Lo statuto penale dei sindaci nei fatti di bancarotta fraudolenta e la determinazione della pena accessoria

26 Ottobre 2023

La Cassazione penale torna ad occuparsi della responsabilità dei sindaci, per concorso nel delitto di bancarotta fraudolenta, esaminandone i presupposti e ribadendo che tale responsabilità non può essere desunta solo dalla posizione di garanzia rivestita e dal mancato esercizio dei relativi doveri di controllo.

Massima

Nella necessità di dovere individuare un criterio al quale il giudice deve attenersi nella rideterminazione della durata delle pene accessorie, non più fissa (dieci anni), ma indicata dall'art. 216, ult. comma, l.fall. solo nel massimo, le Sezioni Unite, intervenute successivamente alla pronunzia della Corte costituzionale n. 222/2018, hanno affermato che le pene accessorie fallimentari, così come le altre pene accessorie per le quali la legge indica un termine di durata non fissa, devono essere determinate in concreto dal giudice in base ai criteri di cui all'art. 133 c.p.

Nel caso in cui venga contestata – come nella specie – la responsabilità per concorso nel delitto di bancarotta fraudolenta dei componenti del collegio sindacale, essa non può essere desunta solo dalla posizione di garanzia rivestita e dal mancato esercizio dei relativi doveri di controllo, ma postula la verifica dell'esistenza di elementi, dotati di adeguato e necessario spessore indiziario, sintomatici della partecipazione, causalmente libera, dei sindaci stessi all'attività degli amministratori ovvero dell'effettiva incidenza causale dell'omesso esercizio dei doveri di controllo sulla commissione del reato.

La responsabilità de sindaci sussiste solo qualora emergano puntuali elementi sintomatici, in forza dei quali l'omissione del potere di controllo esorbiti dalla dimensione meramente colposa per assurgere al rango di elemento dimostrativo di dolosa partecipazione, sia pure nella forma del dolo eventuale, per consapevole volontà di agire anche a costo di far derivare dall'omesso controllo la commissione di illiceità da parte degli amministratori.

Il caso

La vicenda della quale si occupa la sentenza in commento ha ad oggetto il fallimento di una società calcistica dichiarato dal Tribunale di Salerno il 19 luglio 2006. La società veniva esclusa a partire dalla stagione 2004/2005 dalle competizioni professionistiche. A seguito di neppure un anno di liquidazione veniva dichiarata fallita su istanza del pubblico ministero il quale, riconoscendo lo stato di insolvenza, evidenziava come non fosse praticabile il proseguo dell'attività in quanto la società non era in grado di assicurare il soddisfacimento delle ragioni vantate dai creditori e, in particolare tra questi l'Erario, per un passivo che ammontava a circa 49 milioni di euro.

Tra le condotte penalmente rilevanti poste in essere nell'ambito del fallimento descritto, la sentenza in commento si occupa di quelle contestate ad alcuni dei componenti del collegio sindacale. In particolare, viene contestato ai sindaci di aver partecipato al dissesto della società, in concorso con gli amministratori, dal momento che veniva omessa la vigilanza adeguata e la messa in mora degli amministratori circa rilevanti operazioni sociali che, se tempestivamente contrastate, avrebbero avuto quantomeno l'effetto di attenuare l'evento distrattivo.

Tra queste, vengono contestate in primo luogo plurime distrazioni compiute in favore del presidente della fallita succedutesi per diversi anni, operate anche mediante versamenti in contanti. Altri capi d'imputazione sono dedicati invece agli addebiti, da una parte a titolo di distrazione di capitali per l'acquisto di azioni della società controllante, dall'altra per la dissipazione del patrimonio della fallita in ragione di un simulato contratto di acquisto di un calciatore avvenuto in un momento in cui la fallita si trovava in una situazione economica già fortemente compromessa e tale da determinare l'esclusione dai campionati professionistici.

Infine, viene contestato ai sindaci – sempre in concorso con gli amministratori - l'ulteriore condotta distrattiva di ingenti somme di denaro correlate a due operazioni immobiliari.

Avverso la sentenza d'appello viene proposto ricorso per Cassazione.

In primo luogo, un componente del consiglio di amministrazione della società fallita lamenta l'erronea applicazione dei principi affermati in giurisprudenza in tema di applicazione della pena accessoria nel reato di bancarotta fraudolenta.

