Le Sezioni Unite sulla rilevanza probatoria, in tema di danni da emotrasfusione, del verbale della commissione medica
09 Ottobre 2023
Massima Nel giudizio risarcitorio promosso nei confronti del Ministero della Salute in relazione ai danni subiti per effetto della trasfusione di sangue infetto, il verbale redatto dalla Commissione medica di cui all'art. 4 della l. n. 210/1992 non ha valore confessorio e, al pari di ogni altro atto redatto da pubblico ufficiale, fa prova ex art. 2700 c.c. dei fatti che la commissione attesta essere avvenuti in sua presenza o essere stati dalla stessa compiuti, mentre le diagnosi, le manifestazioni di scienza o di opinione costituiscono materiale indiziario soggetto al libero apprezzamento del giudice che, pertanto, può valutarne l'importanza ai fini della prova, ma non può attribuire allo stesso il valore di prova legale. Nel medesimo giudizio, il provvedimento amministrativo di riconoscimento del diritto all'indennizzo ex lege n. 210/1992, pur non integrando una confessione stragiudiziale, costituisce un elemento grave e preciso da solo sufficiente a giustificare il ricorso alla prova presuntiva e a far ritenere provato, per tale via, il nesso causale, sicché il Ministero per contrastarne l'efficacia è tenuto ad allegare specifici elementi fattuali non potuti apprezzare in sede di liquidazione dell'indennizzo o sopravvenute acquisizioni della scienza medica, idonei a privare la prova presuntiva offerta dal danneggiato dei requisiti di gravità, precisione e concordanza che la caratterizzano. Nel giudizio di risarcimento del danno il giudicato esterno formatosi fra le stesse parti sul diritto alla prestazione assistenziale ex lege n. 210/1992 fa stato quanto alla sussistenza del nesso causale fra emotrasfusione e insorgenza della patologia ed il giudice del merito è tenuto a rilevare anche d'ufficio la formazione del giudicato, a condizione che lo stesso risulti dagli atti di causa. Il caso Tizio conveniva, dinanzi al tribunale di Roma, il Ministero della Salute e la casa di cura alfa, chiedendo il risarcimento dei danni subiti per il contagio del virus HIV conseguente ad un'emotrasfusione cui era stato sottoposto durante il ricovero presso la predetta struttura sanitaria. La domanda veniva accolta nei confronti del solo Ministero, con condanna di questo al risarcimento dei danni accertati a seguito di CTU. Il gravame principale proposto dal Ministero veniva rigettato dalla corte d'appello di Roma, che, in accoglimento dell'appello incidentale di Tizio, aumentava l'entità della somma oggetto di risarcimento. Il Ministero proponeva, quindi, ricorso per cassazione, deducendo, con il primo motivo, la violazione degli artt. 2043, 2735, 2733, 2700 c.c., e 116 c.p.c., nonché dell'art. 4 l. n. 210/1992, atteso che il giudice di merito, aderendo all'orientamento espresso da Cass. civ. n. 15734/2018, aveva ritenuto provato il nesso causale tra emotrasfusione e contagio unicamente sulla base dell'accertamento compiuto dalla commissione medico-ospedaliera di cui al predetto art. 4, finalizzato al riconoscimento dell'indennizzo previsto dalla l. n. 210/1992. Essendo la commissione un organo dello stesso Ministero della Salute, quest'ultimo non poteva, secondo la sentenza impugnata, contestare il nesso eziologico tra emotrasfusione e patologia, che doveva reputarsi fatto ormai indiscutibile e non bisognoso di prova. Tale tesi, secondo il ricorrente, contrastava, però, con il consolidato orientamento giurisprudenziale che, anche sulla base della differenza tra il diritto al risarcimento del danno ed il diritto all'indennizzo di cui alla l. n. 210/1992, attribuiva ai verbali delle commissioni mediche valenza meramente indiziaria in ordine agli accertamenti compiuti, compresi quelli inerenti al nesso causale, escludendo qualsiasi efficacia vincolante degli stessi nel successivo giudizio di risarcimento del danno da emotrasfusione. La questione Le molteplici questioni esaminate nella pronuncia in commento attengono, in sintesi, al valore, probatorio o di mero indizio, da attribuire, nel giudizio civile