Dalla Cassazione la prima condanna di un RLS per omicidio colposo del lavoratore: profili critici dell’interpretazione del ruolo previsto nel TU Sicurezza
La Suprema Corte conferma la prima sentenza di condanna del Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza. Il mancato adempimento dei compiti di cui all'art. 50 del TU Sicurezza può essere foriero di responsabilità ai sensi dell'art. 113 c.p. Rimane aperto l'interrogativo sulla possibilità di fondare una responsabilità penale di un soggetto che è destinatario di prerogative e diritti sindacali, non di obblighi in materia di sicurezza e non ha alcun potere di intervenire direttamente sull'organizzazione aziendale.
MASSIMA
L'art. 50 D. Lgs. n. 81 del 2008 attribuisce al Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza, un ruolo di primaria importanza, quale soggetto fondamentale che partecipa al processo di gestione della sicurezza dei luoghi di lavoro, costituendo una figura intermedia di raccordo tra datore di lavoro e lavoratori, con la funzione di facilitare il flusso informativo aziendale in materia di salute e sicurezza sul lavoro. Lo stesso può rispondere di cooperazione colposa (art. 113 c.p.) se non ha ottemperato ai compiti che gli erano stati attribuiti per legge (conf. Corte Appello di Bari che aveva condannato il R.L.S che aveva consentito che il lavoratore fosse adibito a mansioni diverse rispetto a quelle contrattuali, senza aver ricevuto alcuna adeguata formazione e non sollecitando in alcun modo l'adozione da parte del responsabile dell'azienda di modelli organizzativi in grado di preservare la sicurezza dei lavoratori, nonostante le sollecitazioni in tal senso formulategli).
IL CASO - Responsabilità del datore di lavoro e del RLS a titolo di cooperazione colposa per l'infortunio mortale occorso ad un disegnatore adibito regolarmente a mansioni di magazziniere
La sentenza in commento tratta dell'omicidio colposo di un lavoratore occupato presso una ditta società con la mansione di impiegato tecnico, in particolare svolgeva il ruolo di disegnatore-geometra. Il giorno dell'infortunio, per indicazioni del titolare, il dipendente si ritrovava a svolgere l'attività di scarico merci, di norma ricollegabile al magazziniere e non di certo al disegnatore. Durante l'operazione di stoccaggio, dopo aver trasportato, a mezzo di un carrello elevatore, un carico di tubolari di acciaio, sceso dal carrello elevatore ed arrampicatosi sullo scaffale per meglio posizionare il carico, il disegnatore, vestito da operaio metalmeccanico, veniva schiacciato da 5 tonnellate di tubolari che gli rovinavano addosso. L'infortunio sul lavoro gli era letale.
Dall'istruttoria in primo grado emergevano le seguenti circostanze determinanti ai fini della risoluzione del caso: che il lavoratore, in quanto assunto con la mansione di impiegato tecnico, non aveva mai ricevuto una specifica formazione per lo svolgimento del differente incarico di magazziniere e, di conseguenza, nemmeno era stato addestrato all'utilizzo del carrello elevatore; che nonostante ciò, regolarmente il lavoratore veniva adibito alle funzioni di magazziniere e al relativo utilizzo del muletto, ed infatti, sul cadavere del geometra non passava inosservata la divisa da operaio; che dalle verifiche tecniche la scaffalatura utilizzata nell'azienda si appalesava del tutto inadeguata, essendo le barre degli scaffali posizionate a 90° anziché a 45°, così da non essere idonee ad impedire il rotolamento dei tubolari stoccati sugli scaffali; che la scaffalatura non riportava alcuna indicazione in ordine al peso massimo sopportato, e che comunque, dai verbali risultava ampiamente superato dai fasci di tubolari che sulla stessa venivano di norma posizionati; che anche le alette che avrebbero dovuto contenere i tubolari si rivelavano del tutto inadeguate, a prima vista piegate dall'eccessivo peso dei tubolari.
La condanna penale del datore di lavoro per l'infortunio mortale era del tutto prevedibile, ma non fu l'unica. A sorpresa, il Tribunale di Trani (Tribunale Trani, giudice unico, 17 gennaio 2019) condannava anche il Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza, atteso che fosse «pacificamente emerso che egli, nella precipua veste rivestita e pur essendo ben a conoscenza di tutta la situazione descritta non abbia fatto nulla, pur a conoscenza anche della nota inviata dall' RSPP, e tenuto conto della piena consapevolezza della situazione di pericolo evidentemente discendente anche dal ruolo assunto di responsabile per la sicurezza dei lavoratori, affinché venissero sollecitate e/o adottate le necessarie contromisure affinché l'evento, del tutto prevedibile ed evitabile, si verificasse».
Contro la sentenza di prime cure veniva proposto appello. Calzante e ragionevole la difesa del R.L.S. condannato: «le funzioni di Rappresentante dei lavoratori per la Sicurezza al momento del fatto dovevano ritenersi di mera collaborazione, difettando un'espressa posizione di garanzia in capo all'imputato. Al R.L.S. non spettano funzioni di valutazione dei rischi, di adozione di opportune misure per prevenirli e nemmeno quella di formazione dei lavoratori, funzioni di mero appannaggio del datore di lavoro. Né gli spetta un'attività di controllo e di sorveglianza. Si tratta di un ruolo di mera consultazione che si traduce essenzialmente nella possibilità di esprimere un parere preventivo di cui il datore di lavoro può anche non tenere conto. Il R.L.S. non ha poteri decisionali e di conseguenza non sono previste a suo carico sanzioni amministrative e/o penali».
Ciò nonostante, la Corte di Appello di Bari (Appello Bari, sez. I pen., 11 marzo 2022), sulla falsa riga del Tribunale di Trani (Tribunale Trani, giudice unico, 17 gennaio 2019), confermava la sentenza impugnata, servendosi di argomentazioni in diritto che vale la pena rammentare: «l'art. 50 d.lgs. n. 81/2008 che ne disciplina le funzioni e i compiti attribuisce al Rappresentante dei lavoratori per la sicurezza un ruolo di primaria importanza quale soggetto fondamentale che partecipa al processo di gestione della sicurezza dei luoghi di lavoro, costituendo una figura intermedia di raccordo tra datore di lavoro e lavoratori, con la funzione di facilitare il flusso informativo aziendale in materia di salute e sicurezza sul lavoro». Sulla base di ciò, veniva confermata la sentenza di primo grado, che ascriveva al R.L.S. la colpa specifica per aver violato le norme in materia di sicurezza sul lavoro, per aver concorso a cagionare l'infortunio mortale attraverso una serie di contegni omissivi, consistiti «nell'aver omesso di I) promuovere l'elaborazione, l'individuazione e l'attuazione delle misure di prevenzione idonee a tutelare la salute e l'integrità fisica dei lavoratori; II) sollecitare il datore di lavoro ad effettuare la formazione dei dipendenti (tra cui il lavoratore in questione) per l'uso dei mezzi di sollevamento; III) informare i responsabili dell'azienda dei rischi connessi all'utilizzo da parte del lavoratore, del carrello elevatore».
