L’illegittimità costituzionale del Secondo Decreto Correttivo del Codice della crisi e dell’insolvenza e della l. n. 53/2021

Filippo Lamanna
02 Ottobre 2023

Il d.lgs. n. 83/2022 è stato emanato sulla base della legge di delegazione europea 2019-2020 (l. n. 53/2021), che ha conferito al Governo la delega per il recepimento di varie direttive europee, tra le quali anche la cd. Direttiva Insolvency 1023/2019. Si è trattato, però, di una non consentita “delega in bianco”, non essendo stato dettato alcun principio o criterio direttivo. Ne consegue il rischio che sia la legge di delegazione, che il decreto legislativo delegato possano essere dichiarati costituzionalmente illegittimi, e quest’ultimo anche per contrasto con la legge-delega 155/2017.

I profili di incostituzionalità della legge di delegazione europea 53/2021 e del d.lgs. n. 83/2021

A distanza di più di un anno da quando è stato emanato il d.lgs. n. 83/2022, meglio noto come “Secondo Decreto Correttivo” del Codice della crisi e dell'insolvenza (del quale ha anche disposto l'entrata in vigore a far data dal 15 luglio 2022, appunto poco più di un anno fa), il momento è ormai maturo per fare qualche maggiore riflessione, a mente fredda, sulle molteplici ed incisive modifiche che ha apportato al preesistente testo del Codice al dichiarato fine di adeguarlo alla Direttiva Insolvency 1023/2019.

In larga parte tali modifiche presentano, infatti, e purtroppo, profili critici sotto svariati aspetti, a cominciare da un duplice profilo di illegittimità costituzionale che rende quanto mai urgente un intervento legislativo volto a sanarlo.

Il d.lgs. n. 83/2022 appare infatti come il “frutto avvelenato” della legge di delegazione europea (la legge 53/2021) sulla cui base esso è stato emanato in sede attuativa, legge che è solo eufemistico definire “dai piedi d'argilla”, tenuto conto dell'illegittimità costituzionale per difetto di delega da cui è oggettivamente e chiaramente affetta.

Conseguendone che proprio tale vizio è la prima e più importante spada di Damocle che grava sul futuro del Codice della crisi e dell'insolvenza, ad ulteriore danno, e beffa - ça va sans dire - dei tanti interpreti, operatori ed imprese coinvolte in situazioni di crisi, che avrebbero non solo la necessità, ma anche tutto il diritto di contare su almeno un minimo di certezza e chiarezza nell'applicazione del Codice.

A tale conclusione porta la considerazione che anche per le leggi di delegazione europea valgono le stesse regole dettate in linea generale dalla Costituzione per l'esercizio della delega al Governo (art. 76 Cost.: “L'esercizio della funzione legislativa non può essere delegato al Governo se non con determinazione di principi e criteri direttivi e soltanto per tempo limitato e per oggetti definiti”). Questo necessario ossequio alla norma costituzionale da parte delle leggi di delegazioni europea si evince, del resto, positivamente, anche in virtù del combinato disposto degli artt. 31 della l. n. 234/2012, che fissa – tra l'altro – l'iter di formazione della legge di delegazione europea e della legge europea (nonché i criteri per la relativa redazione), e art. 14 della l. n. 400/1988, che, a sua volta, indica in che modo il Governo deve emanare i decreti legislativi attuativi; tali norme rinviando, infatti, riproponendole, alle stesse regole prescrittive di cui al citato art. 76 Cost.

In ogni caso la Consulta ha più volte evidenziato che la delega legislativa è strumento suscettibile di essere impiegato, e viene doverosamente impiegato, anche per l'attuazione del diritto dell'Unione europea, specialmente in quanto correlato ad una fonte, come la direttiva, bisognosa di ulteriore svolgimento a livello di legislazione nazionale. In tal caso, i principi espressi dalla direttiva si aggiungono a quelli che devono essere necessariamente dettati dal legislatore delegante ed assumono (ma – ovviamente - solo quando questi siano stati dettati) valore di parametro interposto, in quanto idonei a contribuire a stabilire il contenuto e i limiti del potere del legislatore delegato (C. cost. 25 novembre 2016, n. 250, 19 ottobre 2015, n. 210 e 7 giugno 2013, n. 134). L'attuazione di una normativa comunitaria – ove costituisca, secondo l'espressa intenzione del legislatore, la finalità della delega – rappresenta dunque un criterio di determinazione e di interpretazione dei principi e dei criteri direttivi fissati per l'esercizio della delega (C. cost. 29 aprile 1996, n. 132), esercizio, però, evidentemente impossibile ove la legge di delegazione taccia del tutto sui principi e criteri direttivi cui il Governo dovrebbe attenersi.