di risarcimento del danno da emotrasfusione promosso nei confronti del Ministero della Salute, al verbale della commissione medico-ospedaliera di cui all'art. 4 l. n. 210/1992, che abbia riconosciuto, nel procedimento amministrativo avente ad oggetto l'indennizzo previsto dalla predetta legge, la sussistenza del nesso causale tra l'emotrasfusione e la malattia insorta. In ragione della discrasia recentemente emersa nella giurisprudenza di legittimità, la terza sezione della Cassazione, con ordinanza interlocutoria del 31 ottobre 2022, n. 32077, ha rimesso gli atti al Primo Presidente per l'eventuale assegnazione alle Sezioni Unite della predetta questione. Le soluzioni giuridiche Il contrasto giurisprudenziale, come si evince anche dall'ordinanza interlocutoria, prende le mosse dalla tesi tradizionale, recepita da Cass. civ., sez. un., 11 gennaio 2008, n. 577, secondo cui i verbali della commissione medico-ospedaliera di cui all'art. 4 l. n. 210/1992 - istituita ai fini dell'indennizzo in favore di soggetti danneggiati da complicanze irreversibili a causa di vaccinazioni obbligatorie, trasfusioni di sangue e somministrazione di emoderivati - fanno piena prova, ai sensi dell'art. 2700 c.c., dei fatti che la commissione attesta essere avvenuti in sua presenza o essere stati dalla stessa compiuti, mentre le valutazioni, le diagnosi o, comunque, le manifestazioni di scienza o di opinione in essi contenuti costituiscono materiale indiziario soggetto al libero apprezzamento del giudice, il quale può valutarne l'importanza ai fini della prova, ma non può mai attribuire loro il valore di vero e proprio accertamento. In sostanza, il giudice può valutare sul piano probatorio i verbali delle predette commissioni mediche, ma non può attribuire agli stessi valore di accertamento definitivo ed indiscutibile, atteso che le deliberazioni collegiali mediche difettano di qualsiasi efficacia vincolante, di natura sostanziale e processuale, trattandosi di atti di natura non provvedimentale, strumentali al riconoscimento di prestazioni previdenziali ed espressione di mera discrezionalità tecnica (Cass. civ., 9 giugno 2015, n. 11889). Indipendentemente, quindi, dall'accertamento svolto in sede amministrativa ai fini del riconoscimento dell'indennizzo, il giudice deve raggiungere autonomamente la prova del nesso causale, potendo ricavare elementi solo presuntivi dall'accertamento di tale nesso compiuto dalle commissioni medico-ospedaliere (Cass. civ., 20 marzo 2018, n. 6843). Nel decennio successivo alla predetta pronuncia delle Sezioni Unite, la giurisprudenza di legittimità, compresa quella giuslavoristica, ha quindi rimesso al libero convincimento del giudice la valutazione dell'esito dell'accertamento effettuato dalle commissioni mediche, e ciò in generale per tutti gli accertamenti effettuati in seno ad un procedimento amministrativo finalizzato all'adozione di un dato provvedimento. Da tale consolidato orientamento ha preso le distanze Cass. civ., 15 giugno 2018, n. 15734, la quale ha, invece, statuito che, nel giudizio promosso dal danneggiato contro il Ministero della Salute, l'accertamento della riconducibilità del contagio ad una emotrasfusione, compiuto dalla commissione di cui all'art. 4 l. n. 210/92, in base al quale è stato riconosciuto l'indennizzo ai sensi di detta legge, non può essere messo in discussione dal Ministero, quanto alla riconducibilità del contagio alla trasfusione o alle trasfusioni individuate come causative di esso, ed il giudice deve ritenere detto fatto “indiscutibile e non bisognoso di prova”, in quanto, essendo la commissione organo dello Stato (come si evince dalla ricorribilità in via gerarchica contro il suo deliberato proprio al Ministro della Sanità), l'accertamento è da ritenere imputabile allo stesso Ministero. Dalla motivazione di tale innovativo arresto (confermato da Cass. civ., 5 settembre 2019, n. 22183, e Cass. civ., 30 giugno 2020, n. 13008) si evince che il principio affermato dalle Sezioni Unite nel 2008, in ordine alla efficacia non vincolante e unicamente indiziaria dell'accertamento