La doppia conforme finiva in Cassazione, ove, considerati i precedenti sulla figura del R.L.S., ci si aspettava un capovolgimento del ragionamento in diritto portato avanti in primo e in secondo grado, o almeno un inquadramento della fattispecie sotto un altro punto di vista: dall'istruttoria, infatti, emergeva che l'R.L.S. in questione era anche membro del C.d.a.
Così non è stato; la Suprema Corte ha sorvolato tanto sulla posizione di membro del C.d.a. del R.L.S. quanto, volutamente, sulla fondamentale questione se su quest'ultimo sussistesse o meno una posizione di garanzia; d'altronde è stata essa stessa a rivelarlo senza perifrasi: «viene in rilievo non se l'imputato in tal sua veste ricoprisse o meno una posizione di garanzia, intesa come titolarità di un dovere di protezione e di controllo finalizzati ad impedire un evento che si ha l'obbligo giuridico di impedire (art. 40 cpv cod. pen.) ma se egli abbia, con la sua condotta, contribuito casualmente alla verificazione dell'evento ai sensi dell'art. 113 cod. pen.)».
Ebbene, con la pronuncia in commento, per la prima volta, i giudici di legittimità condannavano l'R.L.S. a titolo di “cooperazione colposa” per l'infortunio mortale sul lavoro.
LE QUESTIONI - Criticabilità dell'interpretazione conferita al ruolo di RLS dalla Suprema Corte e dell'applicazione dell'art. 113 c.p.
L'ordinanza in oggetto mette in luce più questioni giuridiche nodali: una prima riguarda il ruolo del R.L.S all'interno del sistema dell'organizzazione aziendale della prevenzione e sicurezza, che, nonostante sia stata trattata in maniera eccessivamente sbrigativa dalla Suprema Corte, merita un'accurata ricostruzione tanto a livello di disciplina normativa, quanto di casistica.
Come premesso nell'esposizione del caso, sembra che la pronuncia in commento muova da presupposti controversi e a dir poco equivoci. Il primo presupposto è quello di aver fatto proprie le motivazioni della condanna del R.L.S. addotte dai giudici di seconde cure: «Ritiene la Corte del tutto condivisibili le conclusioni cui perveniva il Tribunale di primo grado in merito alla sussistenza in capo allo S. della posizione di garanzia e dunque dell'ipotizzabilità a suo carico di una cooperazione colposa nella condotta omissiva posta in essere dal legale rappresentante dell'azienda, rivestendo lo S. non solo il ruolo di rappresentante dei lavoratori per la sicurezza ma anche membro del Consiglio di Amministrazione della Società».
Si mostra altresì discutibile l'interpretazione conferita all'art. 50 D.Lgs. n. 81 del 2008: «Come è noto, l'art. 50 D.Lgs. n. 81 del 2008, che ne disciplina le funzioni e i compiti, attribuisce al Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza un ruolo di primaria importanza quale soggetto fondamentale che partecipa al processo di gestione della sicurezza dei luoghi di lavoro, costituendo una figura intermedia di raccordo tra datore di lavoro e lavoratori, con la funzione di facilitare il flusso informativo aziendale in materia di salute e sicurezza sul lavoro. Ciò detto, è bene precisare che, nel caso di specie, viene in rilievo non se l'imputato, in tale sua veste, ricoprisse o meno una posizione di garanzia intesa come titolarità di un dovere di protezione e di controllo finalizzati ad impedire un evento che si ha l'obbligo giuridico di impedire (art. 40 cpv. c.p.) - ma se egli abbia, con la sua condotta, contribuito causalmente alla verificazione dell'evento ai sensi dell'art. 113 c.p. E, sotto questo profilo, la sentenza impugnata ha illustrato adeguatamente i termini in cui si è realizzata la cooperazione colposa dello B.B. nel delitto di cui trattasi. Richiamati i compiti attribuiti dall'art. 50 al Responsabile dei Lavoratori per la Sicurezza, ha osservato come l'imputato non abbia in alcun modo ottemperato ai compiti che gli erano stati attribuiti per legge, consentendo che il C.C. fosse adibito a mansioni diverse rispetto a quelle contrattuali, senza aver ricevuto alcuna adeguata formazione e non sollecitando in alcun modo l'adozione da parte del responsabile dell'azienda di modelli organizzativi in grado di preservare la sicurezza dei lavoratori, nonostante le sollecitazioni in tal senso formulate dal D.D.».
Le motivazioni della sentenza in commento mostrano una pericolosa confusione ab origine: si parla di “compiti” attribuiti al R.L.S. dall'art. 50 D.lgs. n. 81/2008; si definisce il R.L.S. quale “Responsabile dei lavoratori per la sicurezza”, non identificandolo con il suo vero nome, ossia quello di Rappresentante dei lavoratori; nulla si dice in merito alla qualifica di membro del C.d.a. del R.L.S. imputato, precisazione che avrebbe potuto maggiormente legittimare l'intervenuta condanna.
Una volta esaminata l'assenza o la sussistenza di una posizione di garanzia del R.L.S., la seconda questione giuridica che si andrà ad affrontare riguarda la responsabilità del R.L.S in base all'art. 113 c.p.; in particolare con un approccio penalistico si commenterà criticamente la tendenza, sempre più diffusa, di vagliare profili di cooperazione colposa ai sensi dell'art. 113 c.p. per giungere all'affermazione di responsabilità di figure, prive di alcuna posizione di garanzia ai sensi dell'art. 40 cpv c.p. In ultimo, la pronuncia verrà letta alla luce del principio di diritto tale per cui il fatto non può essere imputato ai compartecipi, se l'evento si sarebbe comunque verificato nel caso in cui costoro avessero tenuto il comportamento alternativo lecito, se cioè, avessero agito uniformando la propria condotta al dovere di diligenza richiesto dalla regola infranta.
LE SOLUZIONI GIURIDICHE - Il ruolo e l'asserita posizione di garanzia del R.L.S.
Definito quale “soggetto esponenziale degli interessi dei lavoratori, intesi come singoli e come collettività”, il Rappresentante dei Lavoratori per la Sicurezza, insieme con il datore di lavoro e il Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione, forma la cosiddetta “triade gestionale della sicurezza aziendale”. La figura del R.L.S. in azienda ha fatto il suo ingresso nel mondo della sicurezza sul lavoro con il d.lgs. n. 626/1994, il quale, all'art. 19, poi succeduto dall'art. 50 T.U.S.L., già ne prevedeva la funzione essenziale, ovverosia quella di dialogare e confrontarsi con i vertici dell'impresa sulle istanze provenienti dai lavoratori. Per la migliore espletazione delle proprie attribuzioni, il R.L.S. è custode delle informazioni e della documentazione aziendale, nonché della copia del DVR.
