“Valore di liquidazione” e “valori eccedenti” nel concordato preventivo: come calcolarli e distribuirli

Filippo Lamanna
13 Ottobre 2023

Il focus approfondisce uno dei profili maggiormente problematici del Secondo Correttivo al CCII, ovvero la mancata definizione dei concetti di “valore di liquidazione” e “valore eccedente quello di liquidazione” nel concordato preventivo. Sottoponendo a vaglio critico alcune delle tesi interpretative finora prospettate, l’Autore propone una ricostruzione logica della funzione e del contenuto di tali “valori”.

Il “valore di liquidazione”, i “valori eccedenti” e la loro mancata definizione concettuale

Il Secondo Decreto Correttivo (d.lgs. n. 83/2022), come ho già avuto modo di evidenziare (F. Lamanna, L'illegittimità costituzionale del Secondo Decreto Correttivo del Codice della crisi e dell'insolvenza e della l. n. 53/2021, in IUS Crisi d'impresa (ex IlFallimentarista), 2 ottobre 2023), inserendo nel corpo del Codice della crisi e dell'insolvenza norme sospette di incostituzionalità per difetto di delega, lo ha reso una sorta di “Dead Code Walking”.

Esaminare ed interpretare tali norme nel dettaglio è quindi, almeno allo stato attuale, un esercizio ad efficacia solo “virtuale” (ma lo sarà ancora per un certo tempo anche in futuro, fino a quando il legislatore non sarà intervenuto a “sanare” questa così grave situazione).

E però non ci si può comunque sottrarre alla necessità di analizzare ed interpretare le suddette norme, se non altro per segnalare i tanti profili critici che il legislatore dovrebbe e potrebbe eliminare proprio in occasione del prossimo, auspicato ed indispensabile intervento “risanatorio”.

Ebbene, uno dei profili critici più appariscenti del Secondo Correttivo è il fatto di non essersi attenuto ad una di quelle utili regole ordinanti che avevano positivamente caratterizzato la versione originaria del Codice. In particolare, quella di definire una volta per tutte in via generale e preventiva concetti e parole-chiave in modo da ridurre al minimo le pur inevitabili incertezze interpretative ed applicative che il linguaggio normativo implica naturaliter.

Mancano così – tra le tante – sebbene gli artt. 84,87 e 112, CCII (in particolare, ma non solo tali norme) dettino cruciali regole distributive proprio facendo riferimento alle relative nozioni, anche le  definizioni sia del “valore di liquidazione”, che pure il debitore deve indicare nel piano qualunque sia la tipologia di concordato proposta, che del “valore eccedente quello di liquidazione”, nozione rilevante invece nel solo concordato con continuità aziendale, nonché una chiara definizione del rapporto logico sussistente tra tali “valori” e le “risorse esterne” provenienti da terzi – anch'esse in qualche modo qualificabili come “eccedenze” (rispetto all'attivo concordatario “di base”) – che, pur potendo essere conferite in qualunque tipo di concordato, sono espressamente considerate dal Codice solo nell'ambito del concordato liquidatorio.

Che questo difetto possa determinare gravi incertezze nella concreta applicazione del Codice è di tutta evidenza, e ne sono una prova eloquente anche i contrasti interpretativi già registratisi finora sull'identificazione e sulla quantificazione dei predetti “valori”.

Potrebbe allora essere utile – per ridurre almeno in parte tali incertezze – sottoporre a vaglio critico alcune delle tesi interpretative finora prospettate, al fine di testarne la tenuta logica.

Il “valore di liquidazione”: che cos'è e come determinarlo e distribuirlo

L'art. 87 CCII impone di indicare nel piano (con riferimento a qualunque tipologia di concordato) “il valore di liquidazione del patrimonio, alla data della domanda di concordato, in ipotesi di liquidazione giudiziale” (comma 1, lett. c).

In difetto di una chiara esplicitazione della nozione “valore di liquidazione” così ellitticamente indicata, è evidentemente quanto mai opinabile stabilire a quale funzione assolva l'indicazione di tale valore nel piano e quale sia la modalità con cui esso dev'essere calcolato (qui limitandoci a considerare il valore di liquidazione complessivo, non invece quello riferibile ai singoli beni, che, al netto delle spese di liquidazione specifiche e di una quota di quelle generali – v. gli artt. 84, comma 5 e 88, CCII - , rileva per stabilire il trattamento riservato ai creditori prelazionari).