Ricorrono per Cassazione poi alcuni componenti del collegio sindacale per eccepire che il cattivo governo fatto dal giudice del merito dei principi in materia di responsabilità penale dei sindaci, con particolare riguardo al contenuto della posizione di garanzia (art. 40, comma 2, c.p.), al nesso eziologico fra omissioni nell'attività di vigilanza e dissesto dell'ente (art. 40, comma 1, c.p.), e all'elemento soggettivo (art. 43 c.p.) che deve connotare tali violazioni dei doveri di legge affinché esse assurgano a penale rilevanza.

Le questioni giuridiche

La prima questione affrontata dalla Corte attiene alla corretta dosimetria della pena accessoria prevista dall'ultimo comma dell'art. 216 l. fall. Con riferimento a ciò si deve osservare come sia intervenuto sul punto il Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza (d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14) che ha modificato la comminatoria della pena accessoria all'attuale art. 322, comma 4, c.c.i. prevedendo che “la condanna per uno dei fatti [di bancarotta fraudolenta] importa l'inabilitazione all'esercizio di un'impresa commerciale e l'incapacità ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa fino a dieci anni”.

La previsione così riformata raccoglie gli approdi della giurisprudenza, in particolare di costituzionalità, relativi alle pene accessorie. La sentenza della Consulta n. 222/2018 si inserisce infatti un filone giurisprudenziale entro il quale viene vagliata la tenuta costituzionale delle pene accessorie previste dal codice penale nella sua versione originaria e dai reati introdotti, come quelli fallimentari, prima dell'avvento della Costituzione e di evidente impronta autoritaria. La pena accessoria, e in particolare la sua misura fissa, vengono a determinare un automatismo sanzionatorio ritenuto incompatibile con il principio, ormai considerato di rango costituzionale, di proporzionalità della pena. Come affermato anche dalla giurisprudenza di legittimità infatti “la durata delle pene accessorie per le quali la legge stabilisce, in misura non fissa, un limite di durata minimo ed uno massimo, ovvero uno soltanto di essi, deve essere determinata in concreto dal giudice in base ai criteri di cui all'art. 133 cod. pen. e non rapportata, invece, alla durata della pena principale inflitta ex art. 37 cod. pen.” (cfr. Cass. Sez.Un., 28 febbraio 2019, n. 28910).

Pertanto, entro l'ottica di evitare ogni automatismo sanzionatorio, il principio affermato indica la necessità di attribuire una discrezionalità al giudice, il quale dovrà procedere nell'applicazione entro i criteri commisurativi generali dettati dagli artt. 132 e 133 c.p.

Il riferimento agli indici commisurativi e, più in generale, alla discrezionalità del giudice nella commisurazione della pena, comporta l'onere in capo allo stesso di una motivazione specifica in punto di dosimetria anche della pena accessoria. La questione giuridica affrontata nella sentenza in commento si concentra infatti, oltre che sull'asserita violazione di legge, anche sul vizio motivazionale.

Con riferimento all'onere di motivazione la previsione dell'art. 132 c.p., nella parte in cui impone al giudice di “indicare i motivi che giustificano l'uso [del suo potere discrezionale]”, viene spesso ridimensionata dall'interpretazione data dalla giurisprudenza. È impostazione pressoché tralatizia quella secondo la quale qualora la determinazione della pena non si discosti eccessivamente dai minimi edittali, il giudice assolva l'obbligo motivazionale entro formule essenziali, quali “pena congrua”, “pena equa” oppure – con riferimento alla pena accessoria – guardando alla gravità del reato e alla pena principale inflitta per lo stesso.

A costituire, però, argomento centrale della sentenza in commento sono le questioni sollevate dai componenti del collegio sindacale che hanno offerto lo spunto per la Corte di ricostruire lo statuto della responsabilità penale dei sindaci nell'ambito dei reati fallimentari nei seguenti termini.

In particolare, viene presa in considerazione dapprima la responsabilità dei sindaci dal punto di vista dell'elemento oggettivo. I sindaci rispondono in proprio dei delitti di bancarotta, anche quando non vi sia stato il concorso con gli amministratori o altri soggetti indicati dall'art. 223 l. fall. (ora art. 329 c.c.i.).