In ultima analisi, anche la legge di delegazione europea deve necessariamente contenere la “determinazione di principi e criteri direttivi e soltanto per tempo limitato e per oggetti definiti”.

Se si esamina, però, la legge di delegazione europea 53/2021, che contiene anche la delega per l'attuazione della Direttiva Insolvency 1023/2019 (la quale risulta di fatto semplicemente richiamata nell'elenco delle direttive da attuare di cui all'allegato 1 della medesima l. n. 53/2021), ci si avvede dell'assoluta mancanza di qualunque indicazione di principi e criteri direttivi.

Si è trattato quindi di un'illegittima ed assoluta “delega in bianco" (di cui già alcuni Autorevoli commentatori si sono avveduti, ma stranamente serbando uno “scaramantico” silenzio sulle esiziali conseguenze che da tale assoluta mancanza di principi e criteri direttivi potrebbero conseguirne, quasi che, non evocandole, esse fossero per ciò stesso scongiurate).

Illegittima, tale “delega in bianco”, perché è il Parlamento l'ordinario titolare della funzione legislativa, e proprio per tale motivo non sono ammesse deleghe in bianco o a tempo indeterminato. Risultano, perciò, costituzionalmente illegittime leggi-delega prive di principi e criteri direttivi sufficientemente precisi (o della fissazione di un limite per l'esercizio della delega o dell'individuazione di un oggetto definito rispetto al quale il Governo è abilitato a legiferare).

Su questi aspetti la giurisprudenza costituzionale (come è stato chiaramente posto in luce anche in una Relazione redatta dal Servizio Studi della Corte costituzionale, a cura di R. Nevola e D. Diaco, La delega della funzione legislativa nella giurisprudenza costituzionale, in www.cortecostituzionale.it/documenti, di cui sono debitore per i brevi e pedissequi cenni qui riportati a proposito dei requisiti della delega) appare caratterizzata da una sostanziale continuità ed omogeneità di indirizzi, e può quindi considerarsi consolidata.

Secondo la giurisprudenza della Consulta, dunque, l'art. 76 Cost. prescrive contenuti costituzionalmente necessari della legge di delega (C. cost. 11 maggio 2017, n. 104 e C. cost. 27 giugno 2012, n. 162), la cui mancanza è suscettibile di determinarne l'illegittimità costituzionale.

I limiti dei principi e criteri direttivi, del tempo entro il quale può essere emanata la legge delegata e degli oggetti definiti servono a circoscrivere il campo della delegazione al fine di evitare che la delega venga esercitata in modo divergente dalle finalità che l'hanno determinata (C. cost. 3 giugno 1998 n. 198 e C. cost. 26 gennaio 1957, n. 3).

La limitazione rigorosa dei poteri del legislatore delegato, e la conseguente inammissibilità di deleghe in bianco, si giustificano con le finalità della delega e, più in generale, con l'assetto delle attribuzioni disegnato dalla Costituzione per una forma di governo fondata sul ruolo centrale del Parlamento, cui l'art. 76 Cost. impone di non delegare i suoi poteri se non con vincoli precisi (C. cost. 19 dicembre 1962, n. 106).

Quando quest'ultima ipotesi si verifica, la Corte ritiene che si possano direttamente dichiarare incostituzionali le disposizioni della delega: la legge di delega può, cioè, essere dichiarata incostituzionale quando il legislatore delegante non abbia determinato “principi e criteri direttivi tali da consentire al Governo l'esercizio della funzione legislativa in modo conforme a Costituzione” (C. cost. 22 luglio 2010, n. 278, che richiama C. cost. 4 maggio 1990, n. 224; cfr. anche le sentenze C. cost. 7 ottobre 1993, n. 359 e C. cost. 18 novembre 2000, n. 503).

In sostanza, la Corte costituzionale è legittimata a sindacare la costituzionalità tanto della legge-delega quanto del decreto delegato, come essa stessa ha stabilito fin dalla sentenza C. cost. 26 gennaio 1957, n. 3; ma l'esame della legittimità della legge di delegazione, della quale si assuma l'incostituzionalità, è pregiudiziale rispetto a quello della legge delegata, che, evidentemente, non potrebbe trovare applicazione se la fonte da cui trae la sua efficacia normativa fosse illegittima (Corte cost., sentenza n. 106/1962).