Come anticipato, il Testo Unico Sicurezza riserva alla figura del R.L.S. una disciplina normativa contenuta in un unico dispositivo, quello dell'art. 50. Tale disposizione è rubricata: “Attribuzioni del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza” ed attribuisce al R.L.S. diritti di consultazione, di informazione, di accesso e di formulazione di proposte. Sin dalla prima lettura, emerge chiaramente il motivo per il quale la sentenza n. 38914/2023 della Suprema Corte è stata eclissata da così tante critiche: il dettato legislativo mai, in nessuno dei suoi sette commi, parla di obblighi, di posizione di garanzia, di responsabilità o di sanzioni riferibili al R.L.S., enumerando in capo allo stesso soltanto una serie di facoltà, diritti e tutele.
Se così stanno le cose, non si capisce come il Tribunale di Trani (Tribunale Trani, giudice unico, 17 gennaio 2019), la Corte d'Appello di Bari e successivamente la Suprema Corte, abbiano potuto rinvenire in capo al R.L.S. in quanto tale «la sussistenza di una posizione di garanziae dunque l'ipotizzabilità di una cooperazione colposa nella condotta omissiva posta in essere dal legale rappresentante dell'azienda», in assenza di qualsiasi disposizione normativa al riguardo.
Forse inappropriata si dimostra anche la terminologia utilizzata dai giudici di legittimità: essi a più riprese parlano di «compiti del Responsabile dei Lavoratori per la Sicurezza», ma non si tratta di compiti, quanto di attribuzioni, e non si tratta di una responsabilità, ma di una rappresentanza.
A tal proposito, si ritiene che definirlo “responsabile” anziché “rappresentante”, crei inevitabilmente una pericolosa commistione tra i ruoli, invece ben distinti, dei protagonisti del sistema di sicurezza e prevenzione sul lavoro. Su questa stessa ratio è improntato l'art. 50 co. 7 del d.lgs. n. 81/2008, il quale esplicita che: «L'esercizio delle funzioni di rappresentante dei lavoratori per la sicurezza è incompatibile con la nomina di responsabile o addetto al servizio di prevenzione e protezione».
Si rammenta la pronuncia della Corte di Cassazione del 15 settembre 2006 n. 19965, la quale, oltre a chiarire le funzioni del R.L.S., ha sancito il divieto di cumulabilità sullo stesso soggetto del ruolo di R.L.S. e, al contempo, di R.S.P.P. Così la Corte: «Nel sistema delineato dal d.lgs. 19 settembre 1994, n. 626, il responsabile del servizio di prevenzione e protezione è un soggetto che rappresenta il datore di lavoro ed esercita prerogative proprie di quest'ultimo in tema di sicurezza del lavoro, mentre il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza è chiamato a svolgere, essenzialmente, una funzione di consultazione e di controllo circa le iniziative assunte dall'azienda nel settore della sicurezza, con la conseguenza che le predette funzioni, stante la loro incompatibilità, non sono cumulabili nella stessa persona, poiché con la loro concentrazione in capo allo stesso soggetto significherebbe eliminare ogni controllo da parte dei lavoratori, atteso che il controllato ed il controllante coinciderebbero, onde in tal caso verrebbe ad essere violata la volontà legislativa che richiede la presenza di entrambe le distinte figure per un'azione di prevenzione costantemente perseguita da parte datoriale e controllata dai lavoratori».
Sempre sul R.S.P.P., quell'orientamento giurisprudenziale che ritiene sussistere una posizione di garanzia in capo allo stesso si fonda pur sempre sul suo ruolo di collaboratore del datore di lavoro e sul dictum legislativo: la rubrica dell'art. 33 del d.lgs. 81/2008 parla di “compiti del servizio di prevenzione”. La differenza con le “attribuzioni”, invece ascritte al ruolo del R.L.S. dall'art. 50 T.U., non può rappresentare una mera coincidenza. Se il legislatore avesse voluto affidare al R.L.S. dei compiti, intesi quali doveri od obblighi, lo avrebbe espressamente indicato, proprio come per l'R.S.P.P.
Per completezza, occorre precisare che anche su quest'ultima figura si sono sviluppati filoni contrastanti: un primo aderisce al principio secondo cui «In tema di infortuni sul lavoro, il responsabile del servizio di prevenzione e protezione, pur svolgendo all'interno della struttura aziendale un ruolo non gestionale, ma di consulenza, ha l'obbligo giuridico di adempiere diligentemente l'incarico affidatogli e di collaborare con il datore di lavoro, individuando i rischi connessi all'attività lavorativa e fornendo le opportune indicazioni tecniche per risolverli, con la conseguenza che, in relazione a tale suo compito, può essere chiamato a rispondere, quale garante, degli eventi che si verifichino per effetto della violazione dei suoi doveri» (Così Cass., 5.02.2021 n. 4490). All'opposto, altra parte della dottrina e della giurisprudenza ritiene che il termine “compiti”, previsto dall'art. 33 T.U., non sia sufficiente a fondare una posizione di garanzia ed una conseguente responsabilità del R.S.P.P. per gli infortuni occorsi sul lavoro, essendo costui un mero consulente/ausiliario del datore del lavoro, e potendosi rinvenire solo in quest'ultimo e negli altri soggetti individuati ex lege, gli unici destinatari delle norme antinfortunistiche, in conformità di una rigorosa lettura della lettera legislativa.
L'R.L.S. non è l'unica figura a non essere individuata apertis verbis quale titolare di obblighi e sanzioni, pur essendo inserita all'interno del sistema di sicurezza aziendale. Ed infatti, un altro ruolo sul quale si è ampiamente discusso con riferimento alla sussistenza o meno in capo allo stesso di una posizione di garanzia, è quello del Direttore dei Lavori. Definitivamente pronunciandosi sul punto, la giurisprudenza della Cassazione cristallizzava il seguente principio: la qualifica di direttore dei lavori non comporta automaticamente la responsabilità per la sicurezza sul lavoro ben potendo l'incarico di direttore limitarsi alla sorveglianza tecnica attinente alla esecuzione del progetto. Si è infatti chiarito, sia pure con riferimento agli artt. 4 e 5 del d.P.R. n. 547 del 1955 (essendo sotto tale profilo analogo il disposto degli attuali art. 17,18 e 19 del d. lgs. n. 81 del 2008), che destinatari delle norme antinfortunistiche sono i datori di lavoro, i dirigenti e i preposti, mentre il direttore dei lavori per conto del committente è tenuto alla vigilanza dell'esecuzione fedele del capitolato di appalto nell'interesse di quello e non può essere chiamato a rispondere dell'osservanza di norme antinfortunistiche (Cassazione Sez. 4, n. 49462 del 26/03/2003 - dep. 31/12/2003, Viscovo, Rv. 227070).