Alla luce della casistica rinvenibile in giurisprudenza, però, di norma, ai sindaci viene contestata - come nel caso di specie - la responsabilità per fatti di bancarotta fraudolenta commessi in concorso con gli amministratori. L'attribuzione a titolo di concorso comporta che l'addebito mosso ai sindaci sia necessariamente per una condotta omissiva data dal mancato esercizio dei loro doveri di controllo e vigilanza sull'operato dell'organo gestorio, così come previsti dall'art. 2403 c.c.

Sulla scorta di ciò viene ritenuto quindi, in ragione dell'orientamento prevalente in dottrina, che in capo ai sindaci sussista una posizione di garanzia il cui contenuto è quello di un controllo funzionale ad evitare che la gestione della società sia strumentalizzata al fine di commettere reati.

La Corte tiene a precisare come, nell'accertamento dell'elemento oggettivo, questo non si debba limitare a verificare la sola sussistenza della posizione di garanzia rivestita, e quindi l'aver omesso l'esercizio del potere-dovere di controllo o comunque la mancata adozione delle iniziative finalizzate ad impedire o eliminare altrui irregolarità.

Sarà necessario l'approfondimento ulteriore circa la sussistenza un nesso eziologico tra dette omissioni e gli illeciti commessi dagli appartenenti dell'organo gestorio. Ciò in ossequio agli elementi richiesti dalla fattispecie concorsuale, così come descritta dal legislatore.

Vengono precisati poi la latitudine e il contenuto del controllo che i sindaci sono chiamati ad esercitare. La Corte, facendo proprio un orientamento consolidato, afferma come quello sindacale non sia limitato a un mero controllo contabile ed estrinseco, ma debba incidere sul contenuto della gestione. Questo al fine di verificare se l'attività gestoria possa dirsi rispettosa dei parametri imposti dalla legge.

Con ciò non si intende attribuire al collegio sindacale il potere di verifica circa l'opportunità delle scelte imprenditoriali, di competenza esclusiva degli amministratori. Piuttosto un controllo c.d. di legalità, non limitato ai profili estrinseci e in grado di tutelare gli interessi dei soci e dei creditori sociali nelle facoltà a quest'ultimi attribuite di interrogazione degli amministratori circa l'andamento della società e della sua gestione.

La posizione di garanzia così descritta deve essere completata con l'indicazione della fonte degli obblighi impeditivi. Essa viene individuata nelle disposizioni di legge di cui agli artt. 2403 e ss. c.c. relative al funzionamento del collegio sindacale e compiutamente esaminate dalla pronuncia in commento.

Il fondamento dell'obbligo trova enunciazione nel comma 1 del 2403 c.c., laddove è previsto che “il collegio sindacale vigila sull'osservanza della legge e dello statuto, sul rispetto dei principi di corretta amministrazione ed in particolare sull'adeguatezza dell'assetto organizzativo, amministrativo e contabile adottato dalla società e sul suo concreto funzionamento”.

La latitudine della posizione di garanzia in capo ai sindaci viene descritta dalla sentenza in commento guardando all'evoluzione normativa riscontratasi in questo settore dell'ordinamento con la riforma introdotta dal d. lgs. 17 gennaio 2003, n. 6.

In particolare, è utile guardare alle modifiche introdotte in relazione alla posizione di garanzia in capo agli amministratori senza deleghe. A mente dell'art. 2932 c.c., nel suo dettato originario, gli amministratori erano solidalmente responsabili se non avessero vigilato sul generale andamento della gestione o se, essendo a conoscenza di atti pregiudizievoli non avessero fatto quanto potuto per impedirne il compimento o per eliminare o attenuarne le conseguenze dannose.

Il dovere di vigilanza così imposto è sostituito, a seguito della riforma del 2003, in un più generico “dovere di agire informato” con la possibilità, a mente dell'art. 2381 c.c., per gli amministratori di richiedere informazioni in sede di consiglio di amministrazione e quindi vagliare l'andamento della gestione societaria.

L'obbligo di vigilanza non è venuto invece meno per i componenti del collegio sindacale, per i quali l'art. 2403 c.c. ancora utilizza il verbo “vigilare”. Non solo: tale obbligo è accompagnato dalla previsione di corrispettivi poteri quali, quello di procedere direttamente e in qualsiasi momento ad atti di ispezione e controllo (art. 2403-bis, comma 1, .cc.), di poter richiedere informazioni con gli organi di governance delle società controllate (art. 2403-bis, comma 2, c.c.), di poter convocare l'assemblea in caso di ingiustificato ritardo degli amministratori (art. 2406 comma 1 c.c.), oppure ancore quello di convocare l'assemblea qualora vengano ravvisati fatti censurabili di rilevante gravità con urgenza di provvedere (art. 2406 comma 2 c.c.).