Occorre prendere atto di come, su questo problema, sia andata diffondendosi in dottrina l'ipotesi interpretativa – probabilmente suggerita dal riferimento comparativo fatto dalla suddetta disposizione normativa all'“ipotesi di liquidazione giudiziale” -, secondo cui l'indicazione del valore di liquidazione nel piano sarebbe funzionale al test di convenienza (o di “non pregiudizio”); servirebbe, cioè, per consentire ai creditori concorsuali di poter valutare, superando così l'asimmetria informativa che al riguardo li vede perdenti rispetto al debitore proponente (giacché essi non dispongono di tutti i dati di cui dispone quest'ultimo), se il concordato sia o meno più conveniente di un'alternativa liquidazione giudiziale ovvero se ciascun creditore riceva un trattamento non deteriore rispetto a quello che riceverebbe in caso di liquidazione giudiziale (sul punto, da ultimo, cfr. in giurisprudenza Trib. Lucca, 20 gennaio 2023, in DC).

In quest'ordine di idee si tende anche diffusamente a ritenere che, ai fini del calcolo del valore di liquidazione, proprio perché la sua funzione implicherebbe un giudizio comparativo con la soddisfazione realizzabile dai creditori nell'alternativo scenario della liquidazione giudiziale, andrebbero considerati anche gli importi realizzabili con il vittorioso esercizio di azioni revocatorie, risarcitorie e recuperatorie proponibili (solo) in caso di liquidazione giudiziale.

Non mi pare, però, che tali ipotesi interpretative siano desumibili sulla base di rigorose ed univoche inferenze logiche. Tutt'altro. Di seguito cerco di spiegare perché.

La correlazione logica tra il “valore di liquidazione” e la modalità con cui dev'essere distribuito ai creditori secondo la APR. La distinzione concettuale tra “valore di liquidazione” e “risorse esterne”

Se, da un lato, come ricordavo poc'anzi, il Codice esige che il valore di liquidazione sia indicato nel piano in qualunque tipologia di concordato, invece solo con riferimento espresso al concordato in continuità aziendale specifica quale sia la regola distributiva ad esso applicabile.

In particolare, nell'art. 84, comma 6, CCII viene puntualizzato che “Nel concordato in continuità aziendale il valore di liquidazione è distribuito nel rispetto della graduazione delle cause legittime di prelazione”.

Trova dunque applicazione, relativamente a tale parte dell'attivo distribuibile ai creditori concordatari, la regola della priorità assoluta (APR - absolute priority rule; conviene non dimeno precisare, per completezza, che, sebbene il Codice non specifichi espressamente come debba essere distribuito il valore di liquidazione nel concordato liquidatorio, il criterio applicabile – che è sempre quello della APR – si desume comunque indirettamente ed implicitamente, tra l'altro, dal quarto comma dell'art. 84, CCII laddove, a proposito appunto del concordato liquidatorio, si considera possibile quale unica deroga agli artt. 2740 e 2741 c.c., dunque alla graduazione secondo la regola della priorità assoluta, la distribuzione da effettuare con le “risorse esterne” provenienti dai terzi, sì che, al di fuori di tale caso, la regola distributiva non può che essere quella tradizionale della graduazione secondo la APR).

La medesima disposizione normativa soggiunge, sempre con riferimento al concordato in continuità aziendale, che il “valore eccedente quello di liquidazione” può essere distribuito secondo la regola della priorità relativa (RPR – relative priority rule), sempre che il debitore preferisca adottare quest'ultima (è infatti lasciata al debitore la facoltà di scelta discrezionale sul se adottare la APR o la RPR sul valore eccedente quello di liquidazione).

In base a tale regola “è sufficiente che i crediti inseriti in una classe ricevano complessivamente un trattamento almeno pari a quello delle classi dello stesso grado e più favorevole rispetto a quello delle classi di grado inferiore”.

Ebbene, la suddetta disposizione rende chiaramente desumibile la principale funzione assolta dall'indicazione del valore di liquidazione nel piano di concordato: essa serve per individuare la parte dell'attivo distribuibile secondo la APR.

Tale funzione, peraltro, deve intendersi estesa a qualunque tipologia di concordato, anche se l'art. 84 comma 6 fa riferimento solo al concordato in continuità aziendale.

Infatti, come già rilevato sopra, la APR deve intendersi applicabile anche al concordato liquidatorio e, del resto, ai sensi dell'art. 87, comma 1, lett. c), CCII il valore di liquidazione va indicato sempre nel piano, di qualunque tipologia di concordato si tratti, né è rintracciabile un qualche diverso riferimento normativo che possa autorizzare a ritenere che la sua funzione cambi a seconda della tipologia di concordato.

La correlazione logico-funzionale tra valore di liquidazione e regola distributiva ad esso applicabile (APR) è dirimente anche per stabilire quali parti dell'attivo vadano a comporre il valore di liquidazione, lasciando desumere le relative modalità di calcolo.

In primo luogo, come testé rilevato, resta per definizione fuori dal valore di liquidazione, ovviamente, ciò che nel concordato in continuità aziendale, a norma dell'art.84 comma 6, gli è “eccedente” (il “valore eccedente quello di liquidazione”), che può essere invece distribuito secondo il diverso criterio della RPR.

