Tempo determinato, reiterazione e decadenza: come incide la previsione legale di un limite di durata del rapporto?

Teresa Zappia
18 Ottobre 2023

Il giudice del merito deve valutare il dato fattuale della reiterazione dei contratti/missioni anche se è decorso il termine di decadenza per l'impugnazione dei precedenti contratti della serie.

Massima

Pur essendo intervenuta la decadenza per la loro impugnazione, il dato fattuale della successione dei contratti di lavoro a termine, nonché di somministrazione a tempo determinato presso il medesimo utilizzatore, deve essere valutato, anche in via incidentale, dal giudice del merito al fine di accertare l'eventuale ricorso abusivo a tali tipologie contrattuali.

I fatti

Nel caso trattato con la sentenza n. 15226/2023, la Corte di appello di Brescia aveva confermato la sentenza del giudice di primo grado, dichiarando il ricorrente decaduto dalla facoltà di impugnare gli 8 contratti a tempo determinato intercorsi con la società-datrice nel periodo dal 5 aprile 2011 al 31 ottobre 2014.

Veniva osservato che nel caso di plurimi contratti a tempo determinato, anche succedutesi nel tempo in sostanziale continuità, l'obbligo di impugnazione in sede stragiudiziale nel termine di 60 giorni (cui deve far seguito il ricorso giudiziale nell'ulteriore termine fissato dalla legge) decorre dalla scadenza dei singoli contratti e non, come ritenuto dal ricorrente, dalla scadenza dell'ultimo della sequenza. Secondo la Corte di appello, inoltre, anche nella pendenza di un nuovo contratto a termine doveva ritenersi attuale l'interesse del lavoratore all'impugnazione.

La sentenza veniva impugnata innanzi alla Corte di Cassazione. Ad avviso del lavoratore l'impugnazione dell'ultimo contratto si sarebbe comunicata anche ai precedenti, poiché la riassunzione entro il termine di decadenza ne avrebbe impedito il decorso. Veniva contestata, inoltre, la compatibilità della disciplina contenuta nel d.lgs. n. 368/2001 con la direttiva 1999/70/CE in relazione al considerando n. 6.

Nel caso trattato con la sentenza n. 23445/2023, la Corte di appello di Genova aveva confermato la sentenza del giudice di primo grado con la quale erano state rigettate le domande della lavoratrice volte a ottenere la costituzione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato alle dipendenze dell'impresa utilizzatrice, ovvero, in via subordinata, nei confronti dell'agenzia di somministrazione.

La Corte territoriale, considerata la mancata doglianza da parte della lavoratrice circa il difetto del carattere della temporaneità del suo impiego in plurime missioni, aveva escluso la convertibilità del rapporto nei confronti dell'utilizzatore. La domanda non veniva accolta anche per la parte riguardante il rapporto con l'agenzia di somministrazione, ritenendo errata la tesi della ricorrente secondo la quale vi sarebbe stata un'unica missione, avendo la stessa lavorato continuativamente presso il medesimo utilizzatore, con le stesse mansioni e senza soluzione di continuità. Secondo i giudici dell'appello l'ininterrotto invio in missione della ricorrente non era vietato dalla legge o dalla contrattazione collettiva, facendo salvo l'abuso in frode alla legge che, tuttavia, veniva escluso nel caso di specie.

La questione 

La stipulazione di più contratti, di lavoro o in somministrazione, a tempo determinato incide sulla valutazione dell'abusivo ricorso, nel caso specifico, a tali tipologie contrattuali?

Le soluzioni della Corte 

Con riferimento al primo caso, la Corte di Cassazione ha rigettato il primo motivo di ricorso, ribadendo che l'impugnazione stragiudiziale dell'ultimo contratto di una serie non si estende a quelli precedenti. Sul punto è stato precisato che, al di fuori dei casi specifici previsti dall'art. 5, commi 2, 3 e 4 d.lgs. n. 368/2001, la mera reiterazione non poteva ingenerare alcun affidamento nel lavoratore.

La Corte ha, invece, dichiarato fondato il secondo motivo di ricorso, osservando che l'art. 1 d.lgs. n. 368/2001 - così come modificato nel 2014 e applicabile ratione temporis - pone, quale unico vincolo per la stipula di contratti a termine acausali, la durata non superiore a 36 mesi, comprensiva di eventuali proroghe (condizionandone la legittimità al limite percentuale del 20% del numero dei lavoratori a tempo indeterminato in forza al 1° gennaio dell'anno di assunzione). Ha, dunque, rilevato l'esigenza di verificare se tale assetto violi o meno la direttiva 1999/70/CE, alla luce del suo considerando n. 6.