Si ritiene che lo stesso principio debba essere applicato anche al R.L.S., il quale non essendo specificatamente inserito nell'elenco dei destinatari delle norme antinfortunistiche, per l'effetto non potrebbe essere soggetto titolare dell'obbligo di evitare l'evento verificatosi, nel caso di specie l'infortunio mortale, in quanto carente ab origine di una posizione di garanzia.
Ora, sempre rimanendo sul tema “figure di sicurezza a confronto”, dopo aver, seppure brevemente, affiancato l'R.L.S. al R.S.P.P. ed al Direttore dei Lavori, occorre riservare un breve cenno all'ultimo arrivato quale partecipante attivo per l'efficienza dell'organigramma della sicurezza aziendale: lo stesso lavoratore, non più solo creditore beneficiario, ma anche apertis verbis debitore di sicurezza e destinatario delle norme antinfortunistiche. È noto come «In materia di prevenzione antinfortunistica, si è passati da un modello iperprotettivo, interamente incentrato sulla figura del datore di lavoro investito di un obbligo di vigilanza assoluta sui lavoratori, ad un modello collaborativo, in cui gli obblighi sono ripartiti tra più soggetti, compresi i lavoratori» (ex multis,Cass., 3.05.2021 n. 16697). Sicché, anche il lavoratore, nel caso di un infortunio sul lavoro di un collega, potrebbe essere individuato quale responsabile, con un'unica precisazione: detta responsabilità avrebbe pur sempre un fondamento giuridico, l'art. 20 T.U., il quale, rubricato “Obblighi dei lavoratori”, al comma 1 espressamente recita: «Ogni lavoratore deve prendersi cura della propria sicurezza e di quella delle altre persone presenti sul luogo di lavoro, su cui ricadono gli effetti delle sue azioni o omissioni, conformemente alla sua formazione, alle istruzioni e ai mezzi forniti dal datore di lavoro». Palese la differenza tra l'art. 50 T.U. e l'art. 20 T.U.: quest'ultimo prevede, infatti, un vero e proprio obbligo in capo al lavoratore, e si dirà di più, impone non solo «l'obbligo di segnalare immediatamente le deficienze dei dispositivi e dei mezzi di sicurezza e di protezione», ma anche quello di «adoperarsi direttamente, nell'ambito delle loro competenze e possibilità per eliminare o ridurre dette deficienze o pericoli». Seguendo l'iter logico sviluppato dalla Suprema Corte, ci si chiede per quale ragione ab origine l'organo dell'accusa abbia evitato di esercitare l'azione penale contestando una responsabilità colposa anche dei colleghi di lavoro dell'impiegato mortalmente infortunatosi, nonostante dall'istruttoria fosse emerso che tutti fossero a conoscenza della prassi scorretta, e del fatto che la vittima venisse regolarmente adibita a mansioni di magazziniere nonostante fosse stato assunto come impiegato tecnico? La domanda appare fondata a maggior ragione se si pensa che è la legge espressamente a prevedere un obbligo di segnalazione in capo al lavoratore sempre nell'ottica di partecipazione attiva alla sicurezza. Dunque, perché non ricomprendere anche i lavoratori omertosi nella cooperazione colposa ai sensi dell'art. 113 c.p.?
La risposta affiora dall'analisi della casistica giurisprudenziale: nonostante la previsione di obblighi antinfortunistici del lavoratore, «in materia di compiti e responsabilità del lavoratore è preliminarmente necessario osservare che l'inosservanza delle norme di prevenzione da parte dei datori di lavoro, dei dirigenti e dei preposti ha valore assorbente rispetto al comportamento dell'operaio, la cui condotta può assumere rilevanza ai fini penalistici solo dopo che da parte dei soggetti obbligati siano adempiute le prescrizioni di loro competenza» (Cass., 23.01.2008 n. 3448). Ed è questo il principio che principalmente trova applicazione nelle aule di tribunale. Anche con riguardo al più puntuale obbligo di cui all'art. 20 co. 2 T.U., la giurisprudenza è costante nel ritenere che: «nel prescrivere che i lavoratori segnalano immediatamente al datore di lavoro, al dirigente o al preposto le deficienze dei mezzi e dispositivi di cui alle lett. b) e c), nonché le altre eventuali condizioni di pericolo di cui vengono a conoscenza, adoperandosi direttamente, in caso di urgenza, nell'ambito delle loro competenze e possibilità, per eliminare o ridurre tali deficienze o pericoli, dandone notizia al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza - contempla un obbligo che sussiste con esclusivo riguardo alle carenze che si manifestino improvvisamente durante il lavoro e non con riguardo alle carenze preesistenti che il datore di lavoro avrebbe dovuto conoscere ed eliminare di propria iniziativa, indipendentemente dalla noncuranza o dalla relativa inerzia dei dipendenti» (Cass., 18.05.2001 n. 20145). Ebbene, nonostante siano veri e propri debitori di sicurezza, la tendenza è quella di preservare una tutela rafforzata nei confronti dei lavoratori, i quali sembra siano chiamati a rispondere per condotta omissiva solo in un secondo step, ovverosia dopo aver accertato l'insussistenza di una responsabilità in capo agli storici destinatari delle norme antinfortunistiche: il datore di lavoro, il dirigente, il preposto. Ma non è forse vero che il Rappresentante dei Lavoratori è pur sempre un lavoratore?
Ad ogni modo, occorre osservare come il modello di salute, sicurezza e prevenzione infortuni, assemblato dal d.lgs. 81/2008, è evidentemente improntato sulla sinergia e sulla compartecipazione di vari soggetti i quali, seppure debbano tra di loro interagire, rimangono pur sempre addetti a distinti microsistemi e ciò è necessario, affinché possa essere raggiunto l'atteso risultato dell'ambiente di lavoro il più possibile salubre e sicuro.
D'altronde, che questa sia la chiave di lettura attraverso cui interpretare il Testo Unico è comprovato dalla più recente novella, la l. n. 215/2021, che ha per l'appunto innovato la disciplina normativa inerente al preposto. Con la previsione del nuovo obbligo posto in capo al datore di lavoro e al dirigente di nominare espressamente il preposto alla sicurezza, si intende perseguire inequivocabilmente una più nitida definizione dei ruoli, per arginare la pericolosa commistione tra gli stessi.
