Una recente sentenza della sesta sezione penale della Corte di Cassazione ritorna sulla definizione di mobbing, fattispecie di diritto giurisprudenziale caratterizzata da notevoli affinità con il whistleblowing, oggetto di recente disciplina da parte del legislatore con il d.lgs. n. 24/2023.
Il caso
La sentenza in commento, pronunciata dalla sesta sezione penale della Corte di Cassazione, affronta il tema dell'applicazione della fattispecie dei maltrattamenti ex art. 572 c.p. nel caso di condotte vessatorie attuate sistematicamente all'interno dell'ambiente lavorativo. Al di là dell'annosa questione che vede divise le sezioni della cassazione penale nella qualificazione giuridica del fenomeno del mobbing (con la quinta sezione orientata ad applicare la fattispecie degli atti persecutori ex art. 612-bis c.p. e la sesta sezione ancorata invece al risalente paradigma dei maltrattamenti disciplinati dall'art. 572 c.p.) (1), ciò che rileva ai fini del presente contributo è l'analisi del fenomeno operata dagli Ermellini sul piano della fattispecie costitutiva.
Nel caso in esame, infatti, nonostante la sussistenza di un formale e legittimo licenziamento disciplinare per giusta causa irrogato dal datore di lavoro alla dipendente, i giudici di legittimità hanno annullato la pronuncia di appello rilevando la sussistenza di un fenomeno di mobbing verticale (e quindi i presupposti per l'applicabilità della fattispecie dei maltrattamenti) sulla base di una pluralità di condotte indicative dell'abituale prevaricazione e umiliazione subita dalla lavoratrice, tra cui lo svolgimento di lavoro straordinario non retribuito, configurato nella pronuncia in commento come un obbligo di lavorare gratuitamente oltre l'orario di lavoro ordinario, di per sé sintomatico di un contesto maltrattante.
I principi di diritto e il contesto sistematico
I principi di diritto enunciati nella motivazione della sentenza richiamano un orientamento ormai radicato nella giurisprudenza della sesta sezione penale (e non solo), secondo cui “la condotta vessatoria integrante mobbing non è esclusa dalla normale legittimità delle iniziative disciplinari assunte nei confronti dei dipendenti mobbizzati” (cfr., ex multis, Cass. pen., sez. VI, 18 marzo 2009, n. 28553; Cass. pen., sez. VI, 8 marzo 2006, n. 234855).
In particolare, come può esservi mobbing anche in presenza di atti formalmente legittimi, così simmetricamente non ogni atto datoriale illegittimo può dar luogo, a cascata, a un fenomeno mobbizzante (cfr. Cass. pen., sez. VI, 21 settembre 2006, n. 31413).
Questo assunto, nell'ambito più squisitamente giuslavoristico (2), si traduce nel rilievo che “gli atti giuridici e i comportamenti materiali in cui si può manifestare il mobbing hanno in ogni caso, gli uni e gli altri, la duplice peculiarità di poter essere, se esaminati singolarmente, anche leciti, legittimi o irrilevanti dal punto di vista giuridico, e tuttavia di acquisire comunque il rilievo quali elementi della complessiva condotta caratterizzata nel suo insieme dall'effetto e talvolta, secondo alcuni, dallo scopo di persecuzione e di emarginazione” (cfr. Corte Cost., 19 dicembre 2003, n. 359; conf. Cass. 12 dicembre 2018, n. 32151; Cass. 10 novembre 2017, n. 26684; Cass. 24 novembre 2016, n. 24029; Cass. 6 agosto 2014, n. 17698).
Il “collante” necessario a tenere uniti atti e comportamenti che, di per sé, potrebbero anche avere valenza giuridicamente neutra, è dunque individuato dalla giurisprudenza nell'intento persecutorio, ovverosia nel «disegno persecutorio unificante, preordinato alla prevaricazione» (Cass., 27 aprile 2022, n. 13183, cit.; ex plurimis, Cass., 4 marzo 2021, n. 6079; Cass., 9 giugno 2020, n. 10992; cfr. D. Tambasco, In dubio pro mobber, in Labor, 18 maggio 2022).
