L’atto di appello redatto in violazione del principio di sinteticità e le relative sanzioni processuali

Giulio Cicalese
16 Ottobre 2023

La sentenza in commento, nell'analizzare i rapporti configurabili in relazione all'atto di appello tra principio di sinteticità degli atti processuali e possibile sanzione di inammissibilità, offre preziosi spunti di riflessione in ordine all'evoluzione della relativa disciplina regolatrice, anche e soprattutto alla luce delle novità di cui all'art. 46 disp. att. c.p.c. così come riformato dalla cd. Riforma Cartabia.

Massima

L'atto di appello redatto in maniera sovrabbondante non può considerarsi inammissibile laddove contenga tutti gli elementi prescritti dall'art. 342 c.p.c., e cioè l'indicazione delle parti del provvedimento che si intendono riformare ed i relativi motivi; pertanto, i vizi relativi alla sinteticità dell'atto introduttivo del giudizio di impugnazione possono comportare conseguenze nel solo ambito della ripartizione delle spese di lite.

Il caso

Il soccombente in un giudizio di primo grado celebrato innanzi al Giudice di Pace di Crotone, proponeva appello articolando il relativo atto introduttivo in maniera del tutto sovrabbondante.

A fronte di tale circostanza, l'appellato eccepiva, in uno all'infondatezza nel merito della questione sollevata dall'appellante, l'inammissibilità dell'atto di appello, poiché ritenuto redatto in violazione dell'art. 342 c.p.c. in quanto per nulla sintetico nell'indicazione dei motivi.

La questione

Viene sottoposta al giudice dell'impugnazione la questione attinente alla possibilità di dichiarare inammissibile un atto di appello redatto in chiara e palese violazione del principio di sinteticità degli atti processuali, oggi consacrato dagli artt. 121 c.p.c. e art. 46 disp. att. c.p.c., seppur nell'ambito di un giudizio intrapreso ante d.lgs. n. 149/2022.

Le soluzioni giuridiche

Il giudice del Tribunale di Crotone, chiamato a dirimere la questione sorta intorno alla possibilità di dichiarare l'inammissibilità dell'atto di appello manifestamente pletorico, ha inteso basare la propria valutazione sul solo rispetto dei criteri redazionali di cui all'art. 342 c.p.c.: tale ultima norma, difatti, è quella che definisce il contenuto necessario all'atto di appello affinché questo possa essere ammesso alla cognizione del giudice ad quem e, pertanto, laddove i criteri in esso contenuti siano rispettati anche in un atto per niente sintetico, questo non potrà ad ogni modo subire la sanzione della declaratoria di inammissibilità, ma ciò potrà al limite produrre effetti in ordine alla sola ripartizione delle spese di lite.

Osservazioni

La decisione in commento, pur nella concisione delle argomentazioni sviluppate dal giudice che l'ha redatta, risulta essere di particolare interesse perché è in grado di offrire numerosi spunti di riflessione in ordine allo sviluppo del principio di sinteticità nel processo civile, sia prima che dopo la sua definitiva consacrazione per il tramite degli artt. 121 e 342 c.p.c. e art. 46 disp. att. c.p.c.

Com'è ben noto, difatti, il principio di sinteticità (in uno con quello di chiarezza, il quale tuttavia non viene in rilievo nel caso di specie) è stato esplicitamente positivizzato dal d.lgs. n. 149/2022, il quale ha anzitutto previsto, all'art. 121 c.p.c., che «tutti gli atti del processo sono redatti in modo chiaro e sintetico»; ulteriormente, all'art. 342 c.p.c. è ad oggi statuito che l'atto di appello deve contenere «a pena di inammissibilità, in modo chiaro, sintetico e specifico» i capi impugnati ed i relativi motivi di impugnazione; infine, l'art. 46 disp. att. c.p.c., in attuazione dei principî genericamente espressi all'art. 121 c.p.c., ha comportato l'emanazione del d.m. 7 agosto 2023, n. 110 il quale contiene specifica indicazione dei limiti dimensionali e dei criteri redazionali degli atti processuali di parte, la cui inosservanza è tuttavia sanzionata nel solo ambito della ripartizione delle spese processuali.

Tali innovazioni, tuttavia, non sono altro che il punto di approdo di una lunga elaborazione dottrinale e giurisprudenziale la quale, a partire dai dati normativi ricavabili dal Codice del Processo Amministrativo e, in particolare, dal suo art. 3, comma 2, aveva di fatto reso già applicabili al procedimento civile i principî di chiarezza e di sinteticità in parola. Tralasciando, in questa sede, le difficoltà interpretative dovute all'introduzione nel 2016 dell'art. 13-ter disp. att. c.p.a. e alle sanzioni in esso contenute (cfr., in tal senso, Cass. civ. n. 30685/2019) – le quali, difatti, hanno comportato una singolare eccezione al principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato –, è necessario evidenziare come fosse infatti già ampiamente diffusa l'opinione secondo la quale il principio di sinteticità (così come quello di chiarezza) di cui all'art. 3, comma 2, c.p.a. andasse per analogia applicato anche ai procedimenti di natura civile (cfr., ex pluribus, Cass. civ. n. 8425/2020, Cass. civ. n. 8009/2019 e Cass. civ., sez. un., n. 964/2017); le ragioni di tale orientamento andavano ricercate, come si è anticipato, in un'interpretazione analogica del principio di cui all'art. 39, comma 1, c.p.a. in virtù della quale tale norma, nello statuire il ricorso alle disposizioni del c.p.c. allo scopo di colmare eventuali lacune rinvenibili nel c.p.a., in realtà instituisse un rapporto biunivoco tra le due fonti codicistiche, così che anche i principî disciplinanti il processo amministrativo – in particolare quelli in grado di realizzare il giusto processo di cui all'art. 111 Cost. – potessero a loro volta far ingresso nei vuoti normativi del procedimento civile.