Al riguardo è andata diffondendosi l'idea che tale valore eccedente sia il puro e semplice surplus da continuità, ossia quanto realizzabile nel concordato dopo la presentazione della domanda per effetto della prosecuzione dell'attività d'impresa. Si tratterebbe, in pratica, delle sopravvenienze derivanti dall'esercizio di tale utile gestione, che si aggiungono al patrimonio concordatario staticamente fotografato alla data della domanda.

La tesi può essere condivisa ed anzi esprime un criterio logico valevole anche per l'altra tipologia di “valore eccedentario”, quella riguardante le “risorse esterne”.

Soccorre al riguardo l'art. 84, comma 4, CCII secondo il quale nel concordato con liquidazione del patrimonio la proposta deve prevedere un apporto di risorse esterne che incrementi di almeno il 10% l'attivo disponibile al momento della presentazione della domanda.

Le “risorse esterne” sono dunque aggiuntive rispetto all'attivo disponibile al momento della presentazione della domanda e quindi sono concettualmente diverse da esso, anche se, evidentemente, dovrebbero andare poi ad incrementare proprio quell'attivo.

Soggiunge la norma che tali risorse possono essere distribuite in deroga agli artt. 2740 e 2741 del Codice civile (purché sia rispettato il requisito del soddisfacimento dei creditori chirografari e dei creditori privilegiati degradati per incapienza in misura non inferiore al 20 % del loro ammontare complessivo).

Anche questa disposizione pone dunque una diretta correlazione logico-funzionale tra una componente attiva (le “risorse esterne”, appunto) e la regola distributiva ad essa applicabile (la deroga alla graduazione e alla par condicio).

Collegando fra loro le tre componenti dell'attivo finora considerate e le relative regole distributive ad esse distintamente applicabili, si desume in che modo debba essere calcolato il valore di liquidazione.

Esso non comprende né il surplus da continuità, né le risorse esterne.

Ma questo già esclude l'attendibilità della tesi che attribuisce al valore di liquidazione la funzione di consentire il test di convenienza. Infatti, se il valore di liquidazione non comprende né il surplus da continuità, né le risorse esterne, non si vede in che modo il valore di liquidazione potrebbe far emergere, da solo, la convenienza del concordato preventivo rispetto alla liquidazione giudiziale.

In realtà il test di convenienza presuppone che vengano sommati al valore di liquidazione anche il surplus da continuità e le risorse esterne, e sarà questa somma complessiva ad indicare se il concordato sia o meno più conveniente (o “non pregiudizievole”) rispetto alla liquidazione giudiziale.

La diversa funzione sottesa all'indicazione, nel piano, delle azioni esperibili nel concordato o solo nella liquidazione giudiziale

Le puntualizzazioni appena fatte potrebbero mitigare, quanto meno in una certa misura, anche gli effetti dell'ulteriore grave pecca omissiva del Codice per non aver chiarito che rapporto vi sia tra l'indicazione del “valore di liquidazione” richiesta dalla lett. c) dell'art. 87 e l'ulteriore indicazione, richiesta dalla lett. h) della medesima norma, dell'attivo realizzabile mediante l'esercizio di azioni giudiziali, sia quelle proponibili (anche) nel concordato, sia quelle proponibili nella sola liquidazione giudiziale.

A mente dell'art. 87 comma 1, lett. h), CCII, infatti, nel piano di concordato (ancora una volta con riferimento a qualunque tipologia di concordato) devono essere distintamente indicate, da un lato, “le azioni risarcitorie e recuperatorie esperibili”, e, dall'altro, “le azioni eventualmente proponibili solo nel caso di apertura della procedura di liquidazione giudiziale” e, in entrambi i casi, “le prospettive di realizzo”.

Stante la palese diversità delle due tipologie di “azioni” in oggetto, che sembra focalizzata sul distinto contesto procedimentale in cui le azioni stesse possono essere esperite, sembra di poter ragionevolmente concluderne che la prima tipologia, inerente alle “azioni risarcitorie e recuperatorie esperibili”, si risolva nelle sole azioni proponibili (anche) nel concordato preventivo. La funzione della loro indicazione nel piano non può che essere allora quella di dare contezza anche di queste fonti generatrici di attivo. Il risultato utile di queste azioni sarà dunque destinato, al pari di ogni altro bene o diritto ricompreso nel patrimonio responsabile, a copertura del fabbisogno concordatario e alla soddisfazione dei creditori.