Osservata da questa prospettiva, la legittimità dei singoli provvedimenti datoriali potrebbe rilevare indirettamente perché, in difetto di elementi probatori di segno contrario, sarebbe sintomatica della mancanza dell'elemento soggettivo (3) che -come accennato- deve sorreggere tutte le condotte unitariamente considerate ai fini della configurazione della fattispecie del mobbing (cfr. Cass. 12 dicembre 2018, n. 32151, cit.; Cass. 10 novembre 2017, n. 26684, cit.).
Oltre all'intento persecutorio, c'è un altro e diverso profilo che giustifica la responsabilità contrattuale del datore di lavoro per atti e provvedimenti che, singolarmente considerati, sarebbero legittimi o comunque giuridicamente neutri: si tratta dei principi di buona fede e correttezza(artt. 1175 e 1375 c.c.) cui deve ispirarsi lo svolgimento del rapporto di lavoro, che consentono un'interpretazione estensiva dell'art. 2087 c.c., norma di chiusura del sistema antinfortunistico (cfr. ex multis,Cass. 31 luglio 2023, n. 23216; nel merito, da ultimo, Trib. Bergamo, sez. lav., 3 maggio 2023, n. 385; in dottrina, S. Mazzamuto, Il mobbing, Milano, 2004, pp. 23-37).
In via conclusiva, riprendendo le considerazioni di un'acuta giurisprudenza di merito, l'utilità della complessa e articolata figura del mobbing costruita dal diritto vivente è quella di consentire uno sguardo teleologico di condotte disparate, stringendole in unità e facendone così emergere la complessiva illiceità, anche quando tale illiceità non sarebbe accertabile all'esito di una valutazione separata, atomistica e statica dei singoli comportamenti: la fattispecie del mobbing consente quindi di legare condotte che possono essere tipologicamente diverse, attraverso una loro lettura dinamico-diacronica (Trib. Brescia, sez. lav., 3 settembre 2020, n. 154, est. Corazza).
Whistleblowing e ritorsioni: la black list dell'art. 17, comma 4 d.lgs. n. 24/2023
Ciò che ormai da circa un ventennio si è cristallizzato nel diritto vivente nell'ambito del mobbing, di recente è stato codificato dal legislatore in attuazione della Direttiva Ue 2016/1937, relativa alla disciplina del whistleblowing.
Più precisamente, il d.lgs. 10marzo 2023, n. 24, concernente «la protezione delle persone che segnalano violazioni del diritto dell'Unione e recante disposizioni riguardanti la protezione delle persone che segnalano violazioni delle disposizioni normative nazionali», con riferimento alle misure di protezione dalle ritorsioni dei whistleblower ha introdotto, con l'art. 17, comma 4, una vera e propria black list contenente l'elencazione di una serie di possibili atti, provvedimenti e condotte ritorsive. Si tratta, più precisamente, di una lista omologa rispetto a quella contenuta nell'articolo 19 della citata direttiva eurounitaria.
Come evidenziato in altra sede (AA.VV., La nuova disciplina del whistleblowing dopo il d.lgs. 24/2023, Milano, p. 66, in corso di pubblicazione) la lista dettata dall'art. 17 d.lgs. n. 24/2023, lungi dal rappresentare un mero catalogo esemplificativo, configura al contrario una vera e propria presunzione di antigiuridicità degli atti e dei comportamenti ivi ricompresi. Le conseguenze pratiche sono analoghe a quelle dei casi che abbiamo appena citato in materia di mobbing: condotte o provvedimenti che in altre situazioni sarebbero legittimi, nello specifico contesto del whistleblowing vengono considerati “sospetti”, facendo conseguentemente scattare i meccanismi di protezione previsti ex lege (primo fra tutti la presunzione di nullità degli atti e provvedimenti ritorsivi susseguenti alla segnalazione, ai sensi dell'art. 17 comma 2 d.lgs. n. 24/2023). Ecco, dunque, che anche atti organizzativiper loro natura neutri come la mancata promozione, il mutamento di funzioni (anche in conformità all'art. 2103 c.c.), le valutazioni annuali negative o al ribasso, il mancato rinnovo di un contratto a termine, la modifica dell'orario di lavoro, il cambiamento del luogo di lavoro o dell'orario lavorativo, se inseriti nel mosaico del whistleblowing compongono una raffigurazione completamente diversa, acquisendo essi stessi un differente significato.