Tutto quanto sopra sostenuto è cristallizzato nella pronuncia dei giudici di legittimità del 19 ottobre 2017, n. 48286. La Suprema Corte ha affrontato il tema della responsabilità per il reato di lesione personale colposa di un datore di lavoro per due distinti infortuni occorsi a due dipendenti, nella stessa squadra, nell'arco di due mesi: «in entrambe le occasioni, era accaduto che - mentre il lavoratore sollevava un manufatto metallico (dimensioni 100 cm X 50 cm X 50 cm), con l'ausilio di un paranco, collegato con catene ad una gru a bandiera - il paranco si era improvvisamente staccato dal gancio facente parte del sistema di sollevamento, investendo l'infortunato agli arti inferiori». La colpa era consistita in negligenza, imprudenza, imperizia, nonché nell'inosservanza di norme preposte alla prevenzione degli infortuni sul lavoro, in quanto il datore di lavoro non aveva adottato le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sarebbero state necessarie a tutelare l'integrità fisica dei lavoratori.
Curiosa la difesa del datore di lavoro: il R.L.S., che nel caso era il secondo infortunato, dopo il primo infortunio verificatosi ai danni del dipendente, avrebbe dovuto informarlo delle modalità con le quali lo stesso si era verificato e della non adeguatezza in termini di sicurezza delle procedure che si stavano utilizzando in azienda per sollevare i carichi, cosa che invece non era avvenuta. La Corte ha sottolineato che: «l'imputato doveva pur sempre considerarsi investito della posizione primaria di garanzia e a lui direttamente faceva carico, ai sensi dell'art. 2087 c.c. e della normativa infortunistica, l'obbligo di mettere a disposizione dei lavoratori attrezzature idonee a garantire la loro sicurezza». Continua precisando che le funzioni del R.L.S. «sono analiticamente indicate nell'art. 50, comma 1, del D.Lgs. n. 81/2008 e rendono assolutamente chiaro come quel lavoratore sia chiamato a svolgere, essenzialmente, una funzione di consultazione e di controllo circa le iniziative assunte dall'azienda nel settore della sicurezza; non gli competono certamente quella di valutazione dei rischi e di adozione delle opportune misure per prevenirli e neppure quella di formazione dei lavoratori, funzioni che restano entrambe appannaggio esclusivo del datore di lavoro». Aggiungeva che, «non a caso, con riguardo al RLS, la fonte normativa parla di “attribuzioni” mentre, in relazione alle condotte del datore di lavoro, si parla di “obblighi”», e che, «in particolare, per quanto riguarda gli “obblighi” di informazione, formazione e addestramento (artt. 36 e 37), essi fanno senz'altro capo al datore di lavoro e ai dirigenti come espressamente dispone l'art. 18, comma 1, lettera l), D.Lgs. n. 81/2008». Precisava, inoltre, che «questi precisi obblighi non potrebbero essere, neppure in astratto, oggetto di delega al R.L.S, perché, altrimenti, si verificherebbe una commistione di funzioni tra di loro inconciliabili (essendo alla figura prevista dall'art. 50 affidate funzioni di controllo sull'adempimento degli obblighi datoriali), che negherebbe il sistema stesso delineato nella vigente normativa antinfortunistica (tanto che lo stesso art. 50, comma 7, prevede che l'esercizio delle funzioni di RLS è incompatibile con la nomina di responsabile o addetto al servizio di prevenzione e protezione)» (Cass. pen., sez. IV, 19 ottobre 2017, n. 48286).
Infine, prima di procedere all'analisi della seconda questione giuridica, appare più che mai opportuna una puntualizzazione: se fosse stata appropriatamente rimarcata l'ulteriore qualifica di membro del Consiglio di amministrazione rivestita all'interno della società dal R.L.S. condannato, di certo la pronuncia in commento non avrebbe destato lo stesso stupore. Sul punto, infatti, la giurisprudenza è pacifica nel ritenere che “nella società di capitali, gli obblighi inerenti alla prevenzione degli infortuni posti dalla legge a carico del datore di lavoro gravano indistintamente su tutti i componenti del consiglio di amministrazione, salvo il caso di delega validamente conferita, sulla posizione di garanzia” (Cass., pen., sez. IV, 19 ottobre 2017, n. 48286).
Ebbene, se la responsabilità colposa per l'infortunio mortale del lavoratore fosse stata ascritta al condannato sulle base della posizione di membro del C.d.a., assimilabile a quella del datore di lavoro per quanto riguarda gli obblighi in materia di prevenzione infortuni, allora la pronuncia avrebbe avuto una risonanza, nonché un principio giuridico, del tutto differente. Invece, dalla lettura del dato testuale della sentenza in commento, ciò che icto oculi emerge è un esclusivo focus sull'asserita posizione di garanzia del condannato, in quanto R.L.S.
LE SOLUZIONI GIURIDICHE - La responsabilità del RLS in base all'art. 113 c.p.
La sentenza in commento giunge a confermare la pronuncia del giudice di merito, che aveva condannato il RLS, ritenendo che la condotta dell'agente abbia «contribuito causalmente alla verificazione dell'evento ai sensi dell'art. 113 c.p.» non ottemperando ai compiti attribuiti dall'art. 50 del d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81. La Suprema Corte osserva come: «l'imputato non abbia in alcun modo ottemperato ai compiti che gli erano stati attribuiti per legge, consentendo che il C.C. fosse adibito a mansioni diverse rispetto a quelle contrattuali, senza aver ricevuto alcuna adeguata formazione e non sollecitando in alcun modo l'adozione da parte del responsabile dell'azienda di modelli organizzativi in grado di preservare la sicurezza dei lavoratori, nonostante le sollecitazioni in tal senso formulate dal D.D.».
L'approccio giurisprudenziale teso a vagliare profili di cooperazione colposa ai sensi dell'art. 113 c.p. per giungere all'affermazione di responsabilità di figure, prive di alcuna posizione di garanzia ai sensi dell'art. 40 cpv c.p., non rappresenta, a ben vedere, una novità, specie nella materia delle violazioni delle norme in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro. Infatti, il tema della responsabilità sul luogo di lavoro, evoca necessariamente scenari di plurime condotte fra loro colposamente concorrenti nella causazione dell'evento, tante quanti sono gli attori che operano assieme all'unico fine di garantire la salubrità dell'ambiente di lavoro.
Come è noto l'art. 113 del codice penale prevede che «nel delitto colposo, quando l'evento è stato cagionato dalla cooperazione di più persone, ciascuna di queste soggiace alle pene stabilite per il delitto stesso», tale ipotesi si differenzia dal concorso di cause colpose indipendenti, posto che solo la prima ipotesi presuppone la consapevolezza di tutti i concorrenti dell'altrui condotta. Ad esempio, non si ha cooperazione nel delitto colposo qualora più persone, pur avendo contemporaneamente violato la medesima regola cautelare, abbiano posto in essere un'autonoma condotta, in mancanza della reciproca consapevolezza di contribuire all'azione od omissione altrui, che sfoci nella produzione dell'evento non voluto (si pensi ad esempio ad una fattispecie in tema di lesioni colpose causate nell'esercizio dell'attività venatoria).