L'ulteriore indicazione da inserire nel piano e riguardante “le azioni eventualmente proponibili solo nel caso di apertura della procedura di liquidazione giudiziale” – la quale trova poi corrispondenza anche nell'art. 105, comma 2, CCII, laddove si prevede che il commissario giudiziale debba illustrare nella sua relazione “le utilità che, in caso di liquidazione giudiziale, possono essere apportate dalle azioni risarcitorie, recuperatorie o revocatorie che potrebbero essere promosse nei confronti di terzi” – è evidentemente richiesta, proprio in quanto ha ad oggetto azioni non proponibili nel concordato, ma solo in una liquidazione giudiziale, non più per dar conto degli assets con cui soddisfare i creditori concordatari, ma esclusivamente per consentire ai creditori concorsuali di poter valutare – superando così la già detta asimmetria informativa che al riguardo li vede perdenti rispetto al debitore proponente - se il concordato sia o meno più conveniente di un'alternativa liquidazione giudiziale.

Tra l'art. 87, comma 1, lett. h), CCII da un lato, e l'art. 105, comma 2, CCII dall'altro, cambia solo l'esplicito riferimento alle azioni risarcitorie, recuperatorie o revocatorie proponibili solo nella liquidazione giudiziale, che si rinviene nell'art. 105 ma non nell'art. 87, anche se la differenza è solo apparente, tenuto conto che le azioni revocatorie etc. ben possono ricomprendersi tra le azioni – indicate nell'art. 87 in senso generico - “eventualmente proponibili solo nel caso di apertura della procedura di liquidazione giudiziale”, di cui deve esservi indicazione nel piano.

Questa indicazione, peraltro, dovrà essere sviluppata dal debitore ricorrente anche in senso argomentativo e supportata poi, (solo) nel concordato con continuità aziendale, anche da un documento certificativo: da un lato, infatti, è previsto dall'art. 87, comma 2, con riguardo ad ogni tipologia di concordato, che “nella domanda il debitore indica le ragioni per cui la proposta concordataria è preferibile rispetto alla liquidazione giudiziale”, specificazione che sarà evidentemente tanto più necessaria proprio quando ed in quanto nell'alternativa liquidazione giudiziale siano esperibili azioni (revocatorie, recuperatorie e risarcitorie) non esercitabili nel concordato (ma del resto, in linea generale, l'art. 84, comma 1, CCII pur nel distinguere le varie tipologie di concordato, attribuisce loro la comune funzione del “soddisfacimento dei creditori in misura non inferiore a quella realizzabile in caso di liquidazione giudiziale”); e, dall'altro, l'art. 87 comma 3 esige – ma nel solo caso di concordato in continuità aziendale - che nella relazione attestativa il professionista attestatore svolga una valutazione ad hoc specificando “che il piano è atto (…) a riconoscere a ciascun creditore un trattamento non deteriore rispetto a quello che riceverebbe in caso di liquidazione giudiziale”.

Sia l'indicazione delle azioni esperibili nella sola liquidazione giudiziale, sia le ragioni che renderebbero più conveniente il concordato, sia, infine, l'attestazione di “non pregiudizio” (ovvero di “trattamento non deteriore”) saranno poi sottoposte al vaglio critico del commissario giudiziale.

In buona sostanza, la duplice indicazione nel piano delle azioni esperibili sottende una diversa funzione informativa: per un verso quella di informare in modo completo i creditori sulla consistenza dell'attivo concordatario in quanto possano ricomprendersi in esso gli importi realizzabili anche attraverso l'esercizio di azioni “risarcitorie e recuperatorie”; per altro verso, quella di informarli (per effettuare il test di convenienza ovvero di “non pregiudizio”) sul se la maggior consistenza dell'attivo realizzabile nella liquidazione giudiziale mediante l'utile esercizio di azioni (risarcitorie, recuperatorie o revocatorie) proponibili solo in tale procedura, sia o meno compensata ed eventualmente superata dalle risorse offerte dal debitore con il piano di concordato.

La maggior convenienza della liquidazione giudiziale rispetto al concordato ricorrerà, in effetti, quando il maggior realizzo ottenibile in essa mediante l'esercizio vittorioso di azioni revocatorie-recuperatorie-risarcitorie sia superiore, nel confronto con il concordato liquidatorio, all'entità dei sempre necessari apporti esterni dei terzi (che devono incrementare l'attivo di almeno il 10%) e, nel confronto con il concordato in continuità aziendale, oltre che all'entità degli apporti esterni dei terzi (in tal caso solo eventuali e facoltativi) anche di quanto autonomamente ed eventualmente realizzabile attraverso la continuità aziendale.

Non potranno invece incidere, nella maggior parte dei casi, sul profilo attinente alla convenienza, le azioni del primo tipo sopra indicate, ossia le (sole) “azioni risarcitorie e recuperatorie esperibili nel concordato”, trattandosi di azioni che, pur essendo le sole che possono esperirsi nel concordato (non essendo esperibili in esso le revocatorie ecc.), possono però parimenti esperirsi – almeno di norma – anche nella liquidazione giudiziale.

