Del poco esplorato mondo dei portatori di strumenti di capitale nelle ristrutturazioni del debito

01 Novembre 2023

L’art. 120-quater, comma 1, CCII contiene una complessa disciplina volta a regolare la posizione dei soci nella crisi d’impresa, contemperando le esigenze di questi ultimi con quelle delle classi di creditori (privilegiati e chirografari) dissenzienti. L’Autore, anche nel raffronto della “soluzione italiana” con la Direttiva Insolvency, chiarisce il contenuto della norma e ne appiana alcune pieghe interpretative.

Premessa

La questione dei portatori di strumenti di capitale nelle crisi di impresa è sempre stata intesa come secondaria nella visione del Legislatore italiano.  Visti costoro come ultimi della lista, in un mondo dominato dal principio del rispetto delle cause legittime di prelazione, il Legislatore si è più preoccupato che non potessero opporsi alle misure decise nel contesto della ristrutturazione che dei loro diritti e della loro funzione nella gestione della crisi (in tal senso erano dirette le disposizioni degli art. 163, comma 5, e 185, comma 6 del r.d. n. 267/1942 che, rispettivamente, prevedevano che la proposta concorrente potesse prevedere aumenti di capitale anche con esclusione o limitazione del diritto di voto e che durante la fase di esecuzione del concordato il Tribunale potesse nominare un amministratore giudiziario con il potere di convocare l'assemblea straordinaria della società debitrice e votare a favore dell'aumento di capitale previsto dalla proposta concordataria.  ).

Tale atteggiamento, d'altronde, ben si accoppiava con la concezione “colpevolista” della crisi, che ha dominato da sempre l'approccio nazionale.  In un sistema affollato di imprese familiari e di PMI, i portatori di strumenti di capitale finivano per essere, statisticamente, i gestori dell'impresa in crisi, e non poteva che valere anche per loro quella damnatio memoriae che è stato il tratto psicologico e culturale della gestione pratica e concreta dei fenomeni ristrutturatori.

La Direttiva Insolvency

La  Direttiva Insolvency (Dir. 2019/1023 del Parlamento Europeo e del Consiglio) affronta il tema dei portatori di strumenti di capitale, in specie, nei considerando dal 56 al 59 e in una serie di articoli che, fin dall'art. 2 – quello sulle definizioni,  che li annovera tra le “parti interessate” al piano di ristrutturazione –  conferiscono a tali soggetti un ruolo rilevante nel processo di risanamento.

Il considerando 56 ammette che gli Stati membri possano emanare norme che sacrificano i creditori poziori per tutelare gli interessi degli azionisti attraverso l'applicazione della regola di priorità relativa.

Il considerando 57 prevede che gli Stati membri possano forzare attraverso lo strumento della ristrutturazione trasversale del debito i portatori di strumenti di capitale ad accettare un piano di ristrutturazione quando esso dipenda dal loro voto.

Tuttavia il considerando 58 immediatamente riconosce che nelle PMI gli azionisti che non siano meri investitori ma proprietari dell'impresa e contribuiscano alla stessa con competenze in materia di gestione, potrebbero non essere incentivati a ristrutturare alle condizioni imposte dai creditori.  E infine, il considerando 59 ammette che ai fini dell'attuazione del piano si dovrebbe ammettere che i detentori di strumenti di capitale di PMI forniscano assistenza in forma non monetaria, attingendo ad esempio alla loro esperienza, reputazione o contatti commerciali.

La posizione del Legislatore europeo è dunque piena di equilibrio: da una parte i detentori di strumenti di capitale non devono e non possono impedire la ristrutturazione, ma dall'altra, se è utile che essi siano coinvolti nella sua esecuzione, devono essere valorizzati, anche sacrificando i creditori poziori nella scala della distribuzione del valore, e anche monetizzando contributi non monetari.

Il Codice della Crisi

La soluzione italiana ai due problemi posti dalla Direttiva, vale a dire il ruolo dei soci nelle decisioni che concernono il piano di ristrutturazione, e la tutela dei loro diritti, ha la sua principale sedes materiae nella Sezione VI-bis del Capo III del Titolo IV sugli strumenti di regolazione della crisi.  Si tratta di quattro articoli, dal 120-bis al 120-quinquies CCII, inseriti con il d.lgs. n. 17 giugno 2022, n. 83.

