La tutela della certezza nell’accertamento

Saverio Capolupo
06 Novembre 2023

Pur non essendo mancato qualche tentativo in passato, per la prima volta, una norma specifica in materia di certezza del diritto tributario è rinvenibile nella legge delega per la riforma fiscale n. 111/2023 (art. 17). Va da sé che detto principio è strettamente collegato ad altri canoni fondamentali tra cui, in particolare, quello dell'affidamento e della buona fede; la sua applicazione soltanto alle ipotesi previste dalla delega costituirebbe un grave errore di valutazione. Si rende necessaria, per contro, un'azione di coordinamento con i principi dello statuto dei diritti del contribuente dando un contenuto concreto ai canoni generali ivi indicati. Inoltre, la certezza del diritto sussiste soltanto se effettivamente i principi giuridici siano enunciati in modo chiaro, delimitati in modo preciso, senza che il quadro giuridico di riferimento sia modificato in continuazione, e restino costanti nel tempo.

L’attuale incertezza

È noto che il sistema tributario domestico presenta, allo stato attuale, un’unica certezza ovvero la mancanza di principi consolidati che consentano ai contribuenti, ai professionisti e agli stessi Giudici tributari di applicare, ognuno per le rispettive competenze, principi  sanciti in modo chiaro la cui efficacia sia oggettivamente perimetrata al fine di evitare discriminazioni tra i contribuenti per situazioni uguali e/o analoghe; avviare procedimenti di accertamento che sono, in tutto o in parte, destinati ad essere annullati in sede contenziosa; costringere i contribuenti a sostenere inutili costi amministrativi; sprecare da parte degli uffici finanziari e della Guardia di Finanza risorse umane e materiali in attività improduttive di un maggiore gettito erariale.

In un sistema connotato da incertezza, con il forte contributo della stessa giurisprudenza (e non solo di merito ma della stessa Cassazione) la responsabilità, ovviamente, è di tutti e di nessuno.

Le migliaia di leggi tributarie, attualmente vigenti, mal coordinate (se non addirittura in contrasto tra di loro), il disallineamento della normativa interna con quella comunitaria (e non solo nel settore delle imposte indirette), alcune posizioni della Corte costituzionale che di recente continua a rimettere la palla al Legislatore (si pensi, per tutti al contraddittorio preventivi), non aiutano certamente a individuare schemi e soluzioni giuridiche che siano destinate a permanere nel tempo.

Né, al riguardo, può sostenersi che il nostro ordinamento giuridico, di derivazione romanistica, è fortemente connotato dal principio di civil low e, quindi, da un eccessivo formalismo. Tale rilievo, certamente, veritiero non inficia, però, la critica di fondo che riguarda un  Parlamento finora insensibile a risolvere una tematica, quella della certezza del diritto, che si pone come pilastro fondamentale di qualsiasi ordinamento giuridico degno di tale nome.

Tale incertezza, ovviamente, oltre a determinare ingiuste penalizzazioni ovvero ingiustificati premi, agevola l’evasione, facilità la corruzione, provoca disorientamento, incide negativamente sulla crescita dell’etica fiscale e rende, oggettivamente, non sempre agevole la stessa formazione e l’aggiornamento professionale, requisiti essenziali per una orientata e giusta attuazione dell’obbligazione tributaria.

Il principio della certezza del diritto nella legge delega

La necessità di assicurare certezza del diritto tributario, ovviamente, non è esigenza sorta soltanto negli ultimi tempi tenuto conto che dopo la riforma degli anni settanta, al di la à di alcune importanti innovazioni in materia di IVA e imposte sui redditi, gli interventi legislativi sono stati sempre di tipo mirato, a seconda delle esigenze (richiami della Corte Costituzionale su specifici temi, indicazioni della Corte di Giustizia dell'Unione Europea, Statuto dei diritti del contribuente, necessità di applicare alcuni principi della Corte europea dei diritti dell'uomo, ecc.), ma soprattutto per fronteggiare incrementi di gettito, soddisfare le richieste delle maggioranze di volta in volta presenti in Parlamento, assicurare premi ai singoli esponenti politici, a prescindere dalla necessità di fronteggiare eventi imprevisti e imprevedibili quali  terremoti, inondazioni, pandemia, ecc.

Pur dovendo riconoscere che non è mancato qualche tentativo in passato, va preso doverosamente atto, con totale condivisione, che, per la prima volta, una norma specifica in materia di certezza del diritto tributario è rinvenibile nella legge delega per la riforma fiscale n. 111 del 9 settembre 2023.

Ovviamente va sempre considerato che il principio della certezza del diritto è strettamente collegato ad altri canoni fondamentali tra cui, in particolare, quello dell'affidamento e della buona fede.

Inoltre, tenuto conto di quanto già previsto dall'art. 1 della legge n. 212/2000 (statuto dei diritti dei contribuenti), occorre evitare che la formulazione della legge delegata, in un Paese dove ogni magistrato può interpretare liberamente il dato normativo, sia a “maglie larghe”.