Alla luce di quanto appena esposto, si comprende come mai, seppur in un procedimento all'interno del quale non hanno ratione temporis trovato ingresso le disposizioni di cui alla cd. Riforma Cartabia, il giudice nella decisione in commento abbia comunque inteso rilevare la violazione del principio di sinteticità; tali profili, tuttavia, coerentemente con quanto da sempre sostenuto dalla giurisprudenza di legittimità, non erano in grado, nella vigenza della precedente disciplina, di comportare la declaratoria di inammissibilità dell'atto di appello, potendo al limite riflettersi – così come previsto dall'art. 3, comma 2, c.p.a. – sulla parte della decisione inerente alle sole spese di lite (cfr. Cass. civ., sez. un., n. 27199/2017; nella giurisprudenza di merito, cfr. App. Potenza, 2 marzo 2023).

In altre parole, nella precedente disciplina i principî di chiarezza e di sinteticità avevano rilevanza in termini di inammissibilità fintantoché la loro inosservanza si traducesse nella diretta violazione dell'art. 342 c.p.c. il quale, com'è noto, disciplina precipuamente il solo contenuto dell'atto di appello dal punto di vista del modo in cui le censure in esso contenute debbano essere sviluppate ad opera dell'impugnante; in tutti gli altri casi – laddove, cioè, non fosse apertamente violato il dispositivo dell'art. 342 c.p.c. – il giudice poteva solamente limitarsi a prevedere una ripartizione delle spese di causa diversa da quella che avrebbe applicato se gli atti fossero stati redatti in maniera sintetica e chiara. Al riguardo, il giudice autore della sentenza in commento, il quale nei propri obiter dicta fa senz'altro mostra di conoscere le anzidette elaborazioni, nel dispositivo, pur avendo accolto integralmente l'appello nel merito, provvede a compensare integralmente le spese tra le parti con il chiaro intento di “sanzione” l'appellante oltremodo prolisso (seppur vittorioso).

Ad ogni modo, una volta comprese le applicazioni del principio di sinteticità nell'ambito della previgente disciplina, restano da analizzare i possibili futuri scenari interpretativi in ordine ai rapporti tra inammissibilità dell'atto di appello e condanna alle spese: più specificamente, possibili antinomie possono sorgere tra quanto disposto dall'art. 46 disp. att. c.p.c. il quale, nel fissare limiti dimensionali e criteri redazionali per gli atti di parte, statuisce che la loro inosservanza «non comporta invalidità, ma può essere valutato dal giudice ai fini della decisione sulle spese del processo» e l'attuale formulazione dell'art. 342 c.p.c., a norma del quale «a pena di inammissibilità, in modo chiaro, sintetico e specifico» devono essere indicate le parti del provvedimento che si intendono impugnare ed i relativi motivi, di fatto e di diritto, in nome dei quali se ne chiede la riforma; in questa sede, ciò che si intende suggerire è che le elaborazioni giurisprudenziali e dottrinali sorte in seno alla previgente disciplina circa i rapporti tra gli artt. 342 c.p.c. e 3, comma 2, c.p.a possono in senz'altro tornare utili: l'inosservanza del principio di sinteticità (così come di quello di chiarezza) potrebbe rilevare solamente in ordine alla ripartizione delle spese processuali nei limiti in cui essa non intacchi la più generale intelligibilità dell'atto di appello.

In altre parole, la redazione di un atto d'appello oltremodo sovrabbondante, nel rispetto dell'art. 46 disp. att. c.p.c., non dovrebbe comunque essere sanzionato con l'inammissibilità laddove, al suo interno, siano comunque rinvenibili gli elementi fondamentali richiesti dall'art. 342 c.p.c., il quale dovrà quindi ora esser letto nel senso che la redazione «in modo chiaro, sintetico e specifico» dell'atto de quo è sempre e comunque funzionale soprattutto all'esercizio della cognizione del giudice in ordine alle questioni sottopostegli e alle parti della sentenza che si intendono riformare.

Riferimenti

Cerri, Dramma inconsistente (il D.M. 110/2023), in www.judicium.it, 13 settembre 2023;

Cicalese, Chiarezza e sinteticità negli atti processuali di parte prima e dopo la Riforma Cartabia, in www.giustiziacivile.com, 21 luglio 2024;

Finocchiaro, Il principio di sinteticità nel processo civile, in Riv. dir. proc., 2013, IV-V, 863.

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