In questo quadro è cruciale l'interpretazione dei primi due commi dell'art. 120-quater CCII, titolato “Condizioni di omologazione del concordato con attribuzione ai soci”, che tanta difficoltà di lettura sta presentando. A tenore di questa norma:

“1. Fermo quanto previsto dall'articolo 112, se il piano prevede che il valore risultante dalla ristrutturazione sia riservato anche ai soci anteriori alla presentazione della domanda, il concordato, in caso di dissenso di una o più classi di creditori, può essere omologato se il trattamento proposto a ciascuna delle classi dissenzienti sarebbe almeno altrettanto favorevole rispetto a quello proposto alle classi del medesimo rango e più favorevole di quello proposto alle classi di rango inferiore, anche se a tali classi venisse destinato il valore complessivamente riservato ai soci. Se non vi sono classi di creditori di rango pari o inferiore a quella dissenziente, il concordato può essere omologato solo quando il valore destinato al soddisfacimento dei creditori appartenenti alla classe dissenziente è superiore a quello complessivamente riservato ai soci.

2. Per valore riservato ai soci si intende il valore effettivo, conseguente all'omologazione della proposta, delle loro partecipazioni e degli strumenti che attribuiscono il diritto di acquisirle, dedotto il valore da essi eventualmente apportato ai fini della ristrutturazione in forma di conferimenti o di versamenti a fondo perduto oppure, per le imprese minori, anche in altra forma.”.

Iniziamo dal “fermo quanto previsto dall'art. 112”, che sta a significare che l'articolo in commento si aggiunge alle disposizioni dell'art. 112 CCII, e le integra con ulteriori prescrizioni, di cui ora diremo.

“Se il piano prevede che il valore risultante dalla ristrutturazione sia riservato anche ai soci anteriori alla presentazione della domanda …”.  Qui è posta una condizione all'operare della norma: che il piano preveda benefici per i soci preesistenti alla domanda.  Ne segue che se questi soci cedono il passo ad altri soci il problema non dovrebbe porsi, salvo interrogarsi se non vi sia elusione qualora per questa “cessione di passo” i vecchi soci ricevano un qualche compenso dai nuovi soci.  A mio avviso la risposta deve essere nel senso di salvare la sostanza, e quindi di applicare la regola anche con riguardo ai nuovi soci ogni volta che il loro ingresso sia accompagnato da dazioni in denaro o in natura a favore dei vecchi.

“In caso di dissenso di una o più classi di creditori…”. Qui si fa riferimento al caso in cui il concordato non sia stato approvato da tutte le classi, conseguendone che il tema della valutazione degli interessi dei soci non si pone qualora il concordato abbia avuto approvazione unanime delle classi, come previsto dall'art. 109, quinto comma, CCII.

“Il concordato … può essere omologato se il trattamento proposto a ciascuna delle classi dissenzienti sarebbe almeno altrettanto favorevole rispetto a quello proposto alle classi del medesimo rango e più favorevole di quello proposto alle classi di rango inferiore, anche se a tali classi venisse destinato il valore complessivamente riservato ai soci …”.  È questa la previsione più difficile da inquadrare.  Il suo significato generale è quello di costringere il Giudice dell'omologa a un calcolo: distribuire idealmente il valore riservato ai soci alle classi di rango pari o inferiore a quella dissenziente, per verificare che tale classe riceva comunque almeno quanto ricevono le classi di pari rango o di più di quello che ricevano le classi di rango inferiore anche dopo questa distribuzione.