È necessario, cioè, che ogni qualvolta la norma non sia chiara nella sua portata, il contribuente debba quanto meno essere esentato dall'irrogazione di sanzioni connesse ad eventuali interpretazioni (in buona fede) ritenute errate. In sostanza, si può parlare di certezza del diritto soltanto se effettivamente i principi giuridici siano  enunciai in modo chiaro, delimitati in modo preciso,  senza che il quadro giuridico di riferimento sia modificato in continuazione.

L'occasione offerta dalla legge delega va utilizzata per superare la convinzione di  molti operatori, soprattutto stranieri, secondo cui nel nostro Paese, pur proliferando migliaia e migliaia di norme, non è mai chiaro quella che deve essere correttamente applicata, anche a voler prescindere dalle conseguenze sul versante del contenzioso. 

Fermo restando che i principi enunciati nell'art. 17, comma 1, lett. h) numeri da 1) a 4) della citata legge n. 111/2023, non si applicano  ai fini della riforma dell'attività di accertamento prevista dalla disciplina doganale e da quella in materia di accise e delle altre imposte indirette  sulla produzione e sui consumi nonché ai fini della riforma dell'istituto della revisione dell'accertamento doganale, in quanto trovano la loro disciplina in altra sede, nel comparto delle imposte sui redditi e dell'IVA, la delega prevede una revisione dei termini di accertamento e di decadenza e una doppia limitazione con riferimento all'uso delle presunzioni in sede di accertamento.

La riduzione dei  termini di decadenza

È indubbio che la certezza del diritto non riguardi soltanto il piano sostanziale dell'obbligazione tributaria e i criteri di determinazione della capacità contributiva ma anche il periodo a disposizione dell'Amministrazione Finanziaria per procedere all'accertamento e alla notifica degli eventuali atti impositivi.

In merito, basterebbe ricordare il susseguirsi degli interventi legislativi con riferimento ai termini di decadenza in presenza di una notitia criminis, senza considerare la stessa indeterminatezza di tale presupposto. Indubbiamente, il tempo a disposizione dell'Amministrazione deve tener conto del comportamento dei contribuenti, della loro affidabilità, delle garanzie che gli stessi offrono circa una corretta applicazione del precetto tributario.

È anche vero, però, che detta esigenza deve essere coniugata con gli interessi dei singoli contribuenti che, al di là delle ripercussioni sulla persona, spesso in presenza di un accertamento non definito hanno difficoltà a contrarre finanziamenti esterni, partecipare a gare, ecc. L'esercizio delle funzioni di controllo, pertanto, deve essere necessariamente contenuto entro tempi accettabili, in linea con quanto avviene negli altri ordinamenti.

Al riguardo, il legislatore delegante sembra aver posto un preciso punto di partenza della decorrenza dei termini, peraltro, ovviamente, coincidente con il “periodo d'imposta nel quale si è verificato il fatto generatore”.

Sotto altri profili, per contro, si è limitato alla mera enunciazione di principi la cui applicazione, proprio per la loro indeterminatezza, potrebbe creare diversità di orientamenti pur essendo chiara la finalità volta ad evitare un eccessivo aggravio dei costi amministrativi per il contribuente in termini di eccessiva dilatazione  dei tempi di controllo.

Va da sé che fino a quando non si avrà il testo del decreto delegato è impossibile prevedere delle soluzioni. In ogni caso, sembra di poter rilevare che i termini di decadenza non saranno omogenei atteso che la delega richiama, da un lato, i “componenti ad efficacia pluriennale”; dall'altro “la perdita di esercizio per evitare un'eccesiva dilatazione di tale termine”.

La lettura del testo, francamente, sembra essere eccessivamente carente pur trasparendo l'obiettivo volto ad evitare che, per fatti anche di tipo gestionale, per le due fattispecie richiamate si agevoli la loro imputazione in limitati periodi d'imposta.

Un secondo aspetto riguarda i termini da indicare per quanto concerne l'obbligo di conservazione delle scritture contabili e dei supporti documentali.

Allo stato attuale, l'art. 22 del d.P.R.  n. 600/1973, lasciando invariati gli obblighi previsti dall'art. 2220 c.c. (10 anni), al comma 2 dispone che le scritture contabili obbligatorie previste dalla normativa tributaria devono essere conservate fino a quando non siano stati definiti gli accertamenti relativi al corrispondente periodo d'imposta, anche oltre termini di cui al citato art. 2220 c.c.

Diventa difficile ipotizzare una differente soluzione in quanto oggettivamente coerente con le esigenze delle parti del rapporto giuridico d'imposta e, eventualmente, dello stesso Giudice Tributario il quale, salvo modifiche al momento non prevedibili, ha comunque il potere di disporre accertamenti.

Ne consegue che, fermo restando il periodo minimo coincidente con i termini di decadenza del potere di accertamento, la certezza è connessa all'andamento dell'iter procedimentale che non è rimesso soltanto all'operato dell'Amministrazione finanziaria ma anche alle scelte del contribuente (definizione dell'accertamento, impugnazione, rinuncia al contenzioso, ecc.).

