stessi termini.

Nel caso de quo, l'istante vantava crediti contestati dal debitore che, sommati agli altri appalesati nei bilanci di quest'ultimo, avrebbero potuto determinare il superamento della soglia di cui all'art. 2, comma 1, lett. d), n. 3, CCII (non essendo in discussione che le altre due soglie non fossero state valicate).

Per parte sua, il Tribunale ha praticamente utilizzato gli stessi criteri impiegati per la verifica della legittimazione attiva dell'istante: secondo il suo accertamento incidentale, particolarmente i due crediti più consistenti e decisivi (quelli asseritamente discendenti dalla mancata restituzione dell'azienda e del magazzino) sono parsi a tale giudice corroborati da sufficienti elementi probatori.

A ben vedere, anche la Corte d'Appello ha compiuto una valutazione sommaria, ma nella parte motiva della sentenza ha diversamente mostrato di considerare plausibili le contestazioni mosse dal debitore in merito all'esistenza e alla quantificazione dei due crediti in parola (sorretti da una CTP persuasiva); né, ha precisato la Corte, questa valutazione sommaria poteva essere superata da una CTU, essendo tale strumento incompatibile con le caratteristiche proprie della fase istruttoria precedente l'apertura della liquidazione giudiziale, e anche del giudizio di reclamo ex art. 51 CCII. Da qui l'enunciazione del principio secondo cui “l'apprezzamento sommario sulla sussistenza di crediti che può essere svolto in sede di istruttoria, non va oltre una valutazione di plausibilità, ma certo non può sopperire alla mancanza di titolo giudiziale, che si forma in un contesto di contraddittorio pieno e di valutazione definitiva del corredo probatorio prospettato dalle parti”.

Andava tuttavia trattata un'altra questione, su cui il primo giudice aveva fatto aggiuntivamente leva per giustificare il declassamento della società debitrice dal rango di impresa minore: quest'ultima era stata cancellata dal registro delle imprese senza che nella nota integrativa ai bilanci dell'ultimo triennio fosse stata fatta alcuna menzione dei debiti controversi e senza che neppure fosse stato apposto un fondo rischi, fondo che, nonostante le contestazioni fossero assistite da elementi di fondatezza, le regole del diritto contabile avrebbero imposto di computare su base percentuale; dunque i bilanci erano inattendibili e l'imprenditore non poteva pretendere di sottrarsi alla liquidazione giudiziale per ragioni dimensionali.

Il creditore istante ed il Tribunale avevano infatti posto all'indice l'orientamento della Suprema Corte ben rappresentato da Cass. civ., sez. I, 23 novembre 2018, n. 30516: “Ai fini della prova della sussistenza dei requisiti di non fallibilità di cui art. 1, comma 2, l. fall., i bilanci degli ultimi tre esercizi che l'imprenditore è tenuto a depositare, ai sensi dell'art. 15, comma 4, l. fall., costituiscono strumento di prova privilegiato dell'allegazione della non fallibilità, in quanto idonei a chiarire la situazione patrimoniale e finanziaria dell'impresa, senza assurgere però a prova legale, essendo soggetti alla valutazione, da parte del giudice, dell'attendibilità dei dati contabili in essi contenuti secondo il suo prudente apprezzamento ex art. 116 c.p.c., sicché, se reputati motivatamente inattendibili, l'imprenditore rimane onerato della prova della sussistenza dei requisiti della non fallibilità.”

Merita altresì menzionare Cass. civ., sez. I, 12 gennaio 2017, n. 601: “Nel verificare la sussistenza del requisito della fallibilità posto dall'art. 1, comma 2, lett. c), l. fall., è prioritario il dato ricavabile dalle scritture contabili; tuttavia, devono tenersi in considerazione pure altri elementi (nella specie, il fondo rischi ed oneri a copertura di debiti litigiosi "certi" o "probabili") dai quali risulti l'esistenza di debiti ulteriori, anche qualora essi siano in parte contestati, essendo comunque rilevanti quale dato dimensionale dell'impresa; la contestazione, infatti, non ne impedisce l'inclusione nel computo dell'indebitamento complessivo e non si sottrae alla valutazione del giudice chiamato a decidere sull'apertura della procedura concorsuale, anche se la relativa pronuncia non pregiudica l'esito della controversia volta all'accertamento di quel debito.”