Ma questo criterio, se non viene adeguatamente qualificato, può sfociare nell'assurdo. Sappiamo infatti che, sul piano formale, la società debitrice deve presentare all'omologa un patrimonio netto positivo – l'equity – come effetto della sopravvenienza attiva degli stralci accettati dai creditori e delle eventuali immissioni di mezzi freschi (in tale senso milita l'art. 89 CCII, che riprende il contenuto del previgente art. 182-sexies l. fall.). Sappiamo anche che un patrimonio netto positivo è aziendalmente necessario per lo sviluppo e la fattibilità del piano.  Quindi a meno che non si postuli l'esistenza di uno sfavor del Legislatore per le ristrutturazioni operate dai medesimi gruppi di comando (il che metterebbe frontalmente in contrasto la legge di adozione con la Direttiva), dobbiamo pensare che l'esistenza di un adeguato patrimonio netto all'omologa sia conditio non solo formale ma sostanziale di legge.

Detto questo, come si concilia questa evidenza con la possibilità per una classe dissenziente, una qualunque classe dissenziente, di far mancare le condizioni di omologazione quando ai soci preesistenti sia riservato del valore, cosa necessaria per legge?  Qui sta il problema che getta nell'assurdo una interpretazione indiscriminata del concetto di classe dissenziente.

Consideriamo infatti il dissenso di una classe di chirografari.  Poniamo che essa sia posta nel punto più basso delle percentuali di distribuzione (prenda ad esempio il 5%, mentre altre classi di pari rango prendono il 10%).  Può la norma essere interpretata, così, sic et simpliciter, nel senso che il dissenso di questa classe possa provocare la non omologazione, qualora i soci storici ricevano un qualche valore?  La risposta non può che essere negativa.

L'aporia si può risolvere ricorrendo a una interpretazione letterale e a una sistematica della regola.  Cominciamo dalla prima. 

La classe dissenziente che rileva qui è quella che ha classi di rango inferiore; di conseguenza, deve trattarsi di classe privilegiata e non chirografaria. Il dissenso dei chirografari vale solo per un altro genere di verifica, disposta nel periodo successivo del primo comma, di cui diremo dopo.

Ma vi è un ulteriore approccio interpretativo che completa il senso sistematico di questa previsione.  La classe dissenziente che può condizionare l'omologazione deve non solo essere privilegiata ma anche “interessata” al piano di ristrutturazione.  E per tale intendo la classe che, con la regola di priorità assoluta, riceverebbe qualcosa di più di quanto riceve per l'applicazione della regola di priorità relativa.

Facciamo un esempio.  L'Erario, privilegiato, riceve 100 (complessivamente) dal piano.  Con la regola di priorità assoluta riceverebbe 150.  Quindi esso contribuisce per 50 alla remunerazione delle classi diverse da esso.  Ebbene se dalla distribuzione del valore riservato ai soci alle classi che sono pari o inferiori risultano dei valori per classe che superano quanto riservato all'Erario allora il concordato non può omologarsi.  Infatti, l'Erario può accettare di sussidiare con il suo sacrificio i creditori che stanno al suo grado e/o sotto di esso e anche i soci, ma non in misura tale che la somma di quanto, ventilando, va ai soci e ai creditori di pari rango o inferiori porti a un valore di soddisfazione superiore al proprio.

Insomma, con riferimento alle classi di privilegiati, si introduce un limite alla regola di priorità relativa, che non deve essere tale da spogliare chi ne subisce gli effetti più di quanto ragionevole, tenuto conto anche di quanto rimane ai soci preesistenti.

Ma, e qui sta il punto, la classe dissenziente rispetto alla quale fare la verifica è solo quella dei creditori interessati dal piano, non dei creditori che dal piano non subiscono alcun danno rispetto alla regola della priorità assoluta.

Ne segue, ribaltando l'esempio, che se l'Erario prendesse non 100 ma 160, quando ciò che dovrebbe prendere secondo la regola della priorità assoluta applicata al valore di liquidazione e a quello eccedente è 150, non vi sarebbe alcun interesse a non omologare il piano qualora attribuendo alle classi di pari o inferiore grado il valore dato ai soci una di queste prendesse (percentualmente) più di quanto riceve l'Erario.

In questo modo l'interpretazione si inquadra nel sistema, e prende senso.

Inciso sulle classi interessate

Questo aspetto dell'interesse domina tutta la vicenda del dissenso delle classi e delle sue conseguenze.  Lo troviamo nell'art. 112, commi 2, lett. b), 3 e 4, CCII.  Possibile che il Legislatore nazionale si sia dimenticato di precisare, come invece fa la Direttiva Insolvency, che il creditore dissenziente deve essere interessato?  In un primo momento ho ritenuto che si trattasse di una svista lessicale.  In effetti lo è.  Il Legislatore avrebbe evitato molti sforzi interpretativi mettendo questa semplice parola.