Ciò premesso, i giudici di legittimità, dopo una ricostruzione diacronica della disciplina rilevante, hanno osservato che, non essendo necessaria l'indicazione delle «ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo», per valutare la legittimità del contratto a termine doveva esser fatto riferimento al periodo temporale massimo di utilizzo della prestazione (i.e. 36 mesi) e al numero massimo di proroghe. Su tale punto è stata richiamata la giurisprudenza europea circa le misure che, anche in via alternativa, ciascun Stato membro è tenuto ad adottare per superare il rischio di un'elusione della direttiva prefata, osservando che la previsione, nella legge applicabile alla fattispecie, di un limite temporale massimo di durata del rapporto avrebbe consentito di ritenere adempiuto l'obbligo gravante sul legislatore italiano.

La Corte di Cassazione ha, però, richiamato anche la decisione della C.G.U.E del14 ottobre 2020 nella causa C-681/18 JH contro KG, ritenendo che, sebbene riferita all'istituto della somministrazione (direttiva 104/2008/CE), essa presenti profili di contiguità con la disciplina che ha innovato anche la materia dei contratti a termine. Con tale decisione la Corte di Giustizia aveva individuato i temi che il giudice nazionale è tenuto a verificare, ossia:

a) se le ripetute missioni determinino, valutate nel loro complesso, una durata del rapporto elusiva della sua natura temporanea;

b) se sia ravvisabile un abuso di tale forma di rapporto nelle missioni successive assegnate al medesimo lavoratore, tramite agenzia interinale, presso la stessa impresa utilizzatrice;

c) se dal ripetersi delle missioni risulti compromesso l'equilibrio realizzato da tale direttiva tra la flessibilità per i datori di lavoro e la sicurezza per i lavoratori, a discapito di quest'ultima e se, tenendo conto delle circostanze del caso specifico, risultino aggirate le prescrizioni della direttiva.

Tenuto fermo quanto sopra, i giudici di legittimità hanno ritenuto che nell'interpretare l'art. 1 d.lgs. n. 368/2001, come modificato nel 2014, non potesse prescindersi da quanto affermato dalla C.G.U.E., considerato che anche in tale ipotesi, ai fini della qualificazione del termine apposto come legittimo o illegittimo, acquisiva rilievo la successione dei contratti a tempo determinato.

La Corte ha, dunque, dichiarato che, al fine di poter ritenere temporanea l'esigenza alla base della stipulazione del contratto a termine, la valutazione non poteva essere parcellizzata e doveva estendersi necessariamente alle modalità complessive di svolgimento del rapporto. La circostanza che il ricorrente fosse decaduto dalla possibilità di impugnare specificatamente i termini apposti ai contratti precedenti non escludeva che il giudice dovesse tenerne conto per accertare se, alla luce di tutte le circostanze pertinenti, l'attività potesse ragionevolmente qualificarsi come “temporanea” (C.G.U.E. ,17 marzo 2022, nella causa C- 232/20, sempre con riferimento alla somministrazione).La vicenda contrattuale poteva, quindi, rilevare fattualmente come antecedente storico valutabile, in via incidentale, dal giudice al fine di verificare se la reiterazione dei contratti a termine avesse o meno realizzato una elusione degli obiettivi della direttiva 1999/70/CE.

Per tali ragioni, la Corte ha cassato con rinvio la sentenza impugnata.

Anche nella seconda decisione, la Corte di Cassazione ha richiamato la propria giurisprudenza e quella sovranazionale (i.e. C.G.U.E. 14 ottobre 2020, JH c. KG, C681/2018 e  17 marzo 2022, C-232/2020), affermando che il fatto che il d.lgs. n. 81/2015, e prima ancora il d.lgs. n. 276/2003, non contenga alcuna previsione esplicita sulla durata temporanea del lavoro tramite agenzia interinale, non impedisce di considerare tale requisito come implicito e immanente del lavoro tramite agenzia, in conformità agli obblighi imposti dal diritto dell'Unione, non comportando una simile lettura una interpretazione contra legem.

Il Collegio ha rammentato che costituisce compito del giudice di merito stabilire, caso per caso, alla luce di tutte le circostanze pertinenti, se la reiterazione delle missioni del lavoratore presso l'impresa utilizzatrice abbia oltrepassato il limite di una durata che possa ragionevolmente considerarsi “temporanea”, sì da realizzare un'elusione delle norme imperative (art. 1344 c.c.) e, specificamente, degli obblighi e delle finalità imposti dalla Direttiva 104/2008/CE.