compiuto dalla commissione medica, è utilizzabile solo nel caso in cui non vi sia identità di parti tra il procedimento amministrativo e quello giudiziale, ossia nel caso in cui il giudizio risarcitorio non sia stato promosso nei confronti del Ministero della Salute, bensì nei riguardi di una struttura sanitaria pubblica o privata, alla quale non risulterebbe opponibile l'accertamento compiuto dalla commissione ministeriale. In proposito, viene richiamata Cass. civ., 16 maggio 2017, n. 12009, secondo cui la sentenza di accertamento del diritto all'indennizzo ai sensi della l. n. 210/1992, emessa nei confronti del Ministero della Salute, non ha efficacia di giudicato nel successivo giudizio di risarcimento del danno promosso contro l'azienda ospedaliera, mancando il necessario presupposto dell'identità delle parti, ma assume valore di indizio, soggetto alla libera valutazione del giudice. Nella stessa direzione la successiva Cass. civ., 5 ottobre 2018, n. 24523, ha sottolineato che il nucleo della nuova impostazione risiede nell'identità delle parti, assumendo che la pronuncia di cessazione della materia del contendere, emessa nel giudizio intentato contro il Ministero della Salute per il riconoscimento dell'indennizzo di cui alla l. n. 210/1992, sul presupposto dell'accoglimento del ricorso amministrativo avverso il corrispondente diniego, ha efficacia di giudicato, circa la sussistenza del nesso causale tra le trasfusioni praticate al paziente e la patologia dallo stesso contratta, nel successivo giudizio di risarcimento del danno promosso contro il Ministero della Salute, sussistendo l'identità di parti che costituisce presupposto indispensabile per la configurazione del fenomeno del giudicato esterno. Analogamente, anche la recente Cass. civ., 13 maggio 2022, n. 15379, ha sostenuto che la pronuncia emessa nel giudizio intentato contro il Ministero della Salute per il riconoscimento dell'indennizzo ex l. n. 210/1992 ha efficacia di giudicato circa l'acquisizione della consapevolezza del nesso causale tra la somministrazione di emoderivati e la patologia contratta - funzionale all'individuazione del dies a quo della prescrizione del diritto al risarcimento del danno -, nel successivo giudizio risarcitorio promosso contro il Ministero della Salute, sussistendo l'identità di parti che costituisce presupposto indispensabile per la configurazione del fenomeno del giudicato esterno. Non sono, inoltre, mancate pronunce che, pur aderendo al nuovo indirizzo, ne hanno in parte attenuato la portata, riconoscendo al giudice la facoltà di disattendere il giudizio positivo già espresso dalla commissione medica in ordine alla sussistenza del nesso causale, motivando in ordine alle ragioni dell'esclusione di tale nesso (Cass. civ., 17 novembre 2021, n. 34885). Ebbene, a composizione di tale contrasto, le Sezioni Unite, nella pronuncia in commento, hanno disatteso l'orientamento più recente, ribadendo il tradizionale principio di diritto già enunciato da Cass. civ., sez. un., 11 gennaio 2008, n. 577, applicabile sia alle controversie promosse nei confronti delle sole strutture sanitarie che ai giudizi nei quali sia convenuto il Ministero. Richiamata l'ontologica diversità fra il diritto al risarcimento del danno, che presuppone un fatto illecito ex art. 2043 c.c., ed il diritto soggettivo alla prestazione assistenziale di cui alla l. n. 210/1992, che trova invece il suo fondamento nel dovere di solidarietà sociale di cui all'art. 2 Cost. e nell'esigenza di protezione sociale della malattia e dell'inabilità al lavoro di cui all'art. 38 Cost., le Sezioni Unite sono giunte alla conclusione – di rilievo già di per sé dirimente ai fini della soluzione della questione affrontata – che le commissioni mediche di cui alla l. n. 210/1992, come si evince dalle disposizioni normative che le riguardano, sono estranee all'organizzazione del Ministero della Salute e costituiscono, piuttosto, articolazioni del Ministero della Difesa, alle quali è affidata la competenza ad esprimere valutazioni tecniche strumentali all'adozione di provvedimenti