A completamento di tale strumentario di poteri, e quale extrema ratio del sistema, l'art. 2409 c.c. conferisce il potere in capo al collegio sindacale di adire l'autorità giudiziaria, mediante ricorso notificato anche alla società, qualora vi sia fondato motivo di ritenere che l'organo gestorio abbia compiuto, in violazione dei propri doveri, gravi irregolarità in grado di arrecare nocumento alla società o a una o più controllate.

Il quadro tratteggiato dalla Corte circa lo statuto della responsabilità penale dei sindaci si completa con l'analisi dell'elemento soggettivo che deve sussistere in capo a questi. Come richiesto dalla fattispecie concorsuale, è necessario che sia accertato che il soggetto abbia agito con il dolo di concorrere alla commissione del reato. Nel caso di specie, rappresentandosi e volendo la realizzazione del fatto posto in essere dagli amministratori. Questo con una precisazione data dall'orientamento giurisprudenziale maturato sul punto: ai fini dell'attribuzione di responsabilità non necessariamente il dolo dovrà essere diretto, ma ben potrà essere anche eventuale, non essendoci valide ragioni per poter escludere quest'ultimo.

Venendo quindi all'analisi delle componenti del dolo, con riferimento alla particolare struttura omissiva del reato, sul piano rappresentativo dovrà verificarsi la consapevolezza che la condotta omissiva determini un depauperamento del patrimonio sociale ai danni dei creditori, non essendo invece richiesta la specifica conoscenza del dissesto della società.

Quanto al piano della volizione, invece, sarà necessario individuare puntuali elementi sintomatici, in forza dei quali l'omissione del potere di controllo, e quindi dei poteri di vigilanza, «esorbiti dalla dimensione meramente colposa per assurgere al rango di elemento dimostrativo di dolosa partecipazione» (v. p. 12 sentenza in commento). Ciò, se del caso, anche nella forma del dolo eventuale «quale consapevole volontà di agire anche a costo di far derivare dall'omesso controllo la commissione di illiceità da parte degli amministratori» (v. p. 12 sentenza in commento).

Ultima questione affrontata nella sentenza in commento attiene all'indebito trattamento unitario, da parte della pronuncia impugnata, delle condotte di bancarotta distrattiva e dissipativa. Per bancarotta distrattiva di intende un distacco dal patrimonio sociale di beni cui viene data una destinazione diversa da quella di garanzia dei creditori. Ciò a nulla rilevando se al momento della distrazione la società versi o meno in stato di insolvenza.

Con la ‘dissipazione', invece, si suole indicare la condotta di impiego di beni sociali in maniera distorta e fortemente eccentrica rispetto alla loro funzione di garanzia patrimoniale, per effetto di scelte incongrue con le effettive esigenze dell'azienda, avuto riguardo alle sue dimensioni e complessità, oltre che alle specifiche condizioni economiche ed imprenditoriali sussistenti nel momento in cui detta condotta è posta in essere.

Le soluzioni

Quanto alla prima questione, relativa alla dosimetria sanzionatoria della pena accessoria, la Corte con la sentenza in commento ritiene di aderire all'impostazione prevalente sul tema in giurisprudenza. In particolare, il ricorrente lamentava che le pene accessorie fossero state applicate sulla base di una motivazione dalla quale non erano intellegibili le ragioni poste a fondamento dalla Corte d'appello nell'individuazione della durata della pena accessoria in due anni, operata in rapporto alla pena principale.

Tenuto conto dell'interpretazione formatasi nella giurisprudenza di legittimità a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 222/2018, ritiene il Supremo Collegio che la pena accessoria, così determinata, non possa ritenersi illegalmente inflitta. Ciò in quanto l'illegalità della pena non discende tanto dal fatto che la pena accessoria, come quella prevista dall'art. 216 l. fall., ecceda un limite predeterminato, ma solo dall'illegittimità costituzionale della comminatoria in misura fissa.