Poste tali premesse, e ritornando al nostro problema, il fatto che la legge di delegazione europea 53/2021 abbia omesso qualsiasi indicazione sui principi e criteri direttivi da seguire per l'attuazione della Direttiva 1023/2019 lascia prospettare, di conseguenza, il forte rischio - ove la questione di legittimità costituzionale fosse portata dinanzi alla Consulta - di una possibile declaratoria di incostituzionalità della suddetta legge per violazione dell'art. 76 Cost., in quanto contenente un'assoluta “delega in bianco”.

Peraltro, il difetto di delega è in tal caso tanto più sorprendente se si considera che la Direttiva non soltanto, come del resto è tipico di ogni direttiva, ha semplicemente posto gli obiettivi che i Paesi dell'UE avrebbero dovuto perseguire al fine di garantire, come dispone il suo art. 4, comma 1, “qualora sussista una probabilità di insolvenza”, che “il debitore abbia accesso a un quadro di ristrutturazione preventiva che gli consenta la ristrutturazione, al fine di impedire l'insolvenza e di assicurarne la sostenibilità economica”, mentre sarebbe spettato ai singoli Paesi definire attraverso disposizioni nazionali specifiche come conseguire gli obiettivi stessi; ma è stata anche infarcita di molte norme “aperte”, ossia tali da lasciare molto spazio alle scelte da parte dei Paesi membri nell'individuazione in concreto delle soluzioni normative preferite per perseguire gli obiettivi fissati, in molti casi restando liberi finanche di non effettuare alcuna modifica ordinamentale, di talché nel caso di specie sarebbe stato più che mai necessario che il Parlamento specificasse le scelte alle quali poi il Governo avrebbe dovuto attenersi – tra le possibili opzioni - nell'attuazione della delega.

Ma guarda caso, purtroppo, il Governo ha fatto ampio ricorso proprio all'ampia facoltà di scelta lasciata ai Paesi membri per la selezione delle soluzioni normative con cui perseguire gli obiettivi fissati, interpretando il compito di attuare la Direttiva come se la mancata specificazione dei principi e criteri direttivi lo autorizzasse ad apportare qualsivoglia modifica al Codice.

Il che rappresenta a sua volta, evidentemente, una criticità di non poco momento, aggiungendo benzina sul fuoco, ed aggravando ancor di più, se possibile, il già spinoso problema dell'illegittimità costituzionale derivativa che vizia il Decreto 83/2022 per aver dato attuazione ad una legge di delegazione europea priva di principi e criteri direttivi.

L'illegittimità del d.lgs. n. 83/2022 per incompatibilità con i criteri dettati dalla legge-delega 155/2017

Ma altrettanto grave è poi la modalità con cui il Governo ha introdotto anche norme in contrasto con i criteri dell'originaria legge-delega n. 155/2017, sulla cui base il Codice è stato emanato.

A tal proposito è bene chiarire, preliminarmente, che, sebbene il d.lgs. n. 83/2022 venga solitamente denominato, vulgo, come “Secondo Correttivo”, esso ha assunto tale denominazione soltanto al limitato fine di segnalare, senza maggiore specificazione, che ha apportato varie integrazioni e modifiche al preesistente testo del Codice (ed era, nell'ordine, la seconda volta, dopo le correzioni apportate dal Primo Correttivo, d.lgs. n. 147/2020, questo sì effettivamente emanato in attuazione delle legge-delega 155/2017): punto e basta. Senza, dunque, voler significare anche che dette modifiche siano state disposte in forza dell'originaria legge-delega 155/2017.

Del resto, l'epigrafe stessa di tale d.lgs. non reca, a differenza di quella del d.lgs. n. 147/2020, alcun riferimento all'art. 1, comma 1, della l. n. 20/2019, che ha prorogato di due anni il potere di intervento correttivo del Governo in perdurante attuazione della legge-delega 155/2017, facendo invece solo riferimento all'attuazione della Direttiva (UE) 2019/1023.