Le identità con la fattispecie giurisprudenziale del mobbing sono evidenti: del resto, il contenuto della “black list” introdotta dall'art. 17 d.lgs. n. 24/2023 riproduce molte delle azioni e dei comportamenti ricompresi nel LIPT (Leymann Inventory of Psychological Terror), ovverosia nel più importante test riconosciuto a livello scientifico quale standard per l'accertamento dell'esistenza del mobbing nei contesti organizzativi, elaborato da Heinz Leymann all'inizio degli anni Novanta del secolo scorso. Secondo la più autorevole dottrina, infatti, il whistleblowing può considerarsi a tutti gli effetti una sottocategoria del mobbing sul piano dell'intento persecutorio (cfr. H. Ege, La valutazione peritale del danno da mobbing e straining, Milano, 2019, p. 115).
Note
(1) Si rimanda alle note a sentenza di R. Guariniello, Stalking occupazionale: la sez. V si differenzia dalla sez. VI, in ISL Igiene e Sicurezza del lavoro, n. 6/2022, p. 336; Resiste il mobbing parafamiliare, in ISL Igiene e Sicurezza del lavoro, nn. 8-9/2021, p. 444.
(2) Ambito in cui la giurisprudenza (cfr. ex multis, Cass., sez. lav., 2 dicembre 2021, n. 38123; Cass., sez. lav., 4 marzo 2021, n. 6079; Cass., sez. lav., 29 dicembre 2020, n. 29767; Cass., sez. lav., 11 dicembre 2019, n. 32381) ha coniato una fattispecie “quadripartita”, in cui rilevano: (a) una serie di comportamenti di carattere persecutorio (illeciti o anche leciti se considerati singolarmente che, con intento vessatorio, siano posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi; (b) l'evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente; (c) il nesso eziologico tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psico-fisica e/o nella propria dignità; e (d) l'elemento soggettivo, cioè l'intento persecutorio unificante tutti i comportamenti lesivi.
(3) Ugualmente sintomatica dell'assenza di intento persecutorio è considerata la situazione di conflittualità lavorativa, che secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale è un fattore di esclusione del mobbing (ex multis, Cass. 14 ottobre 2021, n. 28120; Cass., 23 marzo 2020, n. 7487; Cass., 5 dicembre 2018, n. 31485; Cass., 10 novembre 2017, n. 26684; si veda anche D. Tambasco, Condizioni ambientali e personali di esclusione dell'intento persecutorio: quando viene negato il mobbing o lo straining, in IUS Lavoro, 12 luglio 2022). Tuttavia, secondo un differente orientamento giurisprudenziale, lo stato di conflittualità lavorativa non vale ad escludere la responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087 c.c., essendo suo preciso obbligo intervenire in chiave preventiva o quantomeno risolutiva dei contrasti eventualmente sorti sul luogo di lavoro tra dipendenti (cfr. Trib. Forlì, sez. lav., 6 febbraio 2003, est. Sorgi), rientrando nel più ampio «obbligo datoriale di assicurare, anche ai sensi dell'art. 2087 c.c., un ambiente idoneo allo svolgimento sicuro della prestazione, che dunque potrebbe non escludere l'inadempimento se il lavoro si manifesti in sé nocivo per la connotazione indebitamente stressogena» (cfr. Cass. Cass., sez. VI, 6 ottobre 2022, n. 29059); più in generale, sulla responsabilità datoriale nel caso di ambiente di lavoro colposamente e obiettivamente stressogeno, cfr. Cass. 11 novembre 2022, n. 33428; Cass. 15 novembre 2022, n. 33639; Cass. 30 novembre 2022, n. 35235; Cass. 7 febbraio 2023, n. 3692; si veda anche A. Rosiello, D. Tambasco, La lunga marcia dello stress lavoro-correlato nella giurisprudenza, in ISL Igiene e Sicurezza del lavoro, n. 2/2023, p. 77 e ss.; Lo slc nella giurisprudenza di legittimità: nuovi sviluppi, in ISL Igiene e Sicurezza del lavoro, n. 5/2023, p. 247 e ss.
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