In tale compito, evidenzia la Corte, il giudice nazionale può avvalersi delle indicazioni provenienti dalla Corte di Giustizia nella sentenza C-681/2018 precitata (e confermate nella più recente decisione del 17 marzo 2022), in modo da verificare se possa configurarsi un rapporto di lavoro a tempo indeterminato al quale è stata artificiosamente attribuita la forma di una successione di contratti di lavoro tramite agenzia interinale. In particolare, secondo quando affermato dai giudici europei, è rilevante verificare se le missioni successive del medesimo lavoratore tramite agenzia interinale, presso la stessa impresa utilizzatrice, conducano a una durata dell'attività presso tale impresa più lunga di quanto possa essere ragionevolmente qualificata come “temporanea”.

Nel caso trattato, la Corte di Cassazione ha rilevato una carente valutazione della questione da parte dei giudici del merito.

La Corte d'appello si era limitata, infatti, a escludere implicitamente un ricorso abusivo alla somministrazione, pur avendo accertato che le missioni si erano succedute presso la stessa impresa utilizzatrice senza interruzioni, per un tempo complessivo di oltre quattro anni, ergo per un periodo superiore a 36 mesi (limite per i contratti a termine c.d. “diretti”).

Per tali ragioni, anche in questo caso, la Corte di Cassazione ha cassato con rinvio la sentenza impugnata.

Osservazioni

Nelle due decisioni in commento è possibile individuare una questione comune, ossia la rilevanza del dato fattuale della reiterazione del contratto, di lavoro o di somministrazione, a tempo determinato nella valutazione del giudice circa l'abusivo ricorso, nel caso specifico, a tali tipologie contrattuali. Tale comunanza, tuttavia, sconta le differenze di disciplina vigenti.

Sebbene, infatti, la Corte di Cassazione abbia ritenuto estensibile al contratto di lavoro a termine l'orientamento espresso, dalla giurisprudenza sovranazionale, in materia di somministrazione a tempo determinato, non sembra possibile prescindere da un esame più puntuale del singolo caso, in modo da meglio saggiare la bontà della soluzione adottata.

Nel primo dei due casi trattati la disciplina normativa applicabile ratione temporis è stata individuata nel d.lgs. n. 368/2001, così come novellato nel 2014. Le disposizioni nazionali sono state lette alla luce della disciplina europea (accordo quadro CES, UNICE e CEEP, concluso il 18 marzo 1999 e allegato alla direttiva 1999/70/CE), rimarcando la “normalità” del contratto di lavoro a tempo indeterminato e l'“eccezionalità” del contratto a termine.

Nel definire i confini entro i quali le parti possono stipulare un contratto di lavoro a tempo determinato, la C.G.U.E., nelle decisioni richiamate dal Collegio, ha indicato alcune misure che, anche alternativamente, gli Stati membri sono tenuti ad applicare al fine di prevenire un ricorso abusivo a tale tipologia contrattuale. Nello specifico:

  1. l'indicazione di ragioni obiettive per la giustificazione del rinnovo dei contratti;
  2. ii) la fissazione di una durata massima totale dei contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato successivi;
  3. iii) la determinazione del numero (massimo) dei rinnovi dei suddetti contratti o rapporti.

Nel caso di specie, come ha evidenziato la stessa Corte, la legge italiana prevede solo un limite temporale massimo di durata, comprensivo di eventuali proroghe (art. 1 d.lgs. n. 368/2001), sicché una delle misure sopra indicate risulta essere stata adottata nell'ordinamento nazionale. Tuttavia, i giudici di legittimità hanno ritenuto di dover verificare la rispondenza di tale disposizione con le previsioni europee anche alla luce della giurisprudenza della C.G.U.E. in materia di somministrazione. In particolare, è stato ripreso il profilo afferente alla necessità di adottare misure che impediscano abusi ed elusioni della direttiva (in questo caso la dir. 104/2008/CE) per mezzo di ripetute successive missioni, laddove la legge nazionale non ponga alcuna limitazione, né quanto alle ragioni giustificanti il ricorso al contratto commerciale, né quanto alla durata massima della somministrazione a tempo determinato (presso lo stesso utilizzatore) del medesimo lavoratore.