Ma, invero, vi è una emergenza positiva di questo concetto nel CCII.  È nell'art. 87, comma 1, CCII che specifica il contenuto del piano concordatario.  Tra le informazioni che esso deve fornire vi è quella relativa alle “parti interessate” (lett. l)) e alle “parti non interessate” (lett. n)).  Poiché nell'articolo sulle definizioni del CCII non vi è una esplicitazione del significato di queste espressioni, si deve fare rinvio alla Direttiva Insolvency che all'art. 2 invece lo precisa spiegando che “parti interessate” sono: “i creditori, compresi, se applicabile ai sensi del diritto nazionale, i lavoratori, o le classi di creditori, e, se applicabile ai sensi del diritto nazionale, i detentori degli strumenti di capitale, sui cui rispettivi crediti o interessi incide direttamente il piano di ristrutturazione” (sul senso di questa definizione rinvio al mio contributo su questo Portale il 15 giugno 2023: Tentativo di interpretazione dell'art. 112, secondo comma, CCII: un mistero avvolto in un enigma).

Ne segue, insomma, che il debitore deve chiarire in sede di ammissione quali classi di creditori subiscono un pregiudizio dal piano di concordato nel senso di ricevere complessivamente meno di quanto potrebbero se si applicasse la regola di priorità assoluta sia sul valore di liquidazione che sull'eccedenza.  Sarà su questa base che il Giudice potrà valutare se un creditore abbia o meno interesse a contestare l'omologazione.

La questione è anche assorbita dal principio dell'interesse processuale, che regola l'accesso alla tutela giurisdizionale come fattore condizionale.  Che interesse ha un creditore che dal piano riceve più di quanto gli spetterebbe applicando la regola della priorità assoluta ad avanzare opposizioni? O che interesse vi è a tutelarlo contro spoliazioni a favore di soci?  Nessuno.  E la sua domanda non potrà essere ammessa, o la sua pretesa tutelata. 

Le classi chirografarie

Torniamo all'esame del primo comma dell'art. 120-quater CCII.  Il suo ultimo periodo recita: “Se non vi sono classi di creditori di rango pari o inferiore a quella dissenziente, il concordato può essere omologato solo quando il valore destinato al soddisfacimento dei creditori appartenenti alla classe dissenziente è superiore a quello complessivamente riservato ai soci”.

Mi pare anzitutto che questa norma confermi l'interpretazione letterale testé offerta: le classi dissenzienti di cui al periodo precedente sono solo le privilegiate e non le chirografarie.

Essa va poi intesa nel suo meccanismo applicativo.  Il confronto tra valore riservato alla classe chirografaria dissenziente e valore riservato complessivamente ai soci è di tipo assoluto o relativo? 

La norma, per come è scritta, potrebbe lasciare propendere per la prima soluzione.  Ma ciò condurrebbe a risultati assurdi.  Una classe dissenziente, se pure trattata molto bene (ad esempio, il 20%), potrebbe far saltare il concordato perché essendo di importo complessivo ridotto (ad esempio il 10% della debitoria chirografaria) si vedrebbe riservato un valore assoluto (pari al 2% della debitoria chirografaria) che facilmente potrebbe risultare inferiore al valore complessivamente riservato ai soci.

In realtà questa norma deve essere letta insieme a quella che riguarda le classi privilegiate per le quali è previsto un confronto di carattere relativo, procedendo alla distribuzione del valore riservato ai soci su tutte le classi di chirografari, dissenzienti o consenzienti.

Così, ad esempio, se vi sono chirografi per 1.000, divisi in tre classi - A: 300, B: 600 e C: 100 -, che ricevono rispettivamente il 5%, il 10% e 3% del loro credito, e il valore riservato ai soci preesistenti è di 40, avremo la seguente distribuzione di valore.  Alla classe A va attribuito il 30% di 40, cioè 12, pari al 4% del credito: la condizione è superata; alla classe B, va attribuito il 60% di 40, cioè 24, pari al 4% del credito: la condizione è superata; alla classe C, va attribuito il 10% di 40, cioè 4, pari al 4% del credito: la condizione non è superata.