Qualificare l'ipotesi sotto il paradigma dell'art. 113 c.p. anziché ritenere la sussistenza di autonome condotte colpose risulta essere ricca di conseguenze giuridicamente rilevanti, in primo luogo, quanto alla possibilità di concedere, ricorrendone gli ulteriori presupposti, l'attenuante di cui all'art. 114 c.p. (riconoscibile solo nel caso di concorso di persone nel reato), inoltre solo nel caso di concorso si applica l'effetto estensivo ex art. 123 c.p. della querela eventualmente sporta nei confronti di uno solo dei concorrenti nell'unico reato.
Ancora, se è pacifico che nella cooperazione colposa è richiesta la consapevolezza, in capo al soggetto agente, della convergenza delle volontà dei singoli concorrenti nella realizzazione della condotta produttrice dell'evento, restano invece incerti i confini entro i quali tale consapevolezza deve estendersi. Una parte della dottrina ritiene necessaria la consapevolezza della natura colposa della condotta altrui; mentre altra parte della dottrina e la giurisprudenza ritengono, ai fini dell'applicabilità dell'art. 113, bastevole la semplice consapevolezza - anche unilaterale - di cooperare al fatto materiale altrui, rappresentandosene tutti gli elementi fattuali che costituiscono il substrato materiale a prescindere dalla consapevolezza della circostanza che l'ordinamento attribuisca disvalore alla condotta stessa.
Da qui è evidente che laddove si operi in equipe, tipico è il caso degli attori sui luoghi di lavoro in cui ciascuno svolge una attività strettamente interconnessa al lavoro degli altri, piena appare l'applicabilità dell'art. 113 c.p.
Il profilo degno di maggiore attenzione quanto alle dinamiche delle violazioni sui luoghi di lavoro è dato dal rischio, concreto, che l'applicazione estensiva della disposizione di cui all'art. 113 c.p., specie in materia di responsabilità omissiva possa determinare una deroga al disposto di cui all'art. 40 cpv c.p., estendendo la responsabilità concorsuale omissiva anche a soggetti privi di una posizione di garanzia.
Ad esempio, in alcuni arresti la Suprema Corte ha affermato che: «è responsabile ai sensi dell'art. 113 c.p. di cooperazione nel delitto colposo l'agente il quale, trovandosi a operare in una situazione di rischio da lui immediatamente percepibile, pur non rivestendo alcuna posizione di garanzia, contribuisca con la propria condotta cooperativa all'aggravamento del rischio, fornendo un contributo causale giuridicamente apprezzabile alla realizzazione dell'evento, ancorché la condotta del cooperante in sé considerata appaia tale da non violare alcuna regola cautelare, essendo sufficiente l'adesione intenzionale dell'agente all'altrui azione negligente, imprudente o inesperta, assumendo così sulla sua azione il medesimo disvalore che, in origine, è caratteristico solo dell'altrui comportamento» (per tutte si veda Cass., sez. IV, 3 ottobre 2013, n. 43083 - dep. 18 ottobre 2013).
Il caso emblematico di cooperazione colposa in materia attiene alla figura del Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione (RSPP) al quale è attribuita per via giurisprudenziale, in applicazione dell'art. 113 c.p., di fatto una funzione di “gestore del rischio”, pur in mancanza di una espressa posizione di garanzia prevista dalla legge, così è avvenuto nella nota sentenza della Cassazione a Sezioni Unite Thyssenkrupp (Cassazione Penale, Sezioni Unite, 18 settembre 2014 (ud. 24 aprile 2014), n. 38343 Presidente Santacroce, Relatore Blaiotta). Con la conseguenza che il RSPP, che è disegnato dalla legge quale mero consulente del datore di lavoro, quest'ultimo essendo il solo destinatario degli obblighi prevenzionali, potrebbe rispondere assieme al datore di lavoro, pur non avendo i correlativi poteri impeditivi dell'evento.
Ovviamente chi scrive non può non obiettare che una siffatta lettura rischia di svuotare di effettività la disposizione di cui all'art. 40 c.p.v., con buona pace del rispetto del principio di legalità in materia penale. In dottrina vi è chi ha parlato di «orientamento giurisprudenziale “giuscreativo”, in relazione agli obblighi ex lege imposti al Responsabile, che risultano essere ampliati da tale attività ermeneutica, travalicando, sostanzialmente quegli specifici doveri che, positivizzati, risultano di contro, ricompresi nella normativa infortunistica» (Zarra P. L'obbligo sicuritario nel contesto lavorativo e la causazione dell'evento infausto della morte, in Il Sistema Penale in materia di sicurezza del lavoro, Milano, 2023 p. 295).
Inoltre, secondo i criteri generali in tema di responsabilità colposa, non sono addebitabili all'agente tutti gli eventi che si sono verificati in conseguenza della propria condotta contraria al dovere di diligenza, ma solo quelli che la norma violata intendeva prevenire; l'evento deve, cioè, essere la concretizzazione del rischio che la norma ispirata a finalità precauzionali mirava ad impedire.
Allo stesso modo, ed è questo il secondo accertamento da effettuare, il fatto non può essere imputato ai compartecipi, se l'evento si sarebbe comunque verificato nel caso in cui costoro avessero tenuto il comportamento alternativo lecito, se cioè, avessero agito uniformando la propria condotta al dovere di diligenza richiesto dalla regola infranta (Grasso, Commentario sistematico del Codice Penale, II, art. 113,219; Perin, Concretizzazione del rischio, in Enciclopedia del Diritto, Reato colposo, Milano 2021). Ad esempio, nel recente caso dell'incidente ferroviario di Viareggio è stata esclusa la circostanza aggravante della violazione della normativa antinfortunistica per il decesso di soggetti estranei all'impresa, ciò in quanto è necessario che «l'evento sia concretizzazione di tale rischio lavorativo, non essendo sufficiente che lo stesso si verifichi in occasione dello svolgimento di attività lavorativa» (Cass. pen., sez. IV, 8 gennaio 2021, n 32899). Nello stesso quella giurisprudenza che ha ritenuto responsabili per cooperazione colposa soggetti estranei all'azienda, ad esempio gli ispettori del lavoro, proprio in base al presupposto che la condotta doverosa da tenere e non tenuta dall'organo di vigilanza avrebbe evitato il verificarsi dell'evento.