In forza del succitato art. 87 comma 1, vanno altresì puntualizzate nel piano “le prospettive di realizzo” connesse alle azioni, sia dell'uno che dell'altro tipo, con una sorta di prognosi proiettata fino al probabile esito dei procedimenti giudiziari da instaurare (prognosi ovviamente da effettuare in modo argomentato e prudenziale, evitando di sotto- o sovra-stimare i risultati attesi).

Secondo la tesi che qui si preferisce, il dubbio sul se l'attivo realizzabile con l'esercizio delle azioni sia da includere o meno nel valore di liquidazione, dovrebbe sciogliersi dunque in senso positivo quanto alle (sole) azioni proponibili nel concordato, mentre, all'opposto, in senso negativo, quanto alle azioni “fallimentari”.

Quanto alle prime, una modesta perplessità circa l'inclusione nel valore di liquidazione potrebbe sussistere solo in ragione della necessità di parametrare questo valore, come esige l'art. 87 lett. c), CCII, alla data della domanda di concordato, tenuto conto che le azioni proponibili nel concordato non potranno che essere proposte in una data successiva a quella di presentazione della domanda ed avere un esito (oggettivamente incerto) ancor più lontano nel futuro. Nondimeno, però, il dubbio può positivamente sciogliersi ritenendosi che tale realizzo, per quanto potenziale, sia già in nuce quantificabile come parte dell'attivo esistente al momento della domanda qualora l'esito vittorioso sia altamente probabile (e, ai fini della quantificazione, potendo attualizzarsi finanziariamente alla data della domanda, come per ogni altra sopravvenienza futura, il risultato atteso dopo mesi o anni dall'inizio del concordato).

Né pare ragionevole una diversa soluzione, tenuto conto che l'alternativa potrebbe essere solo quella – valevole peraltro per il solo concordato in continuità aziendale - di ascrivere tale realizzo al surplus da continuità, il che, però, andrebbe a contraddire la necessità – implicata dal relativo concetto – che si tratti di attivo generato appunto dalla continuità (e non dal semplice esercizio di azioni che potrebbero evidentemente essere proposte anche in un concordato liquidatorio).

La soluzione opposta (nel senso della non inclusione nel valore di liquidazione) sembra imporsi invece quanto alle ulteriori azioni da indicare nel piano in relazione all'alternativa costituita dall'ipotesi di liquidazione giudiziale (“le azioni eventualmente proponibili solo nel caso di apertura della procedura di liquidazione giudiziale”).

Esse, infatti, come già detto poc'anzi, vanno indicate solo al precipuo fine di consentire una valutazione in ordine alla convenienza del concordato, visto che non saranno mai esperite nel concordato stesso e non potranno quindi apportare alcun realizzo da includere nel patrimonio soggetto a liquidazione; né – del resto - gli artt. 84 o 87 in qualche modo sembrano prevedere - esplicitamente o anche solo implicitamente – che il loro utile esercizio possa costituire una componente del “valore di liquidazione”.

Non andrebbe quindi affatto confusa la funzione di supporto alla valutazione di convenienza del concordato che assolve l'indicazione nel piano delle azioni revocatorie e delle altre azioni esercitabili solo dal curatore nella liquidazione giudiziale, con la funzione assolta dall'indicazione del “valore di liquidazione”, il quale è apparentemente destinato solo a misurare il valore degli assets ricompresi nell'attivo patrimoniale distribuibile ai creditori concordatari, al netto dell'eventuale surplus da continuità e da eventuali apporti gratuiti provenienti da terzi.

Non avrebbe senso, del resto, come si evidenziava testé, ipotizzare che nel concordato preventivo possa distribuirsi come “valore di liquidazione” il realizzo di azioni revocatorie che mai potrebbero essere proposte durante il concordato.

Il valore di liquidazione, in altre parole, è, e non può che essere, solo quello afferente agli assets concordatari, non invece quello afferente all'utile esercizio di azioni che potrebbero proporsi solo nella liquidazione giudiziale.

D'altra parte, il raffronto con quanto ricavabile in una liquidazione giudiziale, ai valori caratteristici di questa, avendo come base lo stesso patrimonio, per definizione non può essere affatto considerato come direttamente funzionale ad una valutazione di convenienza, proprio perché il valore viene assunto come unico ed identico, per entrambe le procedure.

In altre parole, se il debitore deve indicare come realizzabile nel concordato, liquidando i propri beni, lo stesso valore che potrebbe essere realizzato con gli stessi beni in un'alternativa liquidazione giudiziale, non vi è spazio per valutare sulla base di questo solo dato la convenienza di una procedura rispetto all'altra, valutazione riservata solo quando si possa stimare l'entità delle eccedenze che, comparativamente, può assicurare l'una rispetto all'altra (la liquidazione giudiziale con l'esercizio di azioni revocatorie ecc. che siano riservate all'esclusiva competenza e legittimazione del curatore, ed il concordato con gli apporti esterni di terzi, o, nel concordato in continuità aziendale, con il realizzo di un surplus da continuità).