riservati a Ministeri diversi da quello di appartenenza. A diversa conclusione non può pervenirsi sulla base dell'art. 5 l. n. 210/1992, che attribuisce al Ministero della Salute la competenza a decidere il ricorso avverso la decisione della commissione medica, in quanto si è in presenza di un ricorso gerarchico improprio, ravvisabile ogniqualvolta un'espressa disposizione di legge attribuisce il potere di decisione ad una determinata autorità, pur in assenza di rapporto gerarchico con quella che ha emanato l'atto, che dalla prima non dipende. Da ciò deriva che la commissione medica de qua non agisce quale organo del Ministero della Salute e la valutazione dalla stessa espressa impegna quest'ultimo, anche in sede amministrativa, nei soli limiti della disciplina dettata per il procedimento nel quale l'atto si inserisce. Peraltro, anche nello stesso giudizio inerente alla prestazione previdenziale, va escluso il valore di prova legale delle valutazioni della commissione medica, trovando applicazione l'art. 147 disp. att. c.p.c., secondo cui “sono privi di qualsiasi efficacia vincolante, sostanziale e processuale, ... le collegiali mediche, quale ne sia la loro natura”. Le stesse Sezioni Unite, nonché la giurisprudenza giuslavoristica, sia pure per commissioni mediche diverse da quella che qui viene in rilievo, hanno ripetutamente sostenuto che il giudizio formulato nella materia della previdenza ed assistenza obbligatoria dai collegi medici è espressione di discrezionalità tecnica, non amministrativa, ed è privo di efficacia vincolante, sostanziale e procedimentale, in quanto l'accertamento sanitario è solo strumentale e preordinato all'adozione del provvedimento di attribuzione della prestazione in corrispondenza delle funzioni di “certazione” assegnate alle indicate commissioni dal legislatore (Cass. civ., sez. un., 23 ottobre 2014, n. 22550; Cass. civ., sez. un., 23 novembre 2006, n. 24862). Viene, quindi, a cadere il presupposto su cui è fondato il nuovo orientamento inaugurato da Cass. civ., 15 giugno 2018, n. 15734, ossia che la commissione medica costituirebbe una branca del Ministero della Salute, in essa radicalmente e solidamente inserita e tale da rappresentarlo appieno, al punto che la sua valutazione positiva del nesso causale diventerebbe, più che un accertamento, una sorta di confessione, che vincolerebbe il Ministero non solo per l'emissione di un provvedimento relativo all'attribuzione di una prestazione assistenziale, ma anche in un giudizio civile risarcitorio basato proprio sul nesso eziologico tra emotrasfusione e patologia fonte di danni, essendo identico il nesso causale di cui si discuterebbe nell'uno e nell'altro caso. In realtà, a parte l'erronea qualificazione della predetta commissione come organo del Ministero della Salute, del quale la stessa non ha invero alcun potere rappresentativo, è significativo che il verbale della commissione non ha valore di prova legale, per espressa indicazione normativa (art. 147 disp. att. c.p.c.), neppure nel giudizio avente ad oggetto la prestazione assistenziale. Infine, l'affermazione, contenuta in Cass. civ. n. 15734/2018, secondo cui l'accertamento del nesso causale tra emotrasfusione e patologia, effettuato dalla commissione medica, non può essere contestato dal Ministero della Salute nel giudizio risarcitorio, assurgendo ad esternazione di natura confessoria e dispositiva da parte del Ministero stesso, risulta non condivisibile anche “per l'assorbente ragione che il nesso causale non è un fatto obiettivo, ma una relazione che lega un'azione o un'omissione ad una data conseguenza, che non si sarebbe verificata ove la condotta non fosse stata tenuta o l'azione doverosa non fosse stata omessa”. Infatti, a parte il diverso criterio di accertamento del nesso eziologico nella responsabilità civile (“più probabile che non”) ed in quella penale (“prova oltre ogni ragionevole dubbio”), all'affermazione o alla negazione del nesso causale si può giungere “solo all'esito di un complesso procedimento valutativo nel quale rilevano, oltre allo stato delle conoscenze