Così Cassazione Penale, sez. IV, sentenza n 15551 del 15 aprile 2008 che aveva riconosciuto per l'omicidio colposo plurimo causato da un incendio di un albergo la responsabilità di chi aveva il compito di controllare sulla regolarità degli impianti e che «ove, almeno tre mesi prima della data dell'incendio […] avesse espletato con la dovuta diligenza i propri appunto doverosi compiti d'istituto esaminando tutti gli impianti suscettibili di dar luogo ad incendi presenti all'interno della struttura alberghiera de qua e rapportando doverosamente la conformazione degli stessi alle caratteristiche della suddetta struttura, nonché controllando il rispetto, da parte del responsabile della medesima, sarebbe stato possibile accertare la complessiva oggettiva situazione di pericolosità, derivante dall'inosservanza, da parte del gestore, di plurime norme di prevenzione e sicurezza, e ad essa sarebbe stato quindi posto rimedio imponendo le specifiche prescrizioni del caso ed adottando tutte le misure previste e consentite dalla legge, sino a quella più drastica costituita dalla temporanea chiusura dell'esercizi».
Ebbene, applicando tali parametri ermeneutici alla sentenza in oggetto ed alla figura del RLS, al di là di quanto già detto in merito all'insussistenza di alcuna posizione di garanzia dello stesso, posto che la legge gli attribuisce diritti e non obblighi all'art. 50 d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81, è evidente ai fini dell'applicazione dell'art. 113 c.p. che anche ove fosse stato posto in essere un suggerimento del RLS al datore di lavoro, il primo non avrebbe avuto alcun potere impeditivo nell'ipotesi in cui il secondo non segua le sue sollecitazioni. Infatti, il RLS non dispone «di alcun potere di intervenire direttamente sull'organizzazione aziendale, essendo invece titolare solo di prerogative e diritti», costui ha solo gli strumenti tipici di tutela collettiva del diritto sindacale (di consultazione e partecipazione), non certo strumenti di prevenzione e protezione (P. Pascucci, Per un dibattito sulla responsabilità penale del RLS, in Diritto della Sicurezza sul lavoro, n. 2/2023).
In altri termini, come hanno scritto i primi commentatori della sentenza: «è altamente probabile che detta comunicazione non avrebbe avuto alcun riverbero sulle decisioni aziendali, stanti la mancanza di potere in capo all'imputato e la piena conoscenza dell'attività posta in essere dall'infortunato da parte del datore di lavoro… nesso causale tra il comportamento del RLS e la morte dell'operaio manca del tutto, non potendosi in alcun modo dimostrare che il semplice suggerimento al datore di lavoro sarebbe sicuramente valso ad evitare l'evento» (B. Deidda, Una china pericolosa: rovesciare sui lavoratori la responsabilità dell'organizzazione delle misure di sicurezza sul lavoro, in Quest. Giur., 9 ottobre 2023).
Ed ancor prima vi è chi ha acutamente osservato come nella prassi delle relazioni del mondo del lavoro il RLS non ha spesso le competenze e gli strumenti per svolgere quella attività consultiva della parte datoriale che la sentenza della Suprema Corte pare impropriamente assegnargli. Se è criticabile l'interpretazione giurisprudenziale estensiva dell'art. 113 c.p. rispetto alla figura del RSPP, che non ha un potere impeditivo, ma è sicuramente una figura dotata di competenza in materia antinfortunistica, un ingranaggio al servizio del datore di lavoro e dell'organizzazione aziendale, la stessa cosa non può dirsi per il RLS. Ed allora il dubbio permane: «su quali risorse può contare il RLS che intenda sottoporre a verifica le informazioni e valutazioni espresse dal datore di lavoro o dal RSPP o dal medico competente?» (R. Guariniello, Il RLS garante della sicurezza?, in Teknoring, 26 settembre 2023).
PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI - La responsabilità penale di un RLS solo in quanto capocantiere – un altro precedente equivoco della Suprema Corte del 2013
In verità, la sentenza in commento non è la prima ad affrontare il tema della responsabilità penale del RLS. Tuttavia, a prima vista risalta come la precedente casistica si distingua per il fatto che gli RLS ritenuti responsabili rivestivano di regola ulteriori ruoli di garanzia, nel caso di seguito, ad esempio, il condannato era anche un capocantiere.
Nel 2013 la Suprema Corte vagliava l'episodio di un infortunio mortale occorso ad un dipendete caduto da un ponte, addebitato oltre che al rappresentante legale dell'impresa edile datrice di lavoro, a soggetto ritenuto titolare di posizione di garanzia in quanto rappresentante dei lavoratori per la sicurezza e capo cantiere per l'esecuzione dei lavori; così la Corte: «la Corte territoriale ha riferito che Co. (RLS) si recava quotidianamente in cantiere, agendo a stretto contatto con gli operai; e che, il giorno in cui il sinistro ebbe verificarsi, Co., del pari presente in cantiere, aveva visionato il ponteggio che C. aveva predisposto, senza ravvisarvi alcuna anomalia. Sul punto di interesse, la Corte distrettuale ha sottolineato che il ponteggio, contrariamente a quanto previsto espressamente dalla scheda n. 58 del piano di sicurezza, aveva una larghezza inferiore a 0,9 mt.; che le tavole non erano fissate tra loro e neppure fissate ai cavalletti di appoggio; che le parti a sbalzo delle tavole erano di lunghezza superiore a cm. 20 e che mancava il fermapiede alto almeno cm. 20. Sulla scorta di tali rilievi, la Corte di Appello ha quindi del tutto logicamente osservato che Co. era venuto meno ai precisi obblighi impostigli sia dalla qualifica di capo cantiere, sia dalla effettiva presenza in cantiere e dall'intervenuta visione del ponteggio, che era stato montato in modo irregolare, dallo stesso lavoratore di poi deceduto». (Cfr. Cass. pen., sez. IV, 16 marzo 2015, n. 11135). Alla fine, nessuna condanna per essersi il reato estinto per prescrizione. Nonostante ciò, vale la pena sottolineare l'iter argomentativo della Suprema Corte, la quale avrebbe addebitato l'infortunio mortale anche al Co. non in quanto R.L.S., ma in qualità di capo cantiere, responsabile dell'esecuzione dei lavori, pacificamente soggetto titolare di una posizione di garanzia ex lege prevista.