Al fine di superare, in via interpretativa, tale deficit normativo, la Corte di Lussemburgo ha individuato le questioni che il giudice nazionale è chiamato a valutare, ossia:  se le ripetute missioni determinino, valutate nel loro complesso, una durata del rapporto elusiva della sua natura temporanea; se sia ravvisabile un abuso di tale forma di rapporto nelle missioni successive assegnate al medesimo lavoratore tramite agenzia interinale presso la stessa impresa utilizzatrice; se dal ripetersi delle missioni risulti compromesso l'equilibrio realizzato dalla direttiva 104/2008/CE tra la flessibilità per i datori di lavoro e la sicurezza per i lavoratori, a discapito di quest'ultima e se, tenendo conto delle circostanze del caso specifico, risultino aggirate le prescrizioni della stessa direttiva.

L'iter valutativo sopra riportato è stato seguito dalla Corte di Cassazione anche per la fattispecie afferente alla successione di più contratti di lavoro a termine in ragione del principio di acausalità caratterizzante la disciplina normativa applicabile. È qui che la decisone genera qualche perplessità. Infatti, al fine di estendere l'orientamento interpretativo in materia di somministrazione anche al caso di specie, il Collegio ha ritenuto imprescindibile una valutazione non parcellizzata del rapporto tra le parti, con correlato obbligo in capo al giudice del merito di considerare anche i contratti di lavoro a tempo determinato per i quali era decorso il termine decadenziale di impugnazione. Ciò avrebbe consentito di accertare l'eventuale ricorso abusivo alla tipologia contrattuale.

Ad avviso di chi scrive, la soluzione individuata dalla Corte nel primo dei due casi trattati è alquanto opinabile. Infatti, mentre la seconda decisione ha avuto ad oggetto la domanda della lavoratrice diretta a far accertare l'illegittima reiterazione del suo invio in missione presso la medesima impresa utilizzatrice, in assenza di una disposizione normativa che limiti, sotto il profilo temporale e causale, tali operazioni, nella prima il thema decidendum si incentrava sul superamento, mediante successivi contratti di lavoro a tempo determinato, di un limite temporale che, invece, il legislatore nazionale ha espressamente fissato, pur vigendo il principio di acausalità.

Già il solo accertamento del superamento dei 36 mesi (proroghe incluse) avrebbe portato, quindi, a dichiarare l'illegittimità dell'apposizione del termine al contratto di lavoro. Il richiamo alla giurisprudenza in materia di somministrazione sembra, pertanto, aver integrato, più o meno condivisibilmente, il fondamento motivazionale del rinvio al giudice del merito, nell'intento di superare lo sbarramento dell'intervenuta decadenza per l'impugnazione dei contratti precedentemente stipulati la cui durata, unitamente a quella dell'ultimo oggetto di impugnazione, avrebbe violato il limite dei 36 mesi.

Sul punto, inoltre, sembra opportuno osservare che, essendo la doglianza del ricorrente limitata al superamento del limite di durata massimo del rapporto di lavoro a termine mediante la reiterazione dei contratti, solo l'impugnazione dell'ultimo di questi, con il quale suddetto limite sia stato in concreto superato, potrebbe consentire l'accoglimento della domanda (si veda: Cass., sez. lav., 16 febbraio 2023, n. 4960). Prima di tale momento, infatti, non potrebbe accertarsi una “durata dell'attività più lunga di quella che può essere ragionevolmente qualificata temporanea”, ciò costituendo un parametro di valutazione diretto a colmare il difetto di un limite temporale per la durata delle missioni del medesimo lavoratore in esecuzione di reiterati contratti di somministrazione a tempo determinato.

Su tale ultimo punto, infine, sembra utile ricordare che con l'art. 9, comma 4-bis, l. n. 14/2023 (di conversione del Decreto Milleproroghe) è stata spostata dal 30 giugno 2024 al 30 giugno 2025 l'efficacia dell'art. 31 d.lgs. n. 81/2015 che deroga al limite dei 24 mesi, anche non continuativi, per le missioni a tempo determinato presso lo stesso utilizzatore, di lavoratori assunti a tempo indeterminato dall'agenzia di somministrazione.

Per approfondire:

G. Casiello, La somministrazione di lavoro ovvero della temporaneità ragionevole, in Riv. it. dir. lav., 2023, I, p. 73 ss.

S. Grivet Fetà, Reiterazione di contratti a tempo determinato, termine di decadenza per l'impugnazione, regime di acausalità: un terreno ancora incerto per la tutela dei diritti del lavoratore, in Labour, Il lav. nella giur., 27 luglio 2022.

A. Riccio, La temporaneità del lavoro tramite agenzia, in Dir. rel. ind., 2021, 3, p. 941 ss.

C. A. Nicolini, L'evoluzione del regime delle decadenze nei rapporti di lavoro, in Riv. it. dir. lav., 2013, 3, p. 609 ss.

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