Tale conclusione, peraltro, sembra porsi in linea anche con la Direttiva Insolvency 1023/2019, visto che essa, indicando il contenuto minimale di un piano di ristrutturazione, prescrive – tra l'altro - che siano indicate “le attività e le passività del debitore al momento della presentazione del piano di ristrutturazione, compreso il valore delle attività (…)” (art. 8, par. 1, lett. b).

A sua volta il testo della Proposta di Direttiva 2016/359, costituente il prodromo della Direttiva Insolvency, esigeva l'indicazione di “b) una valutazione del valore corrente del debitore o dell'impresa del debitore”, lasciando ancor più sintomaticamente intendere che il valore da indicare avrebbe dovuto essere circoscritto ai soli assets rientranti nell'attivo idonei a misurare l'entità del patrimonio da distribuire ai creditori o da ristrutturare.

In sostanza, proprio il valore delle attività cui si riferisce la Direttiva rappresenta ciò che il Codice denomina valore di liquidazione ed esso, anche stando alla fonte europea, dovrebbe essere un valore calcolato, proprio allo stesso modo di come previsto dal Codice, al momento della presentazione del piano di ristrutturazione.

Ha senso invece calcolare il quantum realizzabile con l'esercizio di azioni che potrebbero proporsi solo nella liquidazione giudiziale, come dicevo poc'anzi, solo ai fini del test di convenienza, appunto e proprio perché solo in caso di liquidazione giudiziale i creditori potrebbero fruire di tale risorsa aggiuntiva. Ma tale diverso valore è per definizione estraneo (ed aggiuntivo rispetto) al valore di liquidazione dei beni concordatari.

La tesi che considera come parte del valore di liquidazione anche quanto realizzabile con le azioni proponibili solo in caso di liquidazione giudiziale è dunque da ritenere, se si concorda con le inferenze argomentative fin qui esposte, logicamente inattendibile.

Fermo restando questo punto, può non dimeno risultare utile. nel quadro dei contigui ma distinti concetti di “valore di liquidazione”, “valore eccedente quello di liquidazione” e “risorse esterne” così delineato, qualche ulteriore puntualizzazione.

La data di calcolo del valore-prezzo di liquidazione e i limiti di rilevanza delle variazioni successive

Il Codice, come si è detto, stabilisce che il valore-prezzo di liquidazione dev’essere calcolato al momento della domanda.

Da tale previsione derivano vari corollari.

Il primo è che variazioni del valore-prezzo che si verifichino successivamente a tale data possono incidere solo per i beni che poi vengano effettivamente venduti, poiché solo in tal caso dovrà e potrà essere effettivamente distribuito l’eventuale maggior realizzo degli assets liquidati, con effettuale beneficio per alcuni creditori.

In caso di minor realizzo, invece, dovrebbe essere distribuito esattamente quello che era stato indicato in origine come valore di liquidazione, stante la promessa contenuta nella proposta, esternata anche nel piano.

Da qui la necessità che il commissario giudiziale svolga un controllo rigoroso sulle assunzioni estimative del debitore, onde evitare che sotto- o sovra-stime dell’attivo da indicare all’inizio come valore di liquidazione possano poi distorcere il rapporto tra questo valore e quanto distribuibile con il surplus da continuità o con quanto apportato da terzi per compensare monetariamente l’equivalente dei beni non venduti.

Nessun rilievo avrà invece una variazione del valore-prezzo di vendita di beni che non vengano effettivamente venduti, poiché un maggiore o minor valore che essi potrebbero subire per ragioni di mercato in epoca successiva alla presentazione della domanda non potrebbero che restare a vantaggio o a danno del debitore come effetto solo virtuale/potenziale intrinseco ai beni stessi, mai emergente, però, nella realtà effettuale, proprio a causa della mancata liquidazione.

Se la RPR possa sempre applicarsi al “valore eccedente quello di liquidazione”

Secondo un'opinione alquanto diffusa, il valore eccedente quello di liquidazione sarebbe un valore differenziale: dal valore totale del patrimonio concordatario calcolato in esito alla procedura (talora sinteticamente appellato come “valore complessivo da continuità”) andrebbe sottratto il valore di liquidazione iniziale, e la differenza sarebbe appunto il valore eccedente quello di liquidazione”.

Anche in tal caso sembra farsi confusione tra due aspetti, che bisognerebbe tenere invece separati.

Un conto, infatti, è stabilire che cosa sia il valore eccedente quello di liquidazionee, a tale proposito, non credo sia dubitabile che esso si risolva, in effetti, almeno se inteso stricto sensu, nel surplus da continuità.