Si pone così una sorta di soglia minima di soddisfo dei chirografari.

Al riguardo faccio due osservazioni.

Primo, non vedo alcuna differenza tra concordato in continuità diretta e indiretta, come qualcuno ha ipotizzato, quasi che il concordato in continuità indiretta sia un doppio concordato: liquidatorio per il debitore e di continuità per il terzo che continua l'azienda.  La legge nulla dispone al riguardo, lasciando che siano i creditori a decidere.  E in tal senso mi pare militi il terzo comma dell'art. 120 quater che prevede che i soci possano opporsi alla omologazione del concordato se subiscono pregiudizio rispetto all'alternativa liquidatoria.  Questa norma appare di rara applicazione, ma è pur sempre possibile.  In specie nelle situazioni in cui la crisi è di tipo finanziario e non operativo.  Pensiamo a imprese redditizie o con valori patrimoniali impliciti rilevanti che abbiano debiti che non riescono a fronteggiare per crisi di fiducia bancaria.  Qui è concepibile un concordato in continuità indiretta che consente di valorizzare il patrimonio – creando un surplus rispetto alla liquidazione - e di lasciare ai soci della debitrice un fondo di valore dopo il pagamento dei debiti (falcidiati).  In sostanza qui vi saranno due equity: quello della società che continua l'attività  ed esegue il concordato in modo indiretto e quello del debitore.  Nulla di scandaloso se ai soci di quest'ultimo è lasciato un quid di valore residuo: essi hanno collaborato alla ristrutturazione rendendosi disponibili alla cessione del patrimonio, trovando il terzo compratore, affrontando i mille rischi e incombenti della procedura.

La seconda osservazione è relativa al significato strutturale di questa previsione: essa regola il conflitto tra valore lasciato ai soci e valore riservato ai chirografari.  Il problema della misura della soddisfazione dei creditori è affrontato nel codice da una norma esplicita, l'art. 84, comma 3, CCII che impone di riservare ad essi una utilità specificamente individuata ed economicamente valutabile (che può consistere anche nella prosecuzione o rinnovazione dei rapporti contrattuali), e da una regola implicita ed immanente, quella della causa concreta, che vuole che la soddisfazione non sia simbolica.  La norma in commento inserisce un paletto in più: che ai creditori chirografari di una classe dissenziente pervenga più di quanto, proporzionalmente, spetta ai soci.  È una regola questa che non trovo nella Direttiva Insolvency, che si preoccupa solo dei creditori danneggiati dalla priorità relativa, statisticamente diversi dai creditori chirografari che normalmente sono da questa regola avvantaggiati.  Diciamo che, ancora una volta, dovrebbe valere il criterio dell'interesse: solo nei rari casi in cui i creditori chirografari siano pregiudicati nel loro interesse dalla regola della priorità relativa la norma dovrebbe trovare applicazione. Non vi sarebbe insomma nessun vantaggio a non omologare un concordato nel quale una classe dissenziente di chirografari che non riceverebbe alcunché dalla liquidazione giudiziale e dal surplus concordatario riceva proporzionalmente meno di quanto ricevono i soci.

Il valore riservato ai soci

Il secondo comma dell'art. 120-quater CCII affronta il problema del calcolo del valore riservato ai soci.  Esso è “il valore effettivo, conseguente all'omologazione della proposta, delle loro partecipazioni e degli strumenti che attribuiscono il diritto di acquisirle, dedotto il valore da essi eventualmente apportato ai fini della ristrutturazione in forma di conferimenti o di versamenti a fondo perduto oppure, per le imprese minori, anche in altra forma”.  È evidente che questo valore è una funzione del capitale economico dell'impresa, come determinato con le metodiche standard per questo tipo di valutazioni, apprezzando adeguatamente il rischio di riuscita della ristrutturazione.  Una illustrazione molto autorevole di queste metodiche si trova nei Principi Italiani di Valutazione, elaborati dall'Organismo Italiano di Valutazione.