La portata di tali pronunce era tuttavia incerta relativamente a un punto assai rilevante: per giudicare un bilancio inattendibile, è sufficiente fornire elementi tali da giustificare rettifiche in merito ad una singola posta, oppure il creditore istante ha l'onere di dimostrare che il bilancio è inattendibile nella sua globalità? È chiaro che la prima interpretazione potrebbe facilmente portare all'effetto pratico di assoggettare a liquidazione giudiziale un gran numero di soggetti, particolarmente se la rettifica predicata dal creditore istante possa dipendere dal credito da esso vantato e variamente corroborato. All'opposto, la seconda lettura appare più conforme alla volontà del legislatore: in effetti, uno dei motivi ispiratori della riforma delle procedure concorsuali è stato certamente lo scopo di limitare i casi in cui l'imprenditore viene sottoposto a una procedura liquidatoria, fornendogli una vasta gamma di istituti al fine della gestione preventiva della crisi (sul punto v., fra gli altri, Jachia, I bilanci da cui emerge la non fallibilità nella recente giurisprudenza di legittimità, in Diritto della Crisi del 29 giugno 2021).

Probabilmente, anche alla luce di tale considerazione, la Corte d'Appello ha quindi preso posizione in senso garantista per il debitore, enunciando il principio secondo cui la mancata previsione di un fondo rischi non rappresenta un elemento sufficiente tale da far giudicare i bilanci dell'imprenditore tout court inattendibili ai fini del vaglio del superamento dei parametri per l'assoggettabilità alla liquidazione giudiziale individuati nell'art. 2, comma 1, lett. d), CCII; in altri termini, la perdita della qualifica di imprenditore minore postula un giudizio di complessiva inattendibilità della contabilità e dei bilanci (che nel caso in questione era stato escluso dal curatore della procedura di liquidazione giudiziale).



(Segue): b) la nuova disciplina della revoca della liquidazione giudiziale

Come accennato, la pronuncia in commento rappresenta uno dei primi casi di revoca di una liquidazione giudiziale, con contestuale applicazione delle cautele previste all'art. 53, commi 1-4, CCII.

Con la norma in esame, il legislatore ha voluto innovare la precedente impostazione adottata nella legge fallimentare con riferimento all'ipotesi dell'accoglimento del reclamo spiegato avverso la sentenza di fallimento, la quale prevedeva che il curatore fallimentare rimanesse in carica senza sostanziali limiti di operatività sino al passaggio in giudicato della pronuncia di revoca.

La riforma ha rimodellato la disciplina in termini più favorevoli al debitore, restituendogli temporaneamente l'azienda, con l'obiettivo di far sì che lo stesso non subisca un pregiudizio irreparabile nel caso in cui l'esecuzione concorsuale avviata dovesse confermarsi ingiusta. Nel contempo, a tutela dei suoi creditori, lo “spossessamento concorsuale” non viene rimosso completamente, con gli annessi vincoli patrimoniali. A questa stregua, la procedura di liquidazione giudiziale in pratica viene posta in una situazione di “ibridazione” per tutto il periodo intercorrente fra la notifica della sentenza di revoca sino al momento in cui la decisione diventa definitiva (v. la Relazione illustrativa al Codice della Crisi di Impresa e dell'Insolvenza, in G.U. 30 ottobre 2017, n. 254).

Infatti, anticipandosi gli effetti della revoca, lungo tale periodo l'amministrazione dei beni e l'esercizio di impresa restano in capo al debitore. Tuttavia, il curatore assume un ruolo di vigilanza del suo operato in relazione al compimento degli atti di ordinaria amministrazione; mentre gli atti di straordinaria amministrazione devono essere autorizzati dal tribunale, in difetto dovendosi ritenere inefficaci rispetto ai terzi ex art. 53, co. 3, primo periodo, CCII. In altri termini, nonostante i beni e la gestione dell'impresa tornino all'imprenditore, vincitore del reclamo, la procedura di liquidazione giudiziale rimane incardinata con tutti i suoi organi sino alla pronuncia definitiva. Proprio per questo l'art. 53, comma 4, CCII ha introdotto una serie di periodici obblighi informativi a carico del debitore nei confronti del tribunale e del curatore.