Pertanto, non solo, in difetto di una norma di legge equi-ordinata alla l. n. 155/2017 che ne modificasse i criteri di delega, il Governo non avrebbe potuto introdurre norme in contrasto con questi ultimi, e a maggior ragione se avesse voluto profittare – ove ancora possibile - del periodo biennale di proroga del potere correttivo concesso dalla l. n. 20/2019 (sì che le norme integrative con cui avesse voluto modificare il d.lgs. n. 14/2019 avrebbero dovuto pur sempre rispettare i criteri di delega della l. n. 155/2017); ma, almeno in parte, il Governo non avrebbe potuto sottrarsi a tale obbligo di conformità nemmeno se in ipotesi vi fosse stato costretto dalla necessità di attuare – in via contestuale – anche la Direttiva Insolvency 1023/2019.

Una deroga ai criteri della legge-delega 155/2017 avrebbe potuto infatti, ed al limite, ritenersi possibile se i criteri di tale legge-delega fossero stati considerati – una volta entrata in vigore la Direttiva Insolvency 1023/2019, e quindi a causa di un fatto sopravvenuto – quantomeno in parte in contrasto con essa, quale normativa di rango superiore, ma ciò, beninteso, soltanto laddove questa ha posto obiettivi in modo prescrittivo esigendo soluzioni univoche quasi “forzate”. In tal caso (soltanto), infatti, il Governo avrebbe potuto in ipotesi giustificare l'introduzione di norme in contrasto con i criteri di delega della l. n. 155/2017 adducendo la mancanza di scelta nell'attuazione delle sovraordinate norme prescrittive della Direttiva Insolvency con essa incompatibili.

Come dicevo poc'anzi, però, il Governo ha in realtà fatto ampio utilizzo della pluriforme facoltà di scelta delle soluzioni normative con cui adeguare l'ordinamento italiano alla Direttiva Insolvency per realizzarne gli obiettivi, ma, nello sfruttare tale chance, avrebbe dovuto seguire un criterio di maggior prudenza e continenza, scegliendo solo le soluzioni che apparissero non in contrasto con la legge-delega 155/2017, e, al limite, avrebbe potuto anche non  sceglierne alcuna, nei casi in cui la Direttiva gli consentiva di fare anche questo.

Dunque, aver introdotto norme in contrasto con la legge-delega 155/2017 è stata comunque una scelta non solo discutibile, ma oggettivamente imprudente ed illegittima.

Né può seriamente dubitarsi del fatto che il d.lgs. n. 83/2022 abbia apportato alcune pesanti modifiche al testo del Codice anche in violazione dei criteri della legge delega 155/2017.

Basti pensare, solo per esemplificare, tra le varie modifiche di tal genere, all'introduzione del piano di ristrutturazione soggetto ad omologazione ex art. 64-bis CCII, introduzione ex novo che evidentemente la legge-delega 155/2017 non autorizzava affatto, né come nuovo strumento di risoluzione della crisi, né, ancor meno, per la deroga da esso perpetrata alle norme in tema di garanzia patrimoniale e par condicio ex artt. 2740 e 2741 c.c., che la legge-delega intendeva semmai preservare.

Appare ugualmente allotria ai criteri di delega della l. n. 155/2017 – per restare sul piano dei nuovi strumenti di risoluzione della crisi – anche l'introduzione del concordato semplificato per la liquidazione del patrimonio, in cui peraltro nemmeno è stato previsto il diritto di voto dei creditori, e ciò in aperto contrasto pure con la Direttiva Insolvency.

Ancora: l'introduzione della RPR (Relative Priority Rule) quale regola distributiva adottabile nel concordato in continuità aziendale non era stata affatto autorizzata dalla legge-delega 155/2017, e il Governo ben poteva evitare di inserirla nel Codice della crisi, visto che non ne era stata imposta l'obbligatoria adozione da parte della Direttiva Insolvency.

E gli esempi potrebbero continuare (…and so on).

Il tutto, avendo effettuato il Governo, per di più, una più che disinvolta ed arbitraria selezione delle modalità attuative della suddetta Direttiva, e determinando anche da questo punto di vista profili di illegittimità del d.lgs. n. 83/2022 ed in via conseguenziale anche del Codice della crisi.

In definitiva, non vedo altre vie d'uscita per salvare il Codice della crisi diverse da un rapido intervento del legislatore-Parlamento, che dovrebbe quindi emanare al più presto una legge ordinaria finalizzata sia a sanare il difetto di delega della l. n. 53/2021 onde realizzare una legittima(nte) attuazione della Direttiva Insolvency, sia per correggere il Codice espungendovi quelle norme introdotte con il d.lgs. n. 83/2022 che appaiano incompatibili sia con la legge-delega 155/2017, che con la Direttiva.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.

Sommario