Da notare come il Legislatore nazionale ha colto l'indicazione di quello europeo circa la possibilità per i soci di contribuire anche in forma non monetaria, ad esempio con apporti di lavoro, ma abbia, a mio avviso inopportunamente, limitato tale previsione solo alle imprese minori (che, ai sensi della definizione contenuta nell'art. 2 CCII sono veramente piccole) e non anche alle PMI.  Data la struttura dell'economia italiana un allargamento della previsione anche a questa categoria avrebbe consentito di tenere conto del lavoro che i soci, spesso gruppi familiari che amministrano e gestiscono in varie posizioni la società, svolgono nella fase di gestione della crisi per salvare quel che resta di una impresa che hanno creato o ricevuto dalle precedenti generazioni.

Conclusioni

In questo contributo abbiamo ripercorso l'approccio adottato dalla Direttiva Insolvency per far fronte al problema della posizione dei portatori di strumenti di capitale nei piani di ristrutturazione.  Da una parte il Legislatore europeo si preoccupa di evitare che tali soggetti, in virtù dei poteri che assegna loro l'ordinamento, possano bloccare piani favorevoli pergli altri portatori di interessi; ma dall'altra prende atto del fatto che, in specie nelle PMI, i soci possono rivelarsi una risorsa preziosa nel favorire il successo del risanamento e che i loro interessi vanno tenuti in debito conto, anche sacrificando parte di quelli dei creditori.

In questa luce, abbiamo esaminato i primi due commi dell'art. 120-quater del CCII per tentarne una interpretazione scevra dai pregiudizi che fino a qui hanno condizionato la visione della posizione dei soci.

Paradossalmente, l'art. 120-quater CCII assolve alla funzione di “sdoganare” anche nell'ordinamento italiano il diritto dei soci preesistenti al dissesto di conservare la proprietà dell'impresa e di avere un vantaggio dalla ristrutturazione in continuità, e ciò sia nel caso di continuità diretta che indiretta.  La funzione di questa norma è anzi quella di calmierare tale vantaggio, onde evitare situazioni in cui la ristrutturazione sia fondamentalmente pagata dai creditori e si risolva in un affare per i soci.

Come abbiamo visto, questa preoccupazione conduce il Legislatore a elaborare regole distinte per i creditori privilegiati e per i chirografari

Per i primi, se dissentono in classe, si dovrà verificare che quanto è loro attribuito sia almeno pari a quello che ricevono i creditori di classi di rango pari e inferiore qualora a tali classi si aggiunga proporzionalmente il valore riservato ai soci.  Per i secondi, sempre se dissentono in classe, si dovrà verificare che il valore riservato a ciascuna classe dissenziente sia proporzionalmente superiore a quello riservato complessivamente ai soci.

In ambo i casi, abbiamo osservato, onde evitare mancate omologazioni di concordati in cui la regola della priorità relativa avvantaggi le classi dissenzienti, dovrà esser considerata solo la posizione delle classi interessate, vale a dire quelle, e solo quelle, che dalla ristrutturazione in continuità operata con la regola della priorità relativa ricevono complessivamente meno di quello che riceverebbero applicando la regola della priorità assoluta.  Sono costoro, e solo costoro, che stanno finanziando, con il loro sacrificio, le classi di altri e/o i soci medesimi.

Il valore riservato ai soci preesistenti è calcolato come valore economico dell'impresa coi metodi suggeriti dalla prassi aziendalistica, come consacrati, ad esempio, nei Principi Italiani di Valutazione.  E ad esso va tolto quanto contribuito in denaro o in natura da essi, considerando anche, con mero riguardo alle imprese minori e non anche alla più ampia categoria delle PMI, eventuali apporti in opere.  Ove il ricambio tra soci nuovi e vecchi sia avvenuto con una compensazione economica, vi può essere l'interesse a verificare che la disciplina non sia stata elusa, il che porterebbe a considerare la posizione dei nuovi soci come quella dei vecchi per la parte di valore che i primi abbiano assegnato ai secondi, e che la ristrutturazione deve consentire di recuperare.

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