Altro è però ritenere che esso assorba tutto il differenziale rispetto al valore di liquidazione, perché, inteso in tal senso, finisce per legittimare l'idea – infondata - che l'intero surplus possa essere distribuito con la RPR, il che non è affatto vero.

Se è vero, come si è detto sopra, che il legislatore ha lasciato al debitore la facoltà di scegliere se avvalersi o meno della RPR nel distribuire il surplus da continuità, tale facoltà trova però un intrinseco limite oggettivo in ragione dell'interesse del debitore a non privarsi, cedendoli, dei beni “strategici”, essendo questi funzionali alla continuità aziendale.

A differenza di quanto comunemente opinato, infatti, secondo cui il valore di liquidazione potrebbe essere distribuito senza che ne risulti intaccato il surplus da continuità, il quale sarebbe quindi per intero distribuibile con la RPR; al contrario, quasi sempre accadrà che una parte degli assets concordatari, quelli strategici, non verrà liquidata (ceduta, venduta) a terzi, derivandone per ciò stesso che il relativo valore-prezzo, quale componente pro quota del complessivo valore di liquidazione destinato comunque alla soddisfazione dei creditori e da realizzare applicando la APR, non potrà che essere distribuito utilizzando risorse disponibili diverse dal valore di liquidazione, ossia – in ultima analisi – proprio ed anzitutto utilizzando il surplus da continuità, in tutto o per una sua parte, sicché il valore eccedente quello di liquidazione potrà essere liberamente distribuito, in realtà, con la RPR,  solo per la parte eccedente quella necessaria a coprire il valore (di liquidazione) di cespiti che non vengano liquidati e venduti.

Ho già avuto modo di evidenziare questo aspetto cruciale commentando il Codice nella versione finale post-Secondo Correttivo (F. Lamanna, Il Codice della crisi e dell'insolvenza dopo il secondo correttivo, Milano, Giuffrè Francis Lefebvre, 2022, 467 e ss.), laddove ponevo in rilievo, in particolare, la rarità dei casi in cui la RPR può concretamente applicarsi, proprio perché il debitore è comunque tenuto, nel concordato in continuità aziendale, a soddisfare i creditori distribuendo sempre almeno un valore corrispondente all'intero patrimonio attivo esistente al momento della domanda (anche se può trattenere per sé, nel concordato in continuità aziendale, una parte dei beni che compongono il patrimonio responsabile), valore che appunto si identifica con il “valore di liquidazione”, con la conseguenza che se, come solitamente avviene, il debitore progetta di liquidare solo una parte di tale attivo costituita dai beni non funzionali, conservando per l'esercizio in continuità dell'azienda i beni “strategici”, per coprire la parte del valore di liquidazione mancante e corrispondente ai beni non liquidandi non potrà che utilizzare, “consumandolo” in tutto o in parte in modo quantitativamente corrispondente, il surplus da continuità.

Evidenziavo altresì, in quel commento, come paradossalmente – e controintuitivamente – è nel  concordato in continuità aziendale indiretta che è più facile utilizzare per intero, o quasi per intero, il surplus da continuità, almeno nel caso in cui durante la fase endo-concordataria compresa tra la data della domanda e la data dell'omologa l'azienda venga data in affitto a terzi, poiché allora i canoni ricevuti in tale lasso di tempo andranno a costituire per definizione un'eccedenza rispetto al valore di liquidazione del patrimonio - costituito dall'azienda da cedere poi a un terzo o da conferire in una società – calcolato alla data della domanda.

Traendo le fila da quanto sin qui evidenziato, deve concludersene, pertanto, che, pur coincidendo concettualmente il “valore eccedente quello di liquidazione” con il surplus da continuità, esso solo in parte, di norma, fatti salvi i casi particolari come quello dell'affitto in continuità indiretta e simili, potrà essere distribuito per intero con la RPR, poiché più frequentemente dovrà invece sempre distribuirsi, per almeno una sua parte, con la APR (regola peraltro sempre e comunque applicabile a favore dei lavoratori assistiti dal privilegio di cui all'articolo 2751-bis, n. 1, c.c., non solo sul valore di liquidazione, ma anche su quello eccedente, anche) a copertura del valore dei beni strategici di cui non si progetti la cessione a terzi.

Le risorse esterne: che cosa sono e come determinarle e distribuirle

Il concetto di “risorse esterne” ha, com'è ben noto, origine giurisprudenziale.

È stata infatti la S. Corte, in particolare, a chiarire, con sentenzaCass. civ., sez. I, 8 giugno 2012, n. 9373, che la deroga alla graduazione e alla par condicio è possibile solo in caso di apporti di terzi che siano neutrali rispetto allo stato patrimoniale del debitore, non comportando né un incremento dell'attivo patrimoniale sul quale i crediti privilegiati dovrebbero in ogni caso essere collocati secondo il loro grado, né un aggravio del passivo con il riconoscimento di ragioni di credito a favore dei terzi conferenti.