Se la sentenza di revoca viene confermata o comunque passa in giudicato, il debitore rientra nel pieno possesso dell'impresa senza limitazioni; di contro, se viene cassata, la procedura di liquidazione giudiziale si consolida definitivamente, conseguendovi il totale spossessamento dell'impresa che farà capo al curatore.

Nel caso de quo, la fase di ibridazione della procedura si è protratta per un breve periodo, in quanto la sentenza della Corte d'Appello non è stata impugnata. Se si ha però riguardo all'ipotesi opposta, in cui il creditore istante dovesse ricorrere in cassazione avverso la sentenza di revoca, è chiaro che la fase in parola potrebbe durare diversi anni, allora potendosi dubitare che la nuova disciplina rappresenti la miglior soluzione.

L'imprenditore è chiamato infatti a gestire nuovamente la sua impresa, ma questa è stata ormai colpita da un grave vulnus reputazionale; deve inoltre sottostare a vincoli informativi e operativi, in una situazione di incertezza: difficilmente potrà sviluppare nuove progettualità, difficilmente riceverà finanziamenti. Egli deve impegnarsi in una sorta di esercizio provvisorio dell'impresa che raramente potrà soddisfare il suo interesse laddove la revoca venisse confermata, e che, d'altronde, nell'ipotesi opposta, raramente produrrà utilità a beneficio dei suoi creditori.

Un ultimo tema meritevole di trattazione attiene alla disciplina delle spese e dei compensi nel caso del passaggio in giudicato del provvedimento di revoca. L'art. 53, comma 1, secondo periodo, CCII, si limita a demandarne la liquidazione al Giudice delegato alla procedura di liquidazione giudiziale, rinviando, per quanto attiene al loro addebito, all'art. 147 del d.p.r. n. 115/2002 (Testo Unico Spese di Giustizia), come modificato dall'art. 366 CCII.

La nuova formulazione di tale norma prevede che le spese della procedura e il compenso del curatore siano a carico del creditore istante, quando questi ha chiesto con colpa la dichiarazione di apertura della liquidazione giudiziale; mentre sono a carico del debitore persona fisica, se questi con il suo comportamento ha dato causa al tale declaratoria.

Compete alla Corte di Appello, che abbia pronunciato la revoca, accertare se l'apertura della procedura sia imputabile al creditore o al debitore, ma la Suprema Corte, con ordinanza Cass. civ., sez. I, 4 novembre 2022, n. 32533, ha precisato che tale accertamento può essere svolto anche dalla Corte di Cassazione, laddove non siano necessari ulteriori accertamenti in fatto (v. Ferrajoli, Gli effetti dell'accoglimento del reclamo, in Euroconference del 23 dicembre 2022).

Nel caso de quo la Corte si è astenuta dall'addebitare ad alcuna delle parti le spese di procedura, motivando che la responsabilità dell'apertura della procedura non potesse essere attribuita esclusivamente al creditore istante, visto che la società debitrice era stata cancellata dal registro delle imprese pur in pendenza di contestazioni circa la sussistenza di crediti consistenti. Il giudice del reclamo ha, cioè, intrapreso una terza via non disciplinata dalla norma, con l'effetto concreto, però, di far gravare le spese di procedura e il compenso del curatore sulla società uscita vittoriosa, esito che non può che lasciare perplessi.

Sulla base della stessa motivazione, la Corte d'Appello di Milano ha disposto l'integrale compensazione delle spese di lite (di parte), con ciò sancendo pure implicitamente che nella fattispecie all'esame non sussistevano sufficienti elementi per pronunciare un risarcimento del danno a favore del debitore. Nondimeno, occorre evidenziare che, in linea generale, le norme del Codice della Crisi appaiono avere lasciato un vuoto in merito alla disciplina relativa al risarcimento del danno a favore dell'imprenditore vincitore del reclamo, il quale, sotto il vecchio regime, poteva vedersi riconosciuto il risarcimento del danno, nel caso in cui la dichiarazione di fallimento fosse stata imputata al creditore che avesse agito con colpa grave.



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