scientifiche da apprezzare ai fini della cosiddetta causalità generale, gli elementi individualizzanti necessari per far ritenere concretizzata nel singolo caso all'esame del giudice la legge causale generale”. Se, quindi, non si è in presenza di un fatto obiettivo, opera il consolidato principio giurisprudenziale secondo cui la confessione non può avere ad oggetto giudizi, opinioni o assunzioni di responsabilità, e riguarda solo “fatti”, la cui qualificazione giuridica è comunque riservata al giudice (Cass. civ., sez. un., 25 marzo 2013, n. 7381; Cass. civ., 18 ottobre 2011, n. 21509). Osservazioni La pronuncia in esame, senz'altro condivisibile per aver confermato la tesi tradizionale riconducibile a Cass. civ., sez. un., 11 gennaio 2008, n. 577, si segnala anche per ulteriori questioni, di valenza processuale, strettamente connesse a quella sollevata con l'ordinanza interlocutoria della Terza Sezione della Suprema Corte. Prima di entrare nel merito di tali questioni, non può non rilevarsi che desta perplessità la perentoria affermazione secondo cui “il nesso causale non è un fatto obiettivo”. Costituisce, in realtà, opinione consolidata che il rapporto eziologico rientri tra gli elementi costitutivi oggettivi del fatto illecito, anche di quello di natura contrattuale. Il vero senso di tale asserzione si coglie tenendo conto della finalità della stessa, che è quella di escludere la configurabilità di una condotta confessoria del Ministero nell'accertamento del nesso causale tra emotrasfusione e contagio, nel senso che, trattandosi di “un complesso procedimento valutativo”, il nesso eziologico costituirebbe comunque il frutto di un giudizio, come tale non suscettibile di confessione. Sarebbe stato, allora, più corretto se la pronuncia in esame avesse sostenuto che il nesso causale è un fatto obiettivo che, però, in quanto espressione di un giudizio valutativo, non può costituire oggetto di confessione. Le Sezioni Unite si sono poi soffermate sulla questione dell'incidenza, nel giudizio civile di risarcimento del danno, dell'avvenuto riconoscimento in via amministrativa della prestazione assistenziale, nonché sulla questione dell'efficacia, nel medesimo giudizio risarcitorio, del giudicato formatosi fra le stesse parti sul diritto alla liquidazione dell'indennizzo ex l. n. 210/1992. Quanto alla prima problematica - una volta ribadito che i verbali delle commissioni mediche, al pari di ogni altro atto redatto da pubblico ufficiale, fanno prova ex art. 2700 c.c. dei fatti che la commissione attesta essere avvenuti in sua presenza o essere stati dalla stessa compiuti, mentre le diagnosi, le manifestazioni di scienza o di opinione costituiscono materiale indiziario soggetto al libero apprezzamento del giudice che, pertanto, può valutarne l'importanza ai fini della prova, ma non può mai attribuire a loro il valore di prova legale, né ritenere che la valutazione espressa dalla Commissione medica, circa la sussistenza del nesso causale fra emotrasfusione e malattia, escluda il nesso medesimo dal thema probandum del giudizio risarcitorio intentato nei confronti del Ministero - le Sezioni Unite precisano che la conclusione alla quale sono pervenute “non significa che nel giudizio promosso nei confronti del Ministero della Salute per il risarcimento del danno derivato dall'emotrasfusione l'accertamento effettuato in sede amministrativa del nesso causale fra quest'ultima e l'insorgenza della patologia non possa essere utilizzato ai fini della prova del nesso medesimo, che deve essere offerta dalla parte che agisce in giudizio”. Una particolare valenza, invero, assume il provvedimento amministrativo che, sulla base dell'istruttoria svolta e del parere tecnico acquisito, disponga, ex l. n. 210/1992, la liquidazione dell'indennizzo in favore del richiedente, sul presupposto dell'avvenuto accertamento in sede amministrativa di tutti i requisiti che integrano gli elementi costitutivi del diritto alla prestazione assistenziale. Fra detti elementi costitutivi rientra, appunto, il nesso causale che lega emotrasfusione e patologia indennizzata, sicché