In ogni caso, limitare l'applicazione del principio della certezza del diritto soltanto alle ipotesi previste dall'art. 17 costituirebbe un grave errore di valutazione. Si  rende necessaria un'azione di coordinamento con i principi dello statuto dei diritti del contribuente  e dare un contenuto concreto ai canoni generali ivi indicati all'art. 1.

In altri termini, se è vero che le norme della legge n. 212/2000” in attuazione dei principi 3, 23 53 e 97 della Costituzione” costituiscono principi “Generali dell'ordinamento tributario” è necessario evitare che vengono puntualmente derogati, con una semplice norma ordinaria. Certo, essendo previsti da una legge ordinaria non potrebbe essere diversamente.

Sarebbe, però, molto più serio non prevedere  che possono essere derogate “o modificate solo espressamente e mai da leggi speciali” bensì stabilire che la deroga o la modifica può avvenire soltanto in casi eccezionali. Non potendo prevedere il futuro e non potendo escludere che esigenze straordinarie impongano l'adozione di provvedimenti con effetti immediati, anche retroattivi, la deroga e la modifica non possono essere evitate.

Si può evitare, invece, lo stillicidio cui si è assistito dall'entrata in vigore della legge 212/2003 essendo evidente che richiamando il carattere della “eccezionalità” e prevedendo, diversamente, la declaratoria della nullità, si limiterebbe fortemente il superamento del citato vincolo giuridico, sempre che, ovviamente, il Parlamento voglia seriamente perseguire gli interessi di carattere genarle, la tutela dei contribuenti e non la rincorsa ai voti.

La limitazione all'uso delle presunzioni

Notoriamente la normativa fiscale è caratterizzata dal frequente ricorso alle presunzioni, rimedio oggettivamente non sempre eliminabile. Ne consegue che la critica non è allo strumento, certamente necessario, bensì alle modalità  seguite per il loro utilizzo.

La norma  considera due ipotesi: una di carattere generale riguardante i maggiori componenti reddituali positivi e i minori componenti reddituali negativi. La seconda l'annosa questione della presunzione di distribuzione dei redditi ai soci conseguiti dalle società a ristretta base azionaria.

Il Legislatore, in entrambi i casi si è limitato ad enunciare i principi fissando solo in parte i necessari paletti, come pure sarebbe stato necessario, se non altro in considerazioni dei vincoli derivanti dall'art. 76 della Costituzione.

In particolare, in merito alla prima ipotesi  indica di fare riferimento al valore di mercato dei beni e servizi  oggetto delle transazioni nei soli casi in cui sussistono altri elementi rilevanti a tal fine. Sul versante pratico, in realtà, il valore di mercato,  soprattutto nei casi in cui esistono delle quotazioni ufficiali, sia l mercato primario che secondario, costituisce un elemento oggettivo di valutazione.

Se tale aspetto riguarda soprattutto determinati comparti (si pensi al settore immobiliare e finanziario), ad esempio in presenza dei presupposti per procedere all'accertamento induttivo, la delega può essere interpretata sia in senso restrittivo (ma i vantaggi per gli evasori potrebbero risultare rilevanti) ovvero in modo estensivo rischiando di incorrere nell'opposta situazione.

Pare, in altre parole, difficile comprendere quale “altri elementi rilevanti” occorra prevedere e, soprattutto dare un contenuto concreto al concetto di “rilevanza”; diversamente si corre il rischio di incorrere propria nell'incertezza che si vorrebbe evitare.

È innegabile che la rilevanza non può avere una significatività a 360 gradi e per ogni situazione dovendo sempre essere valutata di volta in volta. Se tale interpretazione è corretta, allora è difficile che si possa assicurare la certezza del diritto.

Ovviamente, in questa sede possono essere formulate solo considerazioni di carattere generale, fermo restando che una valutazione più attendibile potrà essere effettuata soltanto una volta noto il testo del decreto delegato.

Considerazioni sostanzialmente analoghe possono essere avanzate anche con riferimento alla seconda ipotesi considerata sebbene sullo specifico punto esista una copiosa giurisprudenza  che, ancorché spesso contraddittoria, potrebbe essere utile per mutuare gli aspetti ormai consolidati. Va considerato che l'ipotesi è stata introdotta proprio per evitare comportamenti elusivi resi possibili  dalla natura giuridica delle società di capitali ed equiparate e, quindi, a motivo della loro personalità giuridica e autonomia patrimoniale.

Il legislatore delegato ha inteso limitare la legittimità della distribuzione dei dividendi soltanto a due casi: esistenza di componenti reddituali positivi non contabilizzati o di componenti negativi inesistenti, ferma restando la medesima natura di reddito finanziario conseguito dai soci. Ne consegue che, ad esempio, se la contabilità è regolarmente tenuta e il reddito non viene in tutto o in parte dichiarato e non assoggettato a tassazione ma distribuito ai soci, la presunzione non si applica. Al riguardo, sulla opportunità della soluzione qualche dubbio pare legittimo.

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