Controversa risulta essere la soluzione offerta al caso di un dipendente «precipitato al suolo a causa della rottura di una tettoia in eternit mentre era intento ad eseguire lavori di riparazione del tetto ad una altezza di circa 4-5 m dai suolo, in difetto di opere provvisionali tali da consentire la loro effettuazione in condizioni di sicurezza, rispetto al pericolo di caduta dall'alto dei lavoratori». Con la decisione di merito si accertava che l'unico responsabile era da rinvenire nel datore di lavoro; quest'ultimo proponeva ricorso in Cassazione dolendosi del fatto che «il dipendente era esperto in prevenzione degli infortuni nella sua qualità di rappresentante della sicurezza dei lavoratori e avrebbe dovuto rifiutare il lavoro e pretendere le opere provvisionali ritenute necessarie». Tuttavia, la Suprema Corte non concordava, in prima battuta sostenendo «la responsabilità penale del datore di lavoro non è esclusa per il solo fatto che sia stato designato il Responsabile del servizio di prevenzione e protezione, cui sono demandati dalla legge compiti diversi intesi ad individuare i fattori di rischio, ad elaborare le misure preventive e protettive e le procedure di sicurezza relative alle varie attività aziendali». Per poi alla fine deviare, adducendo l'equivoca conclusione per cui «il lavoratore era stato nominato rappresentante dei lavoratori per la sicurezza per un periodo di tre anni, per cui all'epoca dell'infortunio egli sicuramente non lo era più» (Cass. pen., sez. fer., 22 agosto 2013, n. 35424).
OSSERVAZIONI - La necessarietà di un ridimensionamento della portata della pronuncia, non idonea a creare una posizione di garanzia in capo al RLS
Il disegno che emerge dalla casistica giurisprudenziale appare tutt'altro che cristallino. Ad ogni modo, si ritiene che la portata della sentenza in commento debba essere ridimensionata e che di fatto non abbia definito alcuna posizione di garanzia in capo al RLS in quanto tale.
Se si analizza il caso concreto dal quale muove la sentenza della Suprema Corte, i principi ivi espressi divengono evanescenti. La Cassazione interviene in una situazione di merito di certo non commendevole, dove, inaspettatamente, il R.L.S. era anche membro del consiglio di amministrazione della società datrice di lavoro, quindi del tutto incompatibile ed il palese conflitto di interesse con la funzione, ontologicamente di parte, assegnatagli dalla legge, di baluardo a tutela dei lavoratori e della loro salute (pare fra l'altro che neppure fosse conosciuta tale sua funzione dai lavoratori). In questa situazione è evidente che sotto le mentite spoglie di un RLS si celava il datore di lavoro, membro del CDA, con tutte le note questioni e conseguenze in merito alla propria posizione di garanzia
Quindi, nel caso di specie, la condanna penale nei confronti del Rappresentante dei lavoratori, da parte delle corti di merito, è stata determinata certamente dall'ulteriore ruolo di membro del Cda da quest'ultimo rivestito. Certo è che il Giudici di legittimità avrebbero potuto sottolinearlo in maniera più esplicita, evitando di appiccare un fuoco di paglia a discapito degli R.L.S, i quali nella prassi delle relazioni del mondo del lavoro spesso non hanno le competenze e gli strumenti per svolgere al meglio quell'attività di consultazione, di informazione, di accesso e di formulazione di proposte, in costante rapporto con il datore di lavoro. Se è vero che “una rondine non fa primavera”, ci si aspetta un prossimo dietrfront della Corte di Cassazione, riallineandosi a quanto sostenuto solo pochi anni orsono, ovvero che le funzioni del RLS «sono analiticamente indicate nell'art. 50, comma 1, del D.Lgs. n. 81/2008e rendono assolutamente chiaro come quel lavoratore sia chiamato a svolgere, essenzialmente, una funzione di consultazione e di controllo circa le iniziative assunte dall'azienda nel settore della sicurezza; non gli competono certamente quella di valutazione dei rischi e di adozione delle opportune misure per prevenirli e neppure quella di formazione dei lavoratori, funzioni che restano entrambe appannaggio esclusivo del datore di lavoro». Concludeva con l'affermazione: «non a caso, con riguardo al RLS, la fonte normativa parla di “attribuzioni” mentre, in relazione alle condotte del datore di lavoro, si parla di “obblighi”». Solo tale impostazione potrebbe essere, in assenza di un'apposita modifica normativa, conforme ai principi generali del diritto penale in tema di responsabilità colposa per infortuni sul lavoro ed idonea a scongiurare il rischio di un “effetto emulativo” della sentenza in commento da parte dei futuri interpreti della materia.
RIFERIMENTI
Giurisprudenza
Tribunale Trani, giudice unico, 17 gennaio 2019
Appello Bari, sez. I pen., 11 marzo 2022
Cass., sez. lav., 15 settembre 2006, n. 19965;
Cass. pen., sez. IV, 05 febbraio 2021, n. 4490;
Cass. pen., sez. IV, 31 dicembre 2003, n. 49462;
Cass. pen., sez. IV, 3 maggio 2021, n. 16697;
Cass. pen., sez. IV, 23 gennaio 2008, n. 3448;
Cass. pen., sez. IV, 18 maggio 2001, n. 20145;
Cass. pen., sez. IV, 19 ottobre 2017, n. 48286;
Cass. pen., sez. IV, 3 ottobre 2013 n. 43083;
Cass. pen., sez. un., 18 settembre 2014 n. 38343;
Cass. pen., sez. IV, 8 gennaio 2021 n. 32899;
Cass. pen., sez. IV, 15 aprile 2008 n. 15551;
Cass. pen., sez. IV, 16 marzo 2015, n. 11135;
Cass. pen., sez. fer., 22 agosto 2013, n. 35424.
Dottrina
B. Deidda, Una china pericolosa: rovesciare sui lavoratori la responsabilità dell'organizzazione delle misure di sicurezza sul lavoro, in Quest. Giust., 9 ottobre 2023;
G.Grasso, Commentario sistematico del Codice Penale, II, art. 113,219;
R. Guariniello, Il RLS garante della sicurezza?, in Teknoring, 26 settembre 2023;
P. Pascucci, Per un dibattito sulla responsabilità penale del RLS, in Diritto della sicurezza sul lavoro, n. 2/2023;
A. Perin, Concretizzazione del rischio, in Enc. Dir., Reato colposo, Milano, 2021
P. Zarra, L'obbligo sicuritario nel contesto lavorativo e la causazione dell'evento infausto della morte, in Il Sistema Penale in materia di sicurezza del lavoro, Milano, 2023, 295.
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Sommario
IL CASO - Responsabilità del datore di lavoro e del RLS a titolo di cooperazione colposa per l'infortunio mortale occorso ad un disegnatore adibito regolarmente a mansioni di magazziniere
LE QUESTIONI - Criticabilità dell'interpretazione conferita al ruolo di RLS dalla Suprema Corte e dell'applicazione dell'art. 113 c.p.
LE SOLUZIONI GIURIDICHE - Il ruolo e l'asserita posizione di garanzia del R.L.S.
LE SOLUZIONI GIURIDICHE - La responsabilità del RLS in base all'art. 113 c.p.
PRECEDENTI GIURISPRUDENZIALI - La responsabilità penale di un RLS solo in quanto capocantiere – un altro precedente equivoco della Suprema Corte del 2013
OSSERVAZIONI - La necessarietà di un ridimensionamento della portata della pronuncia, non idonea a creare una posizione di garanzia in capo al RLS