l'atto con il quale l'amministrazione si riconosce debitrice della provvidenza assistenziale presuppone la valutazione positiva della derivazione eziologica, valutazione che se da un lato, in quanto tale, non può integrare una confessione, dall'altro costituisce un elemento grave e preciso da solo sufficiente a giustificare il ricorso alla prova presuntiva e a far ritenere provato, per tale via, il nesso causale. E ciò anche in ragione del principio, più volte ribadito anche dalle stesse Sezioni Unite, secondo cui la prova presuntiva non assume un rango secondario o subordinato nella gerarchia delle prove rispetto alla prova diretta o rappresentativa, potendo il giudice far ricorso alla stessa anche in via esclusiva (Cass. civ., sez. un., 24 marzo 2006, n. 6572; Cass. civ., 27 novembre 1999, n. 13291). Pertanto, l'accertamento contenuto nel provvedimento amministrativo di liquidazione della prestazione assistenziale è sufficiente a far ritenere integrata una valida prova presuntiva ex art. 2729 c.c., con la conseguenza che l'amministrazione, nel giudizio di danno, non si può limitare alla generica contestazione del nesso causale ed all'altrettanto generica invocazione della regola di riparto dell'onere probatorio fissata dall'art. 2697 c.c., poichè la presunzione “forte” che dal riconoscimento amministrativo discende, seppure semplice e non legale, richiede, per essere superata, che vengano allegati specifici elementi fattuali non potuti apprezzare in sede di liquidazione dell'indennizzo o sopravvenute acquisizioni della scienza medica, idonei a privare la prova presuntiva offerta dei requisiti di gravità, precisione e concordanza che la caratterizzano. Infine, per quanto attiene alla questione inerente all'efficacia nel giudizio civile di risarcimento del danno del giudicato formatosi fra le stesse parti sul diritto all'indennizzo ex lege n. 210/1992, viene richiamato il tradizionale principio secondo cui “Qualora due giudizi tra le stesse parti abbiano riferimento al medesimo rapporto giuridico ed uno di essi sia stato definito con sentenza passata in giudicato, l'accertamento così compiuto in ordine alla situazione giuridica ovvero alla soluzione di questioni di fatto e di diritto relative ad un punto fondamentale comune ad entrambe le cause, formando la premessa logica indispensabile della statuizione contenuta nel dispositivo della sentenza, preclude il riesame dello stesso punto di diritto accertato e risolto, anche se il successivo giudizio abbia finalità diverse da quelle che hanno costituito lo scopo ed il petitum del primo” (Cass. civ., sez. un., 17 dicembre 2007, n. 26482). Nella specie, sull'unico rapporto giuridico che si instaura tra le parti all'atto della pratica dell'emotrasfusione, si innestano azioni distinte regolate dall'ordinamento che, pur nella loro autonomia, presentano una parziale comunanza di requisiti richiesti ai fini dell'insorgenza del diritto, sicchè l'accertamento definitivo di detti requisiti produce effetti anche nel giudizio nel quale quel medesimo elemento costitutivo è stato fatto valere per ottenere un bene diverso da quello già domandato. Tale orientamento è stato già applicato proprio in tema di rapporto fra il giudicato formatosi sull'azione proposta ex l. n. 210/1992 ed il successivo giudizio di risarcimento del danno, a condizione che quest'ultimo sia stato instaurato nei confronti del Ministero della Salute, legittimato passivo nella controversia assistenziale, sussistendo in tal caso l'identità di parti che costituisce presupposto indispensabile per la configurazione del fenomeno del giudicato esterno (Cass. civ., 13 maggio 2022, n. 15379; Cass. civ., 5 ottobre 2018, n. 24523), rilevabile d'ufficio dal giudice purchè risulti dagli atti di causa (Cass. civ., sez. un., 26 maggio 2001, n. 226). In conclusione, le Sezioni Unite hanno accolto il primo motivo di ricorso, con conseguente assorbimento degli altri, e rinviato alla corte d'appello per un nuovo esame della vicenda, da condurre nel rispetto dei principi di diritto enunciati in massima nella presente nota. |