Tale nozione è stata poi travasata formalmente nel Codice della crisi e dell'insolvenza, ma, ed espressamente, solo con riferimento al concordato liquidatorio.

L'art. 84, comma 4, CCII puntualizza, infatti, che tali risorse devono incrementare di almeno il 10 % l'attivo disponibile al momento della presentazione della domanda e possono essere distribuite in deroga agli artt. 2740 e 2741 c.c. (ma sempre che sia rispettato il requisito del soddisfacimento dei creditori chirografari e dei creditori privilegiati degradati per incapienza in misura non inferiore al 20 % del loro ammontare complessivo).

Il fatto che le dette risorse siano state contemplate solo a proposito del concordato liquidatorio non significa, però, che esse siano un asset estraneo al concordato in continuità aziendale, né che in tale ultima tipologia di concordato esse non siano liberamente distribuibili in deroga agli articoli 2740 e 2741 c.c. come esplicitamente previsto per il concordato liquidatorio.

Come osservavo testé, infatti, la nozione di risorse esterne è di origine giurisprudenziale ed è stata travasata espressamente nell'art. 84 comma 4, a proposito del (solo) concordato liquidatorio, esclusivamente perché è in tale tipologia di concordato che l'apporto di risorse esterne non è solo un evento accidentale, ma è sempre un requisito indefettibile di ammissibilità, rapportato, per di più, ad una ben precisa misura minimale (apporto incrementale di almeno il 10%).

Nel concordato in continuità aziendale, invece, l'apporto di risorse esterne non è un fattore determinante, né elemento necessario ed indefettibile ai fini dell'ammissibilità, né tanto meno è assoggettato a parametri quantitativi minimali.

Tali risorse possono infatti esservi o mancare nel concordato in continuità aziendale e, quando vi siano, potranno essere teoricamente distribuite anche in tal caso nella loro interezza in deroga agli artt. 2740 e 2741 c.c.  

Né può considerarsi seriamente prospettabile una diversa soluzione.

Infatti, né la regola distributiva applicabile al valore di liquidazione (APR), né quella applicabile al surplus da continuità (RPR) potrebbero applicarsi a beni o diritti allogeni ed allotri rispetto al patrimonio del debitore, che abbiano carattere di “neutralità”, a meno di violare norme anche di rango costituzionale.

Dunque l'unica regola invariabilmente applicabile alle risorse esterne anche nel concordato in continuità aziendale non può che essere quella della libera distribuzione prevista esplicitamente per il concordato liquidatorio, ma ritenuta dalla S. Corte regola applicabile a prescindere dalla tipologia di concordato.

Deve perciò escludersi che la pur deprecabile (ma semplice) dimenticanza del legislatore delegato nel non aver espressamente esteso al concordato in continuità aziendale la regola di libera distribuibilità delle risorse esterne fissata nel concordato liquidatorio possa determinare una diversa soluzione, qualunque idea si abbia sul modo in cui intendere tale dimenticanza.

Così, qualora si ritenga che essa faccia emergere una vera e propria lacuna, non vi sarebbe certo alcun ostacolo ad applicare analogicamente, data la identità dell'oggetto (le risorse esterne), la medesima regola fissata nell'art. 84 comma 4.

Se, invece, si ritenga che una lacuna non sia rintracciabile a questo riguardo nella disciplina del concordato in continuità, comunque non sarebbe seriamente pensabile che il legislatore abbia voluto davvero sottoporre le risorse esterne alle regole della APR o della RPR applicabili al valore di liquidazione e al surplus da continuità, nessun indizio potendo autorizzare una tale illazione, mentre dovrebbe in tale ipotesi certamente considerarsi più probabile che il legislatore abbia ritenuto superfluo ribadire nel concordato in continuità aziendale una regola – quella della libera distribuibilità delle risorse esterne – che è ormai diventata regola di diritto vivente in forza dell'orientamento della Corte di legittimità.

Va tuttavia precisato, per completezza, che la regola della libera distribuibilità delle risorse esterne è comunque solo  “teorica”, come si è già detto a proposito del surplus da continuità (ossia del “valore eccedente quello di liquidazione”), in quanto occorre anche in tal caso fare i conti con l'usuale interesse del debitore a non cedere a terzi i beni strategici funzionali alla continuità, il cui valore è compreso nel valore di liquidazione, conseguendone che, per compensare quella quota parte di tale valore che non possa essere distribuita con il realizzo di tali beni, non potrà che utilizzarsi o il surplus da continuità e/o eventualmente anche gli apporti dei terzi costituenti le risorse esterne.

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