Sono invece oggetto di accoglimento da parte della Cassazione i motivi di ricorso espressi dai componenti del collegio sindacale.

Facendo buon governo dei principi affermati entro la ricostruzione dei possibili profili di responsabilità penale dei sindaci, affrontando il caso di specie la Corte giunge a ritenere fondate le doglianze dei ricorrenti quanto agli addebiti a loro mossi.

Viene infatti ritenuto che non sarebbe stato correttamente svolto, nella sentenza della corte territoriale, il corretto accertamento circa il nesso di causalità tra le condotte omissive contestate e gli illeciti commessi dagli amministratori.

Annullando la sentenza impugnata, il Supremo Collegio indica al giudice del rinvio entro quali parametri operare il nuovo giudizio. Oggetto di verifica per i giudici del merito sarà quello della conoscenza da parte dei sindaci della «reale situazione della società ovvero, in altri termini, se fossero emersi inequivoci segnali di allarma, percepibili dall'organo di controlla, che avrebbero dovuto indurli a comprendere che la società non fosse semplicemente in crisi, ma che si fosse determinata una situazione di insolvenza irreversibile».

La Corte poi non si limita a ciò, ma precisa che, in caso di esito positivo di questa prima valutazione di merito, il giudice distrettuale dovrà operare il giudizio controfattuale finalizzato a «verificare se, qualora le attività che si assumono omesse fossero state poste in essere, l'evento del reato – vale a dire il depauperamento patrimoniale in danno dei creditori – si sarebbe egualmente verificato».

Anche circa gli argomenti relativi all'accertamento dell'elemento soggettivo in capo ai sindaci, per come ricordati nella ricostruzione della struttura della responsabilità penale del sindaco, la sentenza è oggetto di annullamento con rinvio. La corte distrettuale avrebbe infatti omesso di indicare «puntuali elementi sintomatici del mancato doloso adempimento da parte degli imputati dei poteri-doveri di vigilanza».

Con riferimento all'ultima questione sollevata, ossia all'indebita trattazione unitaria delle condotte di bancarotta distrattiva e dissipativa, ritiene la Corte di annullare con rinvio la sentenza impugnata. Ciò in quanto la condotta contestata relativa all'acquisto di un calciatore è attività che rientra nell'oggetto sociale della fallita non potendosi quindi ravvisare né una condotta di natura distrattiva quanto al contratto posto in essere per l'acquisto, né una condotta dissipativa in quanto condotta non estranea all'oggetto sociale e quindi non in grado di costituire oggetto di controllo da parte dei sindaci.

Osservazioni

L’approdo raggiunto con la sentenza in commento non piò che salutarsi con favore, tanto per i principi affermati, quanto per il rigore metodologico con il quale vengono affrontante le delicate problematiche connesse alla responsabilità del collegio sindacale nelle società di capitali.

Condivisibili sono infatti i principi affermati, i quali, entro un’ottica di maggior legalità a garanzia degli imputanti, portano il giudice del merito a una valutazione più attenta degli elementi di tipicità dei reati contestati. Il fatto, pur complesso nella sua struttura, non esime da un accertamento puntuale di tutti i requisiti richiesti dalla fattispecie per giungere all’affermazione della penale responsabilità.

Detti requisiti vengono individuati con puntualità nella parte della sentenza che la Corte dedica alla ricostruzione della complessa fattispecie incriminatrice.

L’indicazione del contenuto e della latitudine della posizione di garanzia, la necessità di accertamento del nesso eziologico con l’operato degli amministratori, fino ai tratti che caratterizzano l’elemento soggettivo dei reati contestati vengono analizzati con ordine e rigore scientifico, restituendo un valido compendio, arricchito anche dalla fotografia degli orientamenti giurisprudenziali sul punto, sullo statuto penale della responsabilità dei sindaci.

Ugualmente pregevole, seppur accennata nella parte finale, è la distinzione operata tra le diverse condotte, distrattiva e dissipativa, della bancarotta fraudolenta.

Infine, è da valutarsi altresì con favore il modo in cui la sentenza in commento affronta e risolve il tema delle pene accessorie e della loro dosimetria. La Corte fa propria una sensibilità maturata nella giurisprudenza prima costituzionale e poi di legittimità per il principio di proporzionalità della pena, facendo quindi una corretta applicazione di quest’